Bitti visto da Vittorio Angius, di Luciano Carta
Rubrica: ISTORIAS DE SARDIGNA contada dae Luciano Carta. Sa de sette.
1. Tutti paesi della Sardegna dell’Ottocento godono di un speciale privilegio: tra gli inizi degli Anni Trenta e la fine degli Anni Cinquanta sono stati analiticamente descritti nei loro usi e costumi, negli aspetti economici, sociali, demografici, geografici, storico e monumentali grazie all’enorme lavoro di perlustrazione e di raccolta di dati effettuati dallo scolopio Vittorio Angius.
Tale lavoro gli era stato richiesto da Goffredo Casalis (1781-1856), l’abate saluzzese che si era incaricato di coordinare l’intrapresa editoriale, promossa dagli editori torinesi Maspero, Cassone, Marzorati e Vercellotto, del Dizionario geografico storico statistico commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sardegna. L’opera, che fu pubblicata in 26 volumi, suddivisi in 29 tomi, tra il 1833 e il 1856, cui si aggiunsero, tra il 1856 e il 1857, due volumi di Appendici, si proponeva di offrire un contributo oggettivamente attendibile di conoscenze dei territori dello Stato sabaudo che riuscisse utile, oltre che ai cultori di memorie locali, anche al mondo imprenditoriale e commerciale, ai funzionari pubblici e agli stessi governanti. Il Dizionario, come si legge nel sottotitolo, doveva risultare “opera utile agli impiegati nei pubblici e privati uffizi a tutte le persone applicate al foro alla milizia al commercio e singolarmente agli amatori delle cose patrie”. In altre parole, il Dizionario doveva riuscire un valido contributo ad una politica dinamica di riforme e di sviluppo della società e dello Stato, secondo le direttive del riformismo illuminato perseguito dalla dinastia sabauda a partire dalla seconda metà del Settecento[1].
Per la redazione delle ‘voci’ relative alla Sardegna, Giuseppe Manno, che contribuì in modo significativo alla realizzazione dell’impresa, aveva suggerito inizialmente al Casalis di rivolgersi all’erudito cagliaritano Ludovico Baille, allora direttore della Biblioteca Universitaria di Cagliari e censore dell’Università, benemerito e noto cultore di studi sulla Sardegna[2]. Motivi di salute impedirono al vecchio Ludovico Baille di accettare l’incarico, ma fu egli stesso a trasferirne l’incombenza, con il consenso del Casalis, al trentacinquenne scolopio cagliaritano Vittorio Angius, “giovane ardente negli ottimi studi d’ogni maniera”, il quale, oltre a sobbarcarsi l’onere di raccogliere i materiali richiesti agli Intendenti ed ai Sindaci, s’incaricò anche di redigere direttamente le ‘voci’ relative alla Sardegna divenendo così, a pieno titolo, coautore del Dizionario[3].
Nato a Cagliari il 18 giugno 1797, Vittorio Angius fu uomo d’ingegno molto versatile, portato sia agli studi umanistici che a quelli scientifici; aveva però un carattere scontroso e altezzoso e ciò lo indusse più volte a polemiche astiose, che finirono per isolarlo. Solo e ridotto all’indigenza morì a Torino il 19 marzo 1862, dimenticato da tutti. “Egli è dimenticato da tutti – ha scritto di lui Giovanni Spano a un anno di distanza dalla sua morte -, nessuno ne parlò e molti ignorano perfino la sua morte, mentre meriterebbe una speciale biografia”[4].
In effetti, soprattutto grazie alla redazione di pressoché tutte le ‘voci’ relative alla Sardegna, circa un terzo di tutta l’opera, del Dizionario del Casalis, ma non solo per esse, Vittorio Angius è sicuramente una personalità di spicco tra gli intellettuali sardi che nel secondo quarto dell’Ottocento diedero vita a quella ricca stagione culturale, chiamata periodo della “rinascenza sarda”. A partire dalla pubblicazione della Storia di Sardegna di Giuseppe Manno e sulle orme di essa, intellettuali come l’Angius, Pasquale Tola, Pietro Martini, Giovanni Spano, Giovanni Siotto Pintor, per ricordare solo i più significativi, diedero un impulso notevole a ricostruire, nel generale quadro della cultura romantica che anche in Sardegna faceva sentire i suoi effetti, un sentimento nuovo dell’identità sarda attraverso validi contributi di carattere storico, geografico, demologico e linguistico, tutti indirizzati a rivendicare alla Sardegna un ruolo specifico nella storia culturale italiana ed europea. L’Angius inoltre, come deputato del Parlamento subalpino durante la prima e la Terza Legislatura tra il 1848 e il 1853, fu tra coloro che parteciparono da protagonisti, sebbene da posizioni non sempre improntate a mentalità progressiva, ma sempre fondate su un impianto conoscitivo di prim’ordine, al moto risorgimentale che, iniziato con la “fusione perfetta” della Sardegna con gli Stati di terraferma, porterà alla costituzione dell’Unità d’Italia. Inoltre egli non fu solo scrittore di cose patrie, ma fu anche poeta, giornalista, romanziere, cultore di argomenti scientifici e divulgatore dei progressi della scienza e della tecnica.
Solo recentemente – dopo un ‘medaglione’ a lui dedicato da Francesco Loddo Canepa nel 1926[5] – la storiografia ha prestato la dovuta attenzione a questo importante intellettuale dell’Ottocento sardo, con saggi di Bruno Josto Anedda, Girolamo Sotgiu, Aldo Accardo e di chi scrive[6] e con la riproposizione in diverse edizioni del suo grande contributo al Dizionario del Casalis[7].
2. Quando, attorno al 1832, Vittorio Angius ricevette l’incarico di redigere le ‘voci’ del Dizionario relative alla Sardegna, egli era un letterato abbastanza noto negli ambienti colti dell’isola. Sacerdote appartenente all’Ordine delle Scuole Pie fondato da San Giuseppe Calasanzio, dal 1826 era docente di Retorica nelle Scuole sassaresi e aggregato al Collegio di Filosofia dell’Università turritana. Creato preside delle Scuole scolopiche di Sassari nel 1829, nel 1835 fu trasferito a Cagliari per volontà del governo con l’incarico di presiedere le Scuole del Collegio di San Giuseppe. Il suo credo pedagogico, che voleva modificato l’impianto educativo e disciplinare, troppo improntato ai rigori orbiliani e a contenuti ormai desueti, lo misero in contrasto con il padre Basilio Dettori, Provinciale dell’Ordine, per cui fu esonerato dall’incarico. Nominato vice-bibliotecario della Biblioteca Universitaria di Cagliari nel 1838, fu prima collaboratore del Baille e successivamente, dopo la morte dell’erudito cagliaritano nel marzo 1839, dello Spano, che era stato chiamato a succedergli nella direzione di quell’istituzione.
Risalgono a questo periodo tre orazioni latine, contenenti l’elogio di tre importanti personaggi della storia sarda, Domenico Alberto Azuni, Gian Francesco Fara ed Eleonora d’Arborea[8]. Più citate che lette, queste orazioni Più citate che lette e studiate, le tre orazioni latine pubblicate, contenenti gli elogi dell’Azuni, del Fara e di Eleonora d’Arborea, costituiscono momenti importanti della maturazione di quell’ideologia ‘sardista’ che sta alla base dell’opera dei maggiori rappresentanti della “rinascenza sarda” della prima metà dell’Ottocento. Un’ideologia indirizzata, sulle orme di Giuseppe Manno, a delineare, secondo modelli romantici caratteristici della cultura italiana ed europea della prima metà dell’Ottocento, un’immagine della Sardegna dotata di un’identità specifica, tesa a individuare, come si diceva allora, il “genio del popolo sardo”, in raffronto e anche in competizione con le caratteristiche identitarie degli altri popoli. La delineazione di una cultura identitaria, quindi, che non doveva rinchiudersi in se stessa, ma doveva aprirsi al confronto con gli altri popoli, che si proponeva di delineare gli aspetti specifici della sua storia e della sua cultura capaci di creare rapporti dinamici e comunicazione costruttiva con le altre civiltà e con le altre culture. Gli intellettuali della cosiddetta “rinascenza sarda” contribuirono, cioè, a elaborare un concetto di identità della Sardegna che, partendo dalle specificità etniche, linguistiche e storiche, fosse capace di far conoscere i valori della propria civiltà e di renderli dinamicamente compartecipi dei valori delle altre culture, in particolare di quelli progressivi e propulsivi della società moderna[9].
Se le tre Orazioni costituiscono, per così dire, il primo abbozzo del suo programma politico-culturale, la rivista mensile Biblioteca sarda, da lui fondata e interamente redatta tra il 1838 e il 1839, costituì quasi un pendant della ricerca storico-erudita che di quel programma avrebbe dovuto essere lo strumento di carattere scientifico e allo stesso tempo divulgativo[10]. Con la Biblioteca sarda l’Angius realizzava la sua prima esperienza giornalistica, che egli coltiverà anche negli anni successivi, quando, trasferitosi a Torino nel 1840, divenne tra io 1841 e il 1844, prima collaboratore del settimanale Il Dagherotipo fondato da Angelo Brofferio, e poi direttore del periodico Il Liceo[11].
La decisione trasferirsi a Torino nasceva sia dall’esigenza di allontanarsi dall’ambiente divenuto per lui invivibile all’interno dell’Ordine religioso di appartenenza – proprio a Torino nel 1844 egli avrebbe ottenuto la dispensa dai voti religiosi per passare nelle file del clero secolare – sia alla necessità di seguire più da vicino la pubblicazione dei suoi lavori nel Dizionario e di completare le sue ricerche storiche negli Archivi di Corte, soprattutto in relazione alla storia dei feudi. Al momento della partenza il Dizionario era giunto al 6° volume, e l’Angius aveva già pubblicato le ‘voci’ sulle città e paesi della Sardegna fino alla lettera F.
Sebbene l’impegno del Dizionario abbia costituito l’aspetto prevalente della sua attività di studio, che sarebbe culminata tra il 1853 e il 1856 con la pubblicazione della ‘voce’ Sardegna distribuita in tre ponderosi tomi, nella capitale subalpina l’Angius proseguì nella realizzazione del suo progetto politico-culturale con la pubblicazione dell’opera Leonora d’Arborea, una sorta di romanzo storico in cui non solo esaltava le impresa dell’eroina sarda ma dava vita a quella che egli definì “l’epopea della nazione sarda”[12]. Inizialmente scritta in sardo e successivamente tradotta in italiano per ragioni editoriali, l’opera intendeva descrivere la civiltà del periodo giudicale, epoca d’oro della nostra storia impersonata da Eleonora, che egli si proponeva di rappresentare in tutti i suoi aspetti, sociale, politico, letterario, artistico, linguistico e di costume. “In custa epopea subra s’impresa istorica de Leonora – scriveva l’Angius allo Spano – si presentat totu e quantu appartenit a sa Sardinia, et sunt totu referidos sos costumenes et usos nostros, aberindesi su poema in Monteleone (casteddu), de inde passande in Ardari, in Gallura, in Terranova, in Posada, in sos saltos de Montenieddu, torrande in Ardari, e inde procedende in su Goceanu in su Marghine in sa Planargia in Arborea, pustis in Parte Barigadu (Fordongianus) in Parte Useddus, in Sardara, Sellori, Sigerro e Sulchis, et terminande in sos cuccuros de Caralis”[13]. E in una successiva lettera in data 19 aprile 1844, allo Spano che gli chiedeva notizie dell’opera epica su Eleonora, l’Angius rispondeva: “Ista isectende sa Leonora? Hapas patientia ancora unu pagu, qua so tribaliande a’ sa traduzione italiana. Custa finida subitu hapo a pubblicare su programma, et pustis has a legere su solenne pastissu qui hapo factu pro celebrare sa eroina sarda et impare representare sa natione in omni respectu, de modu chi non restet che pagu a ischire de’ sa natione nostra facta qui si siat sa lectura de’ su interu poema”[14].
Sebbene l’opera, pubblicata nel 1847, sia alquanto mediocre dal punto di vista letterario, essa è significativa della volontà dell’Angius di rivendicare la dignità e l’importanza della storia e della cultura della Sardegna nella fase in cui l’intellettualità e la classe dirigente isolana, che si preparavano alla “fusione perfetta” con gli Stati di Terraferma, rivendicavano un ruolo di pari dignità della Sardegna con la civiltà italiana.
Tra il 1848 e il 1853 l’Angius fu anche deputato al Parlamento subalpino, dove si distinse per la sua conoscenza meticolosa dei problemi concreti della Sardegna e per la coraggiosa battaglia, egli sacerdote, per l’abolizione delle decime ecclesiastiche, ultimo relitto dell’arcaica società feudale, recentemente abolito dalla politica di riforme di Carlo Alberto tra il 1836 e il 1843[15]. Segno non solo della coscienza di un’indilazionabile processo di modernizzazione delle strutture sociali, politiche ed economiche della Sardegna, ma anche di una grande curiosità intellettuale e di una significativa apertura alle conquiste della scienza e della tecnica. Di carattere tecnico-scientifico sono, infatti, due importanti saggi pubblicati nel 1855 e nel 1857, dedicati al volo degli aerostati: L’automa aerio o sviluppo della soluzione del problema della direzione degli aerostati e Nuovi studi sul problema dell’aerostato[16].
Nel 1859, a due anni dalla conclusione della stampa del Dizionario del Casalis, egli pubblicava a proprie spese un’integrazione al volume XVIII quater sulla Sardegna in cui offriva un meticoloso regesto degli atti degli Parlamenti sardi dal secolo XVII al secolo XIX[17], che avrebbe costituito un punto di riferimento obbligato fino ai nostri giorni per la conoscenza delle istituzioni parlamentari sarde di Ancien Régime, prima della pubblicazione dell’edizione critica degli Acta Curiarum Regni Sardiniae iniziata nel 1984 e ancora oggi assai lontana dalla sua conclusione[18].
Occorre avere presenti gli aspetti sopra delineati del pensiero e dell’opera dell’Angius per un adeguato inquadramento del suo lavoro per il Dizionario del Casalis, in cui sono inserite le notizie relative al paese e al territorio di Bitti. Un lavoro che tra il 1832 e il 1840 lo impegnò assiduamente sia con la raccolta e classificazione dei dati statistici che gli venivano gradatamente forniti dai funzionari pubblico e soprattutto dai parroci e sacerdoti tramite appositi questionari opportunamente loro inviati, sia attraverso un’indefessa perlustrazione di tutta l’isola, che egli percorse palmo a palmo per constatare di persona le caratteristiche di ciascun territorio, che egli seppe descrivere con ricchezza di dati e con talento di attento e appassionato viaggiatore[19].
4. Del territorio e del paese di Bitti l’Angius scrive in due distinti articoli del Dizionario dedicati rispettivamente alla descrizione del dipartimento di Bitti, “anticamente Bithe o Vithi”[20], appartenuto al Giudicato di Gallura e alla descrizione del villaggio di Bitti, “capoluogo della contrada di quel nome”[21]. Tutti i dati contenuti in questi due articoli, apparsi nel volume 2° del Dizionario del Casalis pubblicato nel 1834, si riferiscono al 1833 e sono frutto dell’osservazione fatta dall’autore durante le sue peregrinazioni per l’isola dello stesso anno. Inoltre, grazie alla trattazione unitaria della provincia di Nuoro, la cui voce apparve nel 12° volume pubblicato nel 1843, è possibile effettuare una comparazione dei dati demografici ed economici e verificare l’evoluzione del territorio in un periodo di tempo compreso tra il 1826 e il 1843; tali dati statistici sono desunti in parte da quelli resi noti da monsignor Giovanni Maria Bua, amministratore apostolico della diocesi fino al 1840, e in parte da quelli forniti dall’amministrazione provinciale[22].
In epoca medioevale il dipartimento di Bitti, che si estendeva per circa 120 miglia quadrate nell’altopiano impropriamente denominato “quarta Barbagia”[23] dallo storico cinquecentesco Gian Francesco Fara e che comprendeva anticamente numerosi centri abitati, di sei dei quali le memoria aveva conservato il nome (Dure, Oloùsthes, Nòrcali, Ghellài, Lassànbis e Cuccuru-alvu), nell’Ottocento era costituito da soli tre centri abitati: Bitti, Gorofai e Onanì. Era però evidente già da allora, nota l’Angius, che nell’antichità più remota e durante le dominazioni cartaginese, romana e bizantina, l’altopiano era densamente abitato, come dimostravano i numerosi nuraghi e tombe di giganti sparse nel territorio e una costruzione che faceva pensare a una fortezza e che “i Bittesi appellano Kitathe”[24]. Considerato “una delle terre più elevate dell’isola”, il pianoro bittese, confinante a Nord con il Montecuto, a Sud con l’incontrada di Nuoro, a Ovest con il Goceano e con un lembo del Marchesato di Orani e ad Est con la marca di Posada, si caratterizzava per l’aria pura e salubre, per la grande estensione delle selve ghiandifere e per l’abbondanza delle acque provenienti dalle sue montagne, che davano origine a Est al fiume Posada attraverso l’affluente Dore, e ad Ovest al Tirso, il principe dei fiumi sardi, che ha le sue scaturigini nei b alzi dell’altopiano bittese e del confinante altopiano di Buddusò.
In questo vasto territorio nel 1833 risiedevano solo 2877 abitanti, suddivisi in 921 famiglie, gran parte delle quali erano a Bitti, il centro più grosso con 2500 abitanti e 820, in procinto allora di inglobare nel suo tessuto urbano anche il villaggio di Gorofai, oggi quartiere di Bitti, che constava di appena 227 anime appartenenti a 59 famiglie; ancora più piccolo era il terzo villaggio del dipartimento, Onanì, che constava di appena 150 abitanti distribuiti in 42 famiglie. Da una comparazione dei dati demografici nel decennio 1826-1835 si evince essersi verificato a Bitti un lieve decremento della popolazione, oscillante tra un massimo di 2510 abitanti nel 1827 e un minimo di 2176 nel 1831, dovuto ad un’epidemia di vaiolo nel biennio 1830-31[25] e ad un parziale spostamento di famiglie verso Gorofai, spostamento che oscilla tra i circa 330 abitanti nel quadriennio 1826-1829, e il 192 del 1830-31; un analogo andamento demografico si riscontra nel villaggio di Onanì, che raggiunge un massimo di 192 abitanti nel 1829 per giungere ad un minimo di 129 nel 1831. In generale è però da notare che appare discreta la longevità della popolazione, indice di un clima salubre anche se piuttosto rigido nei mesi invernali, attestandosi l’età media sui 70 anni; una longevità che appare considerevole soprattutto se confrontata con le popolazioni dei Campidani e delle zone paludose e malariche, in cui l’aspettativa di vita raggiungeva a stento i 40 anni.
Territorio a prevalente vocazione pastorale, la ricchezza del dipartimento di Bitti derivava quasi esclusivamente da questo settore produttivo, che privilegiava l’allevamento ovino rispetto a quello vaccino. Secondo i dati del 1843 offerti dal prospetto relativo alla pastorizia nella provincia di Nuoro, Bitti è di gran lunga il paese più ricco di greggi di tutta la provincia, vantando un patrimonio di 50.000 pecore, a fronte delle 45.000 di Fonni, delle 25.000 di Bolotana, delle 20.500 di Ovodda, delle 19.500 di Mamoiada, delle 18.000 di Nuoro, delle 15.500 di Dorgali, delle 15.00 di Orani, delle 14.00 di Bono e Oliena, delle 10.000 di Orune[26]. Consistente era anche il patrimonio bovino, il cui primato nei centri più importanti dei 7 distretti della provincia di Nuoro spettava a Bono con 4.600 capi, cui seguivano Nuoro e Orani con 3.500, Orune con 2.200, Bitti con 2016, Dorgali con 2.000, Mamoiada con 1.800, Bolotana con 1.330, Fonni con 700 e Ovodda con 210. Poco consistente, sempre sulla base dei dati del 1843, appare la produzione del frumento, sebbene nel complesso sia abbastanza significativa, situandosi quella del grano al quarto posto nella provincia con 780 starelli seminati a fronte dei 2.000 di Nuoro, dei 1.600 di Bono e dei 1.000 di Oliena, e quella dell’orzo al secondo posto con 2.670 starelli di semina, a fronte dei 3.400 di Nuoro, 2.500 di Fonni, 2.220 di Mamoiada e Orani e 2.000 di Oliena. Significativa, infine era la presenza di alberi da frutto, mentre erano assai carenti le colture ortive e i vigneti. Nel complesso, dunque, nell’ambito della provincia di Nuoro istituita nel 1815[27], il distretto di Bitti, che comprendeva, oltre al capoluogo, i villaggi di Gorofai, Lula, Nule, Onanì, Orune e Osidda, si presentava nel 1843 come uno tra i più ricchi e prosperi soprattutto grazie alla pastorizia.
E’ noto che lo strumento fondamentale utilizzato dal riformismo sabaudo per promuovere lo sviluppo dell’isola fu la politica di incentivazione della proprietà privata, attuata a partire dal 1820 con l’Editto delle chiudende. Di questa scelta politica l’Angius si fa convinto banditore e non perde occasione per informare, in tutte le voci del Dizionario, sullo stato di applicazione del provvedimento, denunciando i motivi che a suo giudizio ne impediscono l’applicazione. E’ evidente, nella fase di prima applicazione dell’Editto, che a Bitti e nel suo dipartimento le difficoltà dovettero essere maggiori rispetto ad altro contesti, considerata che l’attività prevalente tra gli abitanti era la pastorizia. Eppure, secondo l’opinione dell’Angius, quel territorio aveva forti potenzialità di sviluppo agricolo. “Le terre, ove bene se ne conoscesse la natura –scrive nel 1833 -, si adatteriano ad ogni genere di coltura. Traggansene alcuni spazi dove sono spoglie le roccie, e quei tratti che ricoprono le selve, tutto il rimanente potrebbe fruttificare moltissimo, se fossevi maggior industria, ed i pastori non prevalessero come di numero, così di audacia agli agricoltori”[28].
Negli Anni Trenta il rapporto tra addetti all’agricoltura e addetti alla pastorizia era di 1 a 3, essendo i primi nel solo paese di Bitti 200 e i secondi 600, conseguenza non solo di un fatto di tradizione e di costume, essendo “gli uomini di questi dipartimento, come generalmente tutti gli alpigiani. Amanti più della vita errante dei pastori, che della fissa dimora degli agricoltori”[29], ma anche della mentalità prevaricatrice del ceto pastorale. “Non vi ha forse altro dipartimento – denuncia l’Angius – dove impunemente come in questo si invadano i luoghi riservati”[30]. Né a proteggere l’incerta e grama vita dell’agricoltore riuscivano a recare sollievo l’autorità giudiziaria o i responsabili del Consiglio comunicativo, questi ultimi per lo più ricchi pastori i quali nulla potevano contro la mentalità prevaricatrice dei pastori; era da considerare un gran risultato della loro azione amministrativa se essi stessi riuscivano ad evitare di essere i primi a invadere e distruggere i terreni seminati. “I membri della giunta comunitativa per lo più pastori credono di soddisfare al loro dovere se i primi non diano questo scandalo, e l’autorità giudiziaria per quanto vigile ed esatta esser potesse stancherebbesi senza frutto. Indi è pure che deriva un altro male: per ciò che non si destinano mai per vidazzone i siti più feraci un po’ distanti dal paese, non solo perché sarebbe impossibile di preservare i seminati dalla fame delle greggie, ma perché i pastori vi si oppongono, e non si oppongono indarno, i quali mentre non han timore di penetrare nelle vigne, orti, tanche, e di rompere qualunque chiusura, men di rispetto avrebbero verso le terre aperte”[31]. Conseguenza di ciò era la limitata incidenza dei terreni chiusi nel contesto territoriale del Comune. Nel 1832-33, periodo che coincide con il momento più alto del movimento di opposizione pastorale alle chiudende con cui si schierò anche l’allora giovane sacerdote e poeta bittese Diego Mele[32], le chiudende – scrive l’Angius – “comprenderanno una superficie non maggiore di 6 miglia quadrate”[33] in tutto il dipartimento su un totale di 120 miglia quadrate di estensione.
Nonostante questo quadro assai negativo nel processo di privatizzazione della terra, solo dieci anni dopo la situazione era notevolmente cambiata se, pur restando prevalente l’attività pastorale, nel 1843 Bitti numerava 500 pastori contro 420 agricoltori, Gorofai 35 contro 25 e Onanì 30 contro 20; conseguentemente era notevolmente aumentata la superficie di terreni chiusi, che occupava un’estensione di 36.000 starelli. Non solo, ma complessivamente nei 7 Comuni del distretto di Bitti il rapporto tra agricoltori e pastori si era rovesciato, essendo i primi in numero di 1605 e i secondi in numero di 1265: una forbice significativa, sebbene ancora assai contenuta se raffrontata ai più importanti villaggi dei 7 distretti della provincia di Nuoro. Fatta eccezione solamente per il distretto di Fonni, in cui il numero dei pastori (2305) era maggiore di quello degli agricoltori (1750), in tutti gli altri distretti il numero degli agricoltori era nettamente superiore a quello dei pastori[34].
5. Particolarmente pesanti, nonostante il complessivo benessere, erano i tributi feudali della Curatoria di Dure, costituita dalle tre ville di Bitti, Gorofai e Onanì, che prendeva il nome dall’antico villaggio di Dure, un tempo il più prospero dell’altopiano bittese, scomparso a seguito di un’epidemia di colera nel secolo XVII. L’incontrada di Bitti era entrata a far parte, dopo le secolari vicissitudini seguite alla scomparsa del Giudicato di Gallura, del marchesato di Orani, infeudato a un feudatario residente in Spagna e amministrato da un podatario e da una corrotta burocrazia feudale. Erano sette i balzelli feudali pagati agli agenti baronali:
1) Il diritto fisso annuale di feudo, che doveva essere corrisposto da tutti gli individui di età superiore ai 18 anni e che nel 1833 ammontava a lire sarde 590, distribuite in funzione dei residenti nei singoli villaggi, 420 per Bitti, 114 per Gorofai e 56 per Onanì.
2) Il diritto di gastalderia, consistente in un sesto di starello di grano e d’orzo e dovuto da tutti i vassalli, anche se non seminavano frumento.
3) Il diritto del llaor di corte, pagato solo da coloro che seminavano e consistente in mezzo starello di grano e di orzo.
4) Il diritto del vino, dovuto da ogni proprietario di vigne e corrisposto in funzione del vino prodotto, sebbene il tributo non potesse essere in ogni caso inferiore a 10 cagliaresi e superiore a soldi 7 e mezzo.
5) Il diritto di decima per pecore e porci (da non confondere con le decime ecclesiastiche che costituivano una tassazione a parte), consistente nel pagamento di una pecora gravida per ogni gregge con marchio padronale con almeno 10 capi di madrigadu, ossia di pecore gravide, e di 4 lire sarde per ogni branco di porci anch’esso dotato di marchio padronale.
6) Il diritto sui pesi e le misure, che riguardava l’esportazione e l’importazione dei formaggi e delle altre derrate, che dovevano essere pesati con i pesi baronali all’atto della spedizione o dell’importazione. Per l’estrazione dei formaggi era dovuta al barone un pezza di 150 libbre sarde per ogni cantaro esportato. Per le derrate d’importazione il venditore doveva corrispondere al fisco baronale 2 soldi e mezzo, mentre erano dovute 5 lire per l’importazione dei tessuti.
7) Il settimo balzello era dovuto al delegato di giustizia e consisteva in un sesto di starello di grano e ‘d’orzo per quanti seminavano e una bestia annicola da paste dei pastori e dei porcari.
Numerosi, rileva l’Angius, furono nel tempo gli abusi introdotti dagli agenti baronali; tra questi, quello gravante sullo stesso delegato di giustizia, che per questo motivo diventava egli stesso vassallo, il quale doveva corrispondere annualmente al barone 100 lire sarde. Fu questo, precisa l’Angius, un “abuso introdotto da un ambizioso, che non potendo presentare alcun merito per essere scelto a Officiale di giustizia, incontrò grazia appresso il reggidore, lusingandone l’avarizia con l’offerta di questa somma”[35]. Va da sé che la regola introdotta da quell’ufficiale di giustizia andava poi a ricadere sui vassalli. Si tratta, da parte dell’Angius, di una notazione di grande interesse che conferma quanto fosse diffusa la corruzione presso la burocrazia feudale. Tale notazione, mentre conferma la prassi consueta dell’introduzione nell’esazione feudale dei cosiddetti “diritti controversi”, contro cui si sollevò il Logudoro durante il movimento antifeudale capeggiato da Giovanni Maria Angioy nel 1795-96, segnando una tappa gloriosa e fondamentale nella storia contemporanea della nostra isola[36], denuncia a un tempo la scarsissima qualità della burocrazia feudale. Le parole dell’Angius sembrano echeggiare i noti versi della cosiddetta “Marsigliese sarda”, l’inno antifeudale Procurade ‘e moderare barones sa tirannìa scritto da Francesco Ignazio Mannu: “Su primu chi si presentat / si nominat Offissiale / fattat bene, o fattat male / mentras no chirchet salariu / Procuradore, Notariu, / o Camareri, o Lacaju, / siat murru, o siat baju / est bonu pro guvernare”[37].
Ai tributi feudali sopra indicati occorreva inoltre aggiungere, oltre alle decime ecclesiastiche contro cui l’Angius combatté una memorabile battaglia politica nel Parlamento subalpino[38], il regio donativo dovuto al sovrano. “La somma di questi dritti – egli conclude – è cospicua, essendosi talvolta corrisposto dagli appaltatori [delle contribuzioni feudali] più di 3.000 lire; la quale di molto avanza le tasse imposte dal Sovrano si i tre Comuni, che sono di lire 1642.17.9”[39]. I tributi feudali erano, ovviamente a carico dei vassalli, mentre ne erano esenti i ceti privilegiati degli ecclesiastici, dei nobili e di coloro che “per ragione di nascita civile vestono come i cittadini, i notai, ed i loro figli, e quanti altri sanno leggere e scrivere, non bastando però che sappiano solo apporre la propria firma”[40].
6. Erano quelle sopra delineate le condizioni economiche e produttive degli abitanti del Bittese nella prima metà dell’Ottocento.
Molto accurata e partecipe è anche la descrizione fatta dall’Angius del paese di Bitti, in particolare nell’articolo dedicato a Bitti villaggio, che “siede sopra l’erta poco facile della punta d’un colle che spacca in due una gran vallata”, rivolto al Est, le cui case, circa 650 tutte costruite in granito, sono “disposte a mo’ d’anfiteatro, e lo spazio che occupano raffigura un triangolo”[41].
Il nome del villaggio, scrive l’Angius, riprendendo una nota leggenda popolare, “è un vocabolo della lingua sarda, e significa un cerviatto, un dainotto, ed è tradizione nel popolo, che al sito sia venuta questa appellazione per l’uccisione d’uno di cotali animali presso la pubblica fonte non so da qual uomo di Dure”[42]. A prescindere dalla leggenda, l’Angius ritiene che il nome di Bitti sia da riferire piuttosto alla lingua parlata nel paese e che “significhi solamente la singolarissima pronunzia dei bittesi, molto frequente nel b e t, o meglio th, pronunziando in vece di venite, benite; per patta, batta, ecc.”[43]. Insomma, secondo questa singolare teoria linguistica, Bitti equivarrebbe semplicemente a paese dei betacismi.
Molto positivo e quasi pieno di ammirazione è il giudizio che l’Angius formula sugli abitanti di Bitti, laboriosi, dotati “di una volontà fortissima”[44] e temprati alla fatica, coraggiosi e particolarmente ardimentosi, sebbene di carattere poco espansivo, che risente di una “gran cupezza, sensibilissimi e memori delle ingiurie”[45]. Generosi e magnanimi “verso un offensore pentito, ed un nemico umiliato ed inerme”, i Bittesi sono capaci di atroci vendette nei confronti dei nemici, specialmente in occasione di disamistadi interne al paese. In tempi recenti, annota l’Angius, nell’arco di soli tre anni “furono uccise 63 persone” e un numero consistente di essi si diede alla latitanza o furono incarcerati[46]. E quanto allo spirito vendicativo, egli scrive che “certe anime feroci conservano o le chiome, o le vesti squarciate od insanguinate degli estinti, e le mostrano spesso ai congiunti con sentimento e parole crudeli. Alcune madri inspirano così nei figli teneri l’odio, e poi in maggior età danno impulso al delitto”[47].
A prescindere però da queste situazioni particolari, dovute evidentemente a circostanze eccezionali, l’Angius riconosce che “sono i Bittesi d’ottimo carattere morale, niente inclinati alla galanteria, e religiosi sino alla superstizione”[48]. Intelligenti e saggi, essi sono “d’ingegno svegliatissimo, uomini di senno e di molta prudenza, dei quali quanti finora si applicarono alle lettere e alle scienze riportarono grandi lodi e premi, e molto illustrarono la loro terra natale”[49]. Sebbene poco inclini ai divertimenti, i Bittesi sono abilissimi negli esercizi di cavalleria, nei quali nessuno degli altri Sardi lo eguaglia o li supera. “Gli è un bello spettacolo a quanti concorrono d’altronde alle feste popolari, massime a quella che si celebra in Bitti in onore di san Giorgio, vedere una torma di giovani montati su piccoletti, ma vivacissimi destrieri correre a furia in una ardentissima gara nei luoghi a ciò destinati, nei quali gente più cauta andrebbe con la massima avvertenza”[50]. Molto ardimentosi e dotati di grande coraggio, di queste loro qualità diedero prova, oltre che nelle contese con le popolazioni dei paesi vicini nelle quali furono sempre vincitori, in occasione della tentata invasione francese “nell’anno 1793 presso le mura della capitale, quando in compagnia coi valorosi degli altri dipartimenti andarono a fronteggiare l’armata francese di terra”[51].
Nonostante la popolazione di Bitti sia poca incline al celibato, i matrimoni sono poco fecondi, con gravi conseguenze sulla crescita demografica; infatti, su un’aspettativa di natalità annua che dovrebbe registrare “da 85 a 100 anime, non se ne contano che circa 40”[52]. Le cause di questa singolare limitazione della natalità sono, secondo l’Angius, di diversa natura. In primo luogo il fenomeno è da ricondurre alla prevalente attività pastorale degli uomini, che li porta alla lontananza da casa per lunghi periodi dell’anno. In secondo luogo, e questa è un’esplicita denuncia di una piaga sociale, il fenomeno è da imputare alla particolare condizione delle donne, che, costrette a dedicarsi ad attività più propriamente maschili, sono maggiormente esposte alla contrazione di numerose malattie che ne minano anzitempo la salute. “La condizione delle donne – denuncia l’Angius – in questo dipartimento non è tale, che le medesime non debbano invidiare alla sorte di altre. I mariti spiegano tanta autorità, che può stimarsi despotismo. Senza riguardo alla naturale loro debolezza le costringono a fatiche virili, mietere, vendemmiare, portar legna, zappar gli orti, e simili. Da siffatto genere di vita dipende, che in breve perdano quella floridezza, che distingue l’età più vegeta, e contraggano molti malori, che vanno poi a diventare cronici, se la violenza non estingua la vitalità”[53]. Ciò spiegherebbe, ad esempio, io motivo per cui nel paese di Bitti, nonostante la grande produzione di lana, non esista una adeguata attività di tessitura, “provvedendosi dei panni ordinari per le vesti da Orune, dove è molta l’industria delle donne”[54]. A queste cause, infine, deve aggiungersi la “turpissima mostruosità” dell’uso, ancora in pieno vigore nella prima metà dell’Ottocento, degli “sponsali fra gli impuberi, come pure tra le fanciulle infanti ed uomini di età matura”, che non favoriscono un sereno rapporto affettivo tra i coniugi[55].
Molto attenta e circostanziata è l’analisi che l’Angius dedica alla situazione igienico-sanitaria, alla scolarizzazione, all’alimentazione, alla descrizione del costume e alle feste religiose dei Bittesi.
Rispetto alle condizioni igienico-sanitarie, premesso che “il clima e l’aria sono assai favorevoli alla sanità” cui “molti vivono gran tempo”[56], la situazione del paese e del distretto appaiono, se paragonate a quelle di altri distretti della provincia e dell’isola, alquanto positive. Infatti Bitti era fornita, già negli Anni Trenta dell’Ottocento, di una farmacia, di un medico e di due chirurghi stipendiati con risorse pubbliche. Permaneva, invece, l’abitudine a seppellire i morti delle famiglie facoltose in chiesa, con le conseguenze igieniche che ne derivano, mentre i più poveri sono inumati in un cimiterio poco distante dall’abitato sull’unica breve passeggiata che si abbia, strade per dove vassi alla pubblica fonte”[57]. Particolarmente sentito era il culto degli estinti. Oltre alla permanenza dell’uso de s’attitidu, il compianto del defunto fatto da prefiche, il giorno della commemorazione dei defunti vigeva l’usanza de su tumulu, ossia “una scodella con fuoco, in cui bruciasi incenso, o rosmarino, e alcune candele e moccoli di cera”[58] con cui le donne si siedono vicino alle tombe che “sono in lunghi ordini sotto il pavimento”[59] delle chiese, dove con le gambe incrociate pregano per i defunti e emettono dei lamenti, per cui “risuona la chiesa di omei e di sospiri tra largo pianto, e resta ingombrata da un nembo d’incenso, o d’altro fumo odoroso”[60].
Poco significativa era nel 1833 la frequenza delle cosiddette scuole normali o elementari, che accoglievano solo 25 fanciulli; negli anni precedenti a causa della mancanza di alunni si dovette chiudere “una scuola di latino”, ossia un ginnasio inferiore, corrispondente all’attuale scuola media[61]. Nel complesso in tutto il dipartimento le persone in grado di leggere e scrivere nel 1833 erano 200[62], divenute addirittura solo 175 nel 1843[63]. Circostanza da sottolineare, alla poca diffusione della cultura ‘letterata’ faceva da singolare contraltare la cultura ‘illetterata’ dei poeti vernacoli improvvisatori, molto praticata dai pastori. “Nelle belle notti intorno alle chiese dove festeggisi – scrive l’Angius – danno molti bittesi con altri di diversi dipartimento che vi concorrono bei saggi di poetico ingegno gareggiando fra loro nel canto con grandissimi diletto del popolo”[64]. Quando poi alla naturale vena poetica si è aggiunta la cultura letteraria, la poesia vernacola ha raggiunto risultati eccellenti, come nel caso dei bittesi “Giorgio Filippi soprannominato Maccarrone, e Preitheru Delogu, i quali fiorirono nei primi cinque lustri di questo secolo”[65]. Nasceva da questo terreno molto favorevole la grande vena poetica di due grandi poeti vernacoli bittesi, Melchiorre Dore, autore del poema biblico Sa Jerusalem victoriosa[66] e il già citato Diego Mele, che il von Maltzan avrebbe definito “il principe dei satirici sardi[67]. E ancora è nel ricordo di questa grande tradizione poetica che è stato dedicato a Raimondo Delogu il coro a tenores di Bitti. A irrobustire quella tradizione molto aveva contribuito l’avventura pastorale del grande poeta Gian Pietro Cubeddu di Pattada, sacerdote dell’ordine scolopio, che nel corso del primo quarto del secolo aveva per anni condotto vita errante tra gli ovili dei pastori di Alà dei Sardi, Buddusò e Bitti, nei quali era solito cimentarsi nelle gare poetiche della tradizione pastorale. “Consevrasi ancora una certa specie di venerazione – scrive l’Angius – verso il padre Gianpietro Cubeddu di Pattada, religioso scolopio, da molti conosciuto sotto il nome di Padre Luca, dai bittesi chiamato su patre Solle dal nome della cussorgia, dove egli si trattenne qualche tempo, intorno ai limiti di Alà, Buddusò, e Bitti, e mostrasi, e guardasi con qualche religione la quercia (su Kerku de Patre Solle) sotto la quale egli assiso improvvisava tra i pastori, i quali accorrevano ondunque lasciando che sole errassero le gregge”[68].
Sobri nel vitto e nelle bevande, i Bittesi si alimentavano generalmente “di carni, pane d’orzo e latticini”[69]. Il pane era quello oggi noto come pane carasau, tipico delle popolazioni pastorali del Capo settentrionale dell’isola, di lunga conservazione, confezionato in media una volta al mese. “Il pane che usasi generalmente è una schiacciata molto sottile a circolo quando sia da farina di grano, a elisse quando a farina d’orzo. Dopo cotto si spacca in due più sottili sfoglie (pizos), le quali si biscottano, e poi se ne fa una colonna e tengonsi a vettovaglia”[70]. Spartane e degne di una patriarcale società di pastori erano, inoltre, le usanze da tavola e le modalità di consumazione delle vivande e pare non fossero in uso la posate al di fuori del coltello. I Bittesi, scrive l’Angius, “mangiano d’inverno in sa coguina, d’estate in un luogo fresco. Siedono sulle terra con le gambe incrociate intorno ad un canestrino (sa canistedda) dove ordinariamente c’è il pane ed il formaggio, ed in istagione fredda un vaso con sappa, in cui tingono il pane già precedentemente ammollato. Spesso vi si pone il tagliero su cui mangiasi la carne a lesso, o arrosto. Usasi il solo coltello e non mai la forcina. Non usano il brodo che per prescrizione del medico. Le minestre le condiscono con latte, e con ricotta”[71].
Anche l’abbigliamento, sia maschile che femminile, era particolarmente austero, essendo l’abito maschile costituito da una camicia di tela, da larghe brache di tela bianca a campana per pantaloni infilate dentro le ghette di orbace; il busto e la testa erano coperti da un corpetto in velluto, da una mastruca o da un giubbone in orbace molto pesante (su cabanu) e dal tipico copricapo a sacco pendente dalla testa i lateralmente o all’indietro, anch’esso di orbace (sa berritta). Nell’abbigliamento maschile facevano bella mostra le cartucciere in pelle, i lunghi coltellati alla cintola e l’archibugio. “Pare di vedere persone alle quali sia imminente il nemico – chiosa l’Angius- alle quali si imminente il nemico, però che hanno alla cintola la cartucciera, e lunghi coltelli, e ci possa portarlo anche l’arcobugio foderato a ferro ed ottone sul gusto dei tempiesi”[72].
Più elaborato nella sua austerità l’abito delle donne, sempre aggraziate e avvenenti: “Le donne vestono il capo con una pezzuola detta sa vela lunga palmi cinque, larga uno, con tre quarti della quale involgono il capo sotto il mento, lasciando che penda il resto e sventoli sull’omero. Sotto questo velo in vece di cuffia hanno la così detta caretta in forma d’una navicella fregiata di trinette d’oro e ricamata in seta, la quale serve a contenere il fascio delle treccie detto su curcuddu legate da alcune bende (sas vittas). Sopra il giubboncino si scarlatto (su corithu) hanno la pala che consta di spalliera, e di antipetto, e questo in una forma non dissimile alla summentovata caretta copre bene il petto. Coprono i piedi con le sole scarpe, e lasciano nude le gambe. Sudano sotto il peso di due o tre gonnelle di panno lano ruvido. Le medesime sono aggraziate e avvenenti”[73].
La popolazione di Bitti è molto religiosa e particolarmente attenta e prodiga verso il clero e il decoro degli edifici di culto, in particolare verso la chiesa parrocchiale di San Giorgio, tanto che l’Angius parla di vera e propria “munificenza religiosa” del popolo bittese “che offrì sempre molto del suo per lo maggior splendore del culto divino” (p. 356)[74]. Oltre alla chiesa parrocchiale e alle quattro chiese filiali del centro abitato, officiate dal parroco a da cinque vice-parroci, Bitti annovera anche diverse chiese campestri e un convento di frati cappuccini, fondato nel 1850, che è “uno dei migliori della provincia logudorese”[75], che nel 1833 ospitava 15 religiosi che ci vivevano agiatamente “per le larghe oblazioni del popolo”[76]. Le feste celebrate con maggior solennità dai Bittesi erano soprattutto quelle dei santuari campestri della Beata Vergine Assunta, della Natività di Maria presso l’antico villaggio di Dure, di San Giovanni battista e di San Michele[77].
Vi è, infine, un aspetto particolare che rende il paese di Bitti particolarmente caro all’Angius: la sua lingua. Su di essa egli baserà la sua Grammatica della lingua sarda[78], che apparirà vent’anni dopo la redazione delle due voci su Bitti dipartimento e Bitti villaggio nel 2° tomo del volume XVIII del Dizionario del Casalis, che ospita in tre tomi la voce Sardegna. Il motivo di quella che costituisce un’autentica venerazione che l’Angius nutre verso la parlata di Bitti è presto detto. Continuatore convinto della valorizzazione della lingua sarda inaugurata nella seconda metà del Settecento dall’abate ozierese Matteo Madau, secondo il quale la lingua sarda è tra le lingue neolatine la più vicina alla lingue madri, il greco ed il latino. L’opera dei linguisti dovrà pertanto fare ogni sforzo per “nobilitare” la nostra lingua, ripristinandone soprattutto nella lingua scritta queste nobile lignaggio. E la parlata più conservativa, e dunque più vicina alla originaria lingua del Lazio, l’Angius ritiene di averla individuata, tra i dialetti del Logudoro, nella parlata di Bitti. “La lingua sarda – egli scriveva nel 1833 – da nessun popolo delle provincie settentrionali dell’isola suona così dolce come dal bittese. Delicatissima è la loro pronunzia, e forse fa sentire agli intendenti del greco e del latino come suonassero in bocca di quelle genti. E’ rimarcabile, che quelle modificazioni vocali che negli altri sardi si distinguono come B, G, P. T. V, riducansi spesso dal bittese alle sole B e V. Quanto la lingua sarda abbondi delle due antiche lingue morte non meglio in quello d’altri, che nel parlare dei bittesi si comprende. Quelle canzoni sarde che si scambierebbero per un latino plebeo sono dettate nel vernacolo dei medesimi”[79]. E dieci anni dopo, in una lettera allo Spano in cui spiegava all’amico a quale parlata egli si fosse ispirato per la redazione dell’epopea nazionale sarda nell’opera Leonora, che andava componendo, egli, dopo aver affermato che il primo riferimento era alla lingua del prelato del secolo XV Antonio Cano, il più antico autore che ci avesse lasciato un’opera scritta in sardo illustre, egli rivelava che sotto il profilo strettamente linguistico e ortografico egli rivelava di prediligere la di Bitti. “Si queres ischire – egli scriveva all’amico Spano – quale siat sa manera mia grammaticale ti naro qui mi adprobiai pius assu Cano, que ass’Araolla, sibbenes su primu siat non bonu versificatore. Podes però bene intendere qui b’hant essere sas reformas mias, et sunt quasi semper Bithismos, essende eo pius partiale de sa limba bitichesa pro qui mi paret meda pius propinqua assa origine e pius pura”[80].
Senza entrare nel merito dei pregi e dei limiti di questa posizione, che peraltro troverà in seguito illustri continuatori, l’Angius, al di là dell’ammirazione che dimostra di nutrire per il paese di Bitti, è sicuro che egli ha offerto a questo paese, con le due voci pubblicate sul Dizionario del Casalis e con la sua teoria linguistica, il riconoscimento più illustre, elevando veramente in suo onore, come dice Orazio, monumentum aere perennius.
Ciao Boreddhu
[1] Secondo le consuetudini dell’epoca, il Dizionario di Casalis-Angius si pubblicò per fascicoli, che poi venivano rilegati al termine dei singoli volumi. Per comodità del lettore indichiamo di seguito la sequenza cronologica di pubblicazione dei singoli volumi. Vol. 1° (1833) Abbadia – Azzara; vol. 2° (1834) Baceno – Buttogno; vol. 3° (1836), Cabella – Casale provincia; vol. 4° (1837) Casale città – Chieri; vol. 5° (1839) Chiesa Nuova – Cuzago; vol. 6° (1840) Dagnento – Furtei; vol. 7° (1840) Gabiano – Genova; vol. 8° (1841) Genuri – Keremule; vol. 9° (1841) La Balma – Luzzano; vol. 10° (1842) Macello – Mondovì; vol. 11° (1843) Mondrone – Nizza; vol. 12° (1843) Nasca – Nurri; vol. 13° (1845) Obbiano – Oyale; vol. 14° (1846) Pabillonis – Piemonte; vol. 15° (1847) Pierlaz – Putifigari; vol. 16° (1847) Quadrate – Rutori; vol. 17° (1848) Sabbia – Saluzzo (la voce Sagama si trova al termine di questo vol. alle pp. 872-75); vol. 18° (1849) Salza – Sardara; vol. 18bis (1851) Sardegna; vol. 18ter (1853) Sardegna; vol. 18quater (1856) Sardegna; vol. 19° (1849) Sardières – Serrenti; vol. 20° (1850) Serrières – Torgnon; vol. 21° (1851) Torino provincia – Torino città (parte); vol. 22° (1852) Torino città; vol. 23° (1853) Tornaco – Verboux; vol. 24° (1853) Vercelli; vol. 25° (1854) Verd – Vintebbio; vol. 26° (1854) Vinzaglio – Zurzana; vol. 27° (1855) Appendice, Abai – Buttogno; vol. 28° (1856) Appendice, Cadarafagno – Zerbolò.
[2] Ibidem. Sull’erudito cagliaritano Ludovico Baille (Cagliari, 1764 – 1839) non esiste a tutt’oggi uno studio; per le notizie biografiche si rimanda a P. Martini, Catalogo della biblioteca sarda del cav. Lodovico Baille preceduto dalle memorie intorno alla di lui vita, Cagliari, 1844.
[3] G. Casalis, Il compilatore a chi legge, in Dizionario, cit., p. 14.
[4] G. Spano, Cenni biografici del conte Alberto Ferrero della Marmora ritratti da scritture autografe, Cagliari, 1867, p. 48.
[5] Cfr. F. Loddo Canepa, Vittorio Angius. Collezione uomini illustri di Sardegna, III, Cagliari, 1926.
[6] Cfr. B. J. Anedda, Vittorio Angius politico, Milano, 1969; L. Carta, Vittorio Angius. Opere poetiche e orazioni latine, in “Archivio sardo del movimento operaio contadino e autonomistico”, N. 35/37, Cagliari, 1991, pp. 109-175; Idem, Lettere di Vittorio Angius a Giovanni Spano (1840-1860), ivi, pp. 293-343; A. Accardo, Il mito della nazione sarda: Vittorio Angius, in Idem, La nascita del mito della nazione sarda, Cagliari, 1996, pp. 75-110; G. Sotgiu, Vittorio Angius e i suoi tempi, cit, pp. 41-101; S. Pira, Vittorio Angius e il “Dizionario” che svela la Sardegna, in La Sardegna paese per paese [presentazione della recente riedizione delle voci del Dizionario Angius/Casalis promossa da “L’Unione sarda”], vol. 1°, Cagliari, 2004, pp. 9-23; L. Carta, Il contributo di Vittorio Angius al “Dizionario geografico-storico-statistico-commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sardegna” di Goffredo Casalis, in Città e villaggi della Sardegna dell’Ottocento, a cura di Luciano Carta, Nuoro, ILISSO, 2006, 3 voll., pp. 7-57.
[7] Tra queste recenti edizioni ricordiamo quelle anastatiche dell’editore Arnaldo Forni di Bologna, che ha riprodotto la voce Sardegna e quelle relative alle regioni storico-geografiche della Sardegna e di alcune importanti città, e quella effettuata dalle quattro Amministrazioni provinciali di Cagliari, Sassari, Nuoro e Oristano, che hanno riprodotto le voci relative ai Comuni delle rispettive province; infine, oltre alla recente riedizione integrale di tutta l’opera realizzata dal quotidiano “L’Unione sarda”, la recentissima edizione della casa editrice ILISSO di tutte le voci sui comuni e città della Sardegna redatte dall’Angius per il Dizionario del Casalis, a cura di chi scrive, citata nella nota precedente.
[8] L’elogio dell’Azuni ci è noto attraverso una parziale edizione fatta da V. Finzi, Domenico Alberrto Azuni elogiato da Vittorio Angius, in “Archivio Storico Sardo”, vol. II, 1906. Sull’Azuni è fondamentale il saggio di L. Berlinguer, Domenico Alberto Azuni giurista e politico (1749-1827). Un contributo bio-bibliografico, Milano, 1966. Le altre due orazioni sono state pubblicate dallo stesso Angius: l’elogio del Fara funge da introduzione alla riedizione delle sue opere storiche e geografiche curate dall’Angius: De laudibus J. Francisci Farae oratio, in J. F. Fara, De chorographia Sardiniae libri duo etc. ex recensione Victorii Angius, Cagliari, 1838; l’elogio di Eleonora d’Arborea fu pubblicato in opuscolo a parte con una dedica allo storico Giuseppe Manno: cfr. V. Angius, De laudibus Leonorae Arborensium reginae oratio, Cagliari,1839.
.
[9] Su questi aspetti mi permetto di rimandare ai miei lavori citati nella nota 6.
[10] La rivista “Biblioteca sarda”, interamente redatta dall’Angius, fu pubblicata a Cagliari presso la Tipografia Monteverde in fascicoli mensili di 40 pagine dall’ottobre 1839 al settembre 1839. Ogni fascicolo era in genere diviso in tre parti, dedicati rispettivamente alla Storia, alle Scienze Arti e Mestieri e alla Letteratura.
[11] Su questi aspetti dell’attività dell’Angius nei primi anni della sua permanenza a Torino, cfr. L. Carta, Lettere di Vittorio Angius a Giovanni Spano (1840-1860), cit., pp. 303-305.
[12] [12] Cfr. V. Angius, Leonora d’Arborea o Scene sarde degli ultimi lustri del secolo XIV, vol. I [il solo pubblicato], Torino, 1847.
[13] Biblioteca Universitaria di Cagliari (di seguito citata B.U.C.), Autografi 48, Lettera di Vittorio Angius e Giovanni Spano del 19.09.1843, pubblicata in L. Carta, Lettere di Vittorio Angius a Giovanni Spano, cit., p. 335. “In questa epopea sull’impresa storica di Eleonora si trova tutto quanto concerne la Sardegna, e vengono ricordati tutti i nostri usi e costumi, dal momento che le vicende sono ambientate all’inizio nel castello di Monteleone, poi ad Ardara, in Gallura, a Terranova, a Posada, nei salti di Montenieddu, e di nuovo ad Ardara, e poi continuando nel Goceano, nel Marghine, nella Planargia, nell’Arborea, e poi ancora a Fordongianus, a Usellus, a Sardara, a Sanluri, nel Cixerri e nel Sulcis, per terminare sui colli di Cagliari”.
[14] B.U.C., Autografi 48, Lettera di Vittorio Angius e Giovanni Spano del 19.04.1844, pubblicata in L. Carta, Lettere di Vittorio Angius a Giovanni Spano, cit., pp. 337-38. “Stai aspettando la Eleonora? Abbi pazienza ancora un po’: sto lavorando alla traduzione italiana. Appena 1′avrò terminata pubblicherò il programma e dopo leggerai il solenne pasticcio che ho fatto per celebrare 1′eroina sarda e al tempo stesso per rappresentare la Sardegna sotto ogni punto di vista, in modo che non resti quasi nulla da sapere sulla nostra terra una volta che si legga 1′intero poema”.
[15] Su questo aspetto dell’attività dell’Angius si rimanda a B. J. Anedda, Vittorio Angius politico, cit., pp. 65-73.
[16] cfr. V. Angius, L’automa aerio o sviluppo della soluzione del problema sulla direzione degli aerostati, Torino, 1855; Idem, Nuovi studi sul problema aerostatico. Appendice sull’automa aerio pubblicato nel 1855, Torino, 1857. Recentemente quest’opera dell’Angius è stata ristampata nella collana “Biblioteca della Scienza Italiana” dell’editore Giunti: cfr. Vittorio Angius, Almerigo da Schio. La scienza aerostatica, a cura di Vittorio Marchis, Firenze, 1998.
[17] I tre tomi della voce Sardegna, il cui sottotitolo originale è Geografia, storia e statistica dell’isola di Sardegna, usciti rispettivamente nel 1851, 1853 e 1856, trattano di Geografia e flora, Fauna e clima, Storia dalle origini al 1676, Storia dei feudi; nella parte storica è anche inserita una grammatica del sardo intitolata Sardegna linguistica. Cenni sulla lingua de’ Sardi scritta e parlata. Tre anni dopo la conclusione della pubblicazione del Dizionario, l’Angius pubblicava a sue spese un volume in cui riprendeva la narrazione storica e delle riunione degli Stamenti dal 1676 al 1848 il cui titolo è il seguente: Complemento della descrizione complessiva della Sardegna compresa nei volumi XVIII2, XVIII3, XVIII4 del Dizionario geografico-storico-statistico ecc. degli Stati di S. M. il re di Sardegna compilato dal prof. Vittorio Angius di Cagliari autore di tutti gli articoli relativi alla Sardegna nel predetto Dizionario, Torino, 1859.
[18] Nella collana Acta Curiarum Regni Sardiniae sono stati pubblicati sinora i Parlamenti del 1355, 1421-52, 1495-1511, 1553-54, 1573-74, 1592-1598, 1614, 1626, 1631-32, 1641-43, 1698-99, 1793-96. Il 1° volume della collana, Istituzioni rappresentative nella Sardegna medioevale e moderna, Cagliari, 1982, raccoglie gli Atti del seminario tenutosi a Cagliari il 28-29 novembre 1984.
[19] I questionari somministrati ai funzionari pubblici e ai parroci di tutti i Comuni della Sardegna sono stati pubblicati in L. Carta (a cura di), Città e villaggi della Sardegna dell’Ottocento, cit., vol. 3°, pp. 1787-1795.
[20] V. Angius, Bitti dipartimento, in Città e villaggi della Sardegna dell’Ottocento, a cura di L. Carta, cit., vol. 1°, p. 171.
[21] Ivi, Bitti villaggio, p. 176.
[22] Cfr. ivi, Nuoro provincia, vol. 2°, pp. 942-960.
[23] Ivi, Bitti dipartimento, vol. 1°, p. 176; si vedano anche le voci Nuoro provincia, ivi, vol. 2°, p. 945, dove il territorio è denominato “Barbagia de’ Bittesi” e Nuoro città, ivi, p. 960, dove la denominazione è “Barbagia di Bithi”.
[24] Ivi, Bitti dipartimento, cit., p. 172.
[25] Cfr. ivi, Nuoro provincia, cit., p. 949.
[26] Cfr. ivi, p. 954.
[27] Sulla costituzione prima delle prefetture e poi delle province nella Sardegna della prima metà dell’Ottocento cfr. il recente saggio di G. De Giudici, Le prefetture in Sardegna (1807-1848): il lungo iter dell’accentramento giurisdizionale e amministrativo, prefazione di S. Gullotta, Fondazione-Istituto Storico “Giuseppe Siotto”, Cagliari, 2008.
[28] V. Angius, Bitti dipartimento, vol. 1°, cit., p. 172.
[29] Ibidem.
[30] Ivi, p. 173.
[31] Ibidem.
[32] Cfr. D. Mele, Satiras, a cura di Salvatore Tola e con un contributo di Bachisio Porru, Vagliari, Edizioni della Torre, 1988. Si veda anche la voce Mele Diego, a cura di L. Carta, in Dizionario Biografico degli Italiani.
[33] V. Angius, Bitti dipartimento, cit., p. 173.
[34] Cfr. ivi, Nuoro provincia, cit., pp. 950-51.
[35] V. Angius, Bitti dipartimento, cit., p. 175.
[36] Cfr. in proposito L. Carta (a cura di), L’attività degli Stamenti nella “Sarda Rivoluzione” (1793-1799), vol. 24° della collana “Acta Curiarum Regni Sardiniae”, tomi I-IV, Cagliari, Consiglio Regionale della Sardegna, 2000.
[37] F. I. Mannu, Su patriota sardu a sos feudatarios, a cura di L. Carta, Cagliari, CUEC, 2002 (2a edizione 2006), strofa 15, pp. 29-30.
[38] Vedi supra, nota 15.
[39] V. Angius, Bitti dipartimento, cit., pp. 175-76.
[40] Ivi, p. 176.
[41] V. Angius, Bitti villaggio, cit. p. 176.
[42] Ibidem.
[43] Ibidem.
[44] V. Angius, Nuoro provincia, cit., p. 947.
[45] V. Angius, Bitti dipartimento, cit., p. 173.
[46] Cfr. V. Angius, Bitti villaggio, cit., p. 176.
[47] V. Angius, Bitti dipartimento, p. 173.
[48] Ivi, p. 174.
[49] Ibidem.
[50] Ivi, p. 173.
[51] Ivi, p. 174.
[52] V. Angius, Bitti villaggio, cit., p. 176.
[53] Cfr. V. Angius, Bitti dipartimento, cit., p. 175.
[54] Ivi, p. 173.
[55] Ivi, p. 174.
[56] V. Angius, Bitti villaggio, cit., p. 176.
[57] Ibidem.
[58] V. Angius, Bitti dipartimento, cit., p. 175.
[59] Ibidem.
[60] Ibidem.
[61] V. Angius, Bitti villaggio, cit. p. 176.
[62] Ibidem.
[63] V. Angius, Nuoro provincia, cit., p.949.
[64] V. Angius, Bitti dipartimento, cit., p. 174.
[65] Ibidem.
[66] Giovanni Melchiorre Dore nacque a Gorofai il 15 marzo 1776. Studiò presso il Collegio Canopoleno di Sassari; abbracciato lo stato ecclesiastico, frequentò la facoltà teologica e fu ordinato sacerdote nel 1795. Dopo aver esercitato il ministero come vice-parroco a Bitti e a Nuoro, nel 1804 vinse il concorso per la Rettoria di Posada, piccolo centro della costa orientale della Sardegna nei pressi di Orosei che governò ininterrottamente per 47 anni, fino alla morte, avvenuta a Nuoro il 21 luglio 1851. Fu sepolto nella cattedrale di S. Maria della Neve a Nuoro. Nel 1828 fondò presso il Capitolo della cattedrale di Nuoro il canonicato di S. Antonio Abate, cui è intitolata la parrocchia di Posada, che dotò di una cospicua rendita e che ricoprì personalmente fino alla morte. Durante la lunga permanenza a Posada accumulò un ricco patrimonio e si prodigò per la modernizzazione delle arcaiche strutture produttive del villaggio. Zio materno del celebre uomo politico e giornalista di idee democratiche Giorgio Asproni, ebbe un ruolo importante nella sua formazione, favorendone gli studi e l’inserimento nell’amministrazione ecclesiastica della diocesi di Nuoro. Poeta vernacolo estemporaneo e ottimo verseggiatore, la fama del Dore è legata soprattutto alla pubblicazione del poema biblico in logudorese Sa Jerusalem victoriosa, curata dallo Spano, che corredò di un ampio commento e che dall’Ottocento ad oggi ha avuto diverse edizioni. Alcune sue composizioni vernacole furono pubblicate dallo Spano nelle sue raccolte di canzoni sarde mentre altre entrarono a far parte della tradizione orale. Anche la corrispondenza con lo Spano, che si pubblica in questo volume, è prevalentemente in versi e rigorosamente redatta in sardo logudorese. Di essa lo Spano fece ampia messe sotto il profilo lessicale nella fase preparatoria della Ortografia sarda nazionale e del Vocabolario sardo-italiano e italiano sardo. Notizie biografiche sul Dore si trovano: nell’utile lavoro del parroco di Posada Salvatore Meloni, Melchiorre Dore e Posada (Olbia, 1998, pp. 12-42), che ripropone anche una nuova edizione integrale dell’opera maggiore, Sa Jerusalem victoriosa osiat s’Historia de su populu de Deus reduida ad poema historicu-sacru dae su sacerdote Malcioro Dore rectore de Posada cum breves adnotationes de su sacerdote Johanne Ispanu (ivi, pp. 67-272); nella più recente edizione del poema a cura di don Pietro Orunesu, Prefazione del vescovo di Nuoro mons. Pietro meloni, Introduzione di don Salvatore Chessa, Nuoro, Arti Grafiche Solinas, 2005. Si veda inoltre la pubblicazione on-line di quest’ultima edizione nel sito della cattedrale di Nuoro www.cattedrale-Nuoro.it. Per le composizione poetiche già pubblicate dallo Spano, cfr. la recente edizione in quattro volumi di G. Spano, Canzoni popolari di Sardegna, a cura di Salvatore Tola, cit. vol. II, pp. 28-40.
[67] diego mele nacque a Bitti (Nuoro) il 22 gennaio 1797 da Salvatore e Anna Casu, umile famiglia di contadini. Perduto il padre nel 1808, apprese i primi rudimenti della lingua latina presso la scuola di grammatica tenuta nel villaggio di Gorofai, presso Bitti, dal sacerdote Michele Ghisu, che fu anche maestro, qualche tempo dopo, del celebre deputato democratico e giornalista, suo conterraneo, Giorgio Asproni. Solo all’età di 18 anni il Mele poté iniziare un corso regolare di studi prima a Cagliari, dove si manteneva agli studi facendo il precettore di famiglie nobili, e successivamente a Sassari, dove frequentò il corso di Teologia e conseguì la laurea il 12 agosto 1826. Negli anni degli studi teologici contrasse un profondo legame di amicizia con Giovanni Spano, che fu anche, oltre che suo grande estimatore, il primo divulgatore delle sue composizioni poetiche in sardo, altrimenti destinate ad essere perdute per il loro carattere di improvvisazione. Abbracciato lo stato sacerdotale, il M. fu consacrato sacerdote all’età di 30 anni, nel marzo 1827; al ministero sacerdotale, esercitato in piccoli villaggi della Barbagia, dedicò tutta l’esistenza. Coadiutore del parroco di Bitti nel 1827, alla fine di quest’anno fu mandato vice-parroco ad Oliena e dal 1830 a Mamoiada. Erano gli anni in cui, in applicazione dell’Editto delle chiudende (1820), la monarchia sabauda intendeva modernizzare le arcaiche strutture produttive dell’isola, creando la proprietà perfetta e favorendo la nascita di una moderna borghesia agraria. Attorno agli anni trenta, l’applicazione da parte dei ceti abbienti dello strumento delle chiusure dei terreni, diede luogo ad un vasto fenomeno di accaparramento (le tancas serradas a muru, fattas a s’afferra afferra, secondo i celebri versi tramandati dalla tradizione), mettendo in crisi i ceti più poveri della popolazione rurale, legati per motivi di sussistenza all’arcaico sistema dell’uso comune della terra e alla pastorizia brada, che scatenarono una rivolta per l’abbattimento delle chiusure. Il M., giovane vice-parroco di Mamoiada, si schierò dalla parte dei ceti più poveri, incitando contadini e pastori all’abbattimento delle chiusure e al ripristino delle forme tradizionali di conduzione agricola (torrare a su connottu, ossia tornare al conosciuto, alla tradizione). A seguito di questi moti, tra dicembre 1832 e febbraio 1833, il M. fu mandato a domicilio coatto presso il convento dei Cappuccini di Ozieri e al termine della detenzione fu spedito come pro-rettore nello sperduto paesello di Lodé, non lontano da Bitti, già oggetto dei suoi strali satirici per la rozzezza degli abitanti. Si riferiscono a questa duplice dolorosa esperienza le due prime composizioni poetiche a noi pervenute, di cui la prima redatta secondo i modelli dell’Arcadia (O pena dolorosa).
Riuscito vincitore del concorso per la parrocchia di Olzai, fu ininterrottamente «rettore» di questo piccolo centro barbaricino dal 1836 fino alla morte avvenuta il 16 ottobre 1861. Per le notizie biografiche su D. Mele si rimanda alle introduzioni premesse alle raccolte delle sue opere, di seguito citate, curate da P. Meloni Satta, B. Porru e S. Tola e inoltre alla prefazione del nipote Salvatore Mele alla ristampa di una delle raccolte di canzoni popolari del canonico Spano: Poesie popolari sarde con prefazione del dottor S. Mele, Cagliari 1883; si veda anche G. Spano, Iniziazione ai miei studi, a cura di Salvatore Tola, Cagliari 1996, pp. 81, 93, 152. Le prime edizioni parziali delle poesie del M. sono in G. Spano, Canzoni popolari inedite in dialetto sardo centrale ossia logudorese. Parte prima. Canzoni storiche e profane, Cagliari 1863, pp. 54-61 e 108-113; Idem, Canzoni popolari etc. Appendice alla parte prima delle canzoni storiche e profane, Cagliari 1865, pp.42-43, 59-64, 75-77, 159-63, 165-71; Idem, Canzoni popolari etc. Serie terza. Canzoni storiche e profane, Cagliari 1872, pp. 92-96; ora in G. Spano, Canzoni popolari di Sardegna, a cura di S. Tola, cit., vol. II, pp. 257-99. La prima edizione completa delle opere sta in Il Parnaso Sardo del poeta bernesco estemporaneo Teol. Diego Mele, ordinato ed illustrato dal prof. P. Meloni Satta, Cagliari 1922. Alcune composizione del rettore di Olzai tradotte in francese e tedesco sono in: A. Boullier, Lîle de Sardaigne. Dialecte et chants populaires, Paris 1865, p. 190; H. F. von Maltzan, Reise auf der Insel Sardinien, Leipzig 1869, p. 433 ss. Le più recenti edizioni delle poesie del M. sono in: Il meglio della grande poesia in lingua sarda. Introduzione di Michelangelo Pira, Cagliari 1975, pp. 171-93; D. Mele, Satiras e poesias varias, a cura di B. Porru, Cagliari 1981; D. Mele, Satiras. Con due composizioni inedite. A cura di S. Tola e con un contributo di B. Porru, Cagliari 1984.
[68] V. Angius, Bitti dipartimento, cit., p. 174.
[69] Ivi, p. 173.
[70] Ibidem.
[71] Ivi, p. 174.
[72] Ibidem.
[73] Ibidem.
[74] V. Angius, Bitti villaggio, cit., p.176.
[75] Ibidem.
[76] Ibidem.
[77] Sulle chiese di Bitti dal medioevo ad oggi cfr. il documentato saggio di R. Turtas, Le chiese di Bitti e Gorofai. Storia e documenti dal Medioevo fino ai giorni nostri, in Le chiese e i gosos di Bitti e Gorofai, a cura di R. Turtas e G. Lupinu, Cagliari, Cuec, 2006, pp. VII-LXXXV.
[78] Il titolo completo dell’opera è: V. Angius, Cenni sulla lingua de’ sardi scritta e parlata, in G. Casalis, Dizionario, cit., vol. XVIIIter, Torino, 1853, ora anche nella recente edizione a cura de “L’Unione Sarda”, collana Biblioteca dell’identità, Storia della Sardegna, vol. 21, La Grammatica della lingua sarda, Cagliari, 2005.
[79] V. Angius, Bitti dipartimento, cit., p. 174.
[80] B.U.C, Autografi 48, Lettera di Vittorio Angius a Giovanni Spano del 19 settembre 1843, pubblicata da L. Carta (a cura di), Lettere di Vittorio Angius a Giovanni Spano, cit., pp. 333-37. “Se vuoi sapere quali siano le mie preferenze linguistiche, ti dico che mi sono avvicinato di più al Cano che all’Araolla, sebbene il primo sia cattivo versificatore. Puoi però ben capire che vi saranno le mie innovazioni, e sono quasi sempre forme del dialetto di Bitti, essendo io un ammiratore della lingua di Bitti, perché mi sembra molto più vicina all’origine e più pura”.