C’è uno spread delle vite umane, di Carlo Bordoni
L’uguaglianza è così divenuta l’ultima utopia della modernità, il sogno irrealizzabile sul quale si sono confrontati i Paesi occidentali negli ultimi tre secoli, inserendone i principi fondamentali nella maggior parte delle Carte costituzionali. Eppure le disuguaglianze resistono. Anzi, aumentano …. Intervista a Didier Fassin Le vite ineguali. Quanto vale un essere umano? (Feltrinelli)
L’antropologo francese Didier Fassin denuncia l’aumento delle disparità sociali: i poveri muoiono prima, gli immigrati finiscono segregati o peggio in fondo al mare. Un attacco alla dignità che non corrisponde tanto all’affermazione della biopolitica studiata da Michel Foucault ma riflette una crescente indifferenza verso l’esigenza di offrire a tutti analoghe opportunità, che pure è sancita dalle Costituzioni dei Paesi occidentali.
Sulla disuguaglianza si è detto molto, ma non al punto da far entrare nel pensiero comune la consapevolezza della sua tragica persistenza. Bisognerebbe allora parlare di disuguaglianze, perché i modi di declinarle si sono moltiplicati con il tempo e la loro varietà ha reso impossibile risolvere il problema alle radici. Disuguaglianze sociali, economiche, di genere, di cultura e di educazione, rese ancora più stridenti dal momento che le migrazioni e i processi di scambio tra le popolazioni hanno messo a confronto condizioni diverse. Se un tempo i casi di maggiore disuguaglianza erano rintracciabili nel cosiddetto Terzo Mondo, adesso sono spesso incardinati nei Paesi più ricchi. L’uguaglianza è così divenuta l’ultima utopia della modernità, il sogno irrealizzabile sul quale si sono confrontati i Paesi occidentali negli ultimi tre secoli, inserendone i principi fondamentali nella maggior parte delle Carte costituzionali.
Eppure le disuguaglianze resistono. Anzi, aumentano. Si sono introdotte persino nel valore della vita umana, complice la monetizzazione dei risarcimenti in caso di incidente o delle assicurazioni nel ramo vita. La sacralità della vita non è in discussione. Ma allora perché certe vite «valgono» meno di altre? Inutile nasconderlo: non a tutti sono offerte le stesse opportunità e riconosciuti gli stessi diritti. Non si tratta di razzismo. È qualcosa di più profondo, utile alle logiche economicistiche e alle strategie di sopravvivenza tacitamente condivise. Non solo nel caso del giovane immigrato che non trova lavoro o è sfruttato, ma anche dell’anziano che non riceve l’adeguata assistenza sanitaria perché non è più produttivo. Lo dimostra lo studio di Didier Fassin Le vite ineguali. Quanto vale un essere umano? (Feltrinelli): un atto d’accusa e, insieme, una garbata polemica con l’idea di biopolitica di Michel Foucault.
Fassin è una figura eccentrica nel panorama scientifico internazionale e rappresenta l’attuale tendenza a sviluppare la ricerca su più campi del sapere, anche non attigui. Medico di formazione, specializzato in epidemiologia, un dottorato in antropologia, si è avvicinato progressivamente alle scienze sociali; è direttore di studi all’École des hautes études en sciences sociales di Parigi e docente all’Università di Princeton, dopo aver rivestito la carica di vicepresidente di Medici senza frontiere.
Le sue origini aiutano a capire tanta passione per i temi sociali: nipote di immigrati italiani della Valle d’Aosta, cresciuto con suo fratello Éric, anch’egli sociologo, nelle case popolari di Viry-Châtillon, nella banlieue parigina, ha trovato negli studi l’opportunità del riscatto sociale. I suoi interessi multidisciplinari lo hanno portato a occuparsi di sanità pubblica nel Senegal, dell’epidemia di Aids in Sudafrica, della discriminazione razziale, del disagio nelle periferie urbane, della giustizia e del sistema carcerario. È stato anche il primo antropologo invitato a tenere una conferenza all’Università di Francoforte nell’ambito delle «Adorno Lectures» (2016). La lezione di Francoforte è anche il punto di partenza de Le vite ineguali, dove anticipa le ragioni della crescente disparità esistenziale.
Professor Fassin, quali motivazioni l’hanno spinta ad analizzare la diversità di valore nelle vite umane?
«Questo libro si propone di ripristinare il legame tra la vita nella sua definizione biologica e la vita nella sua comprensione biografica. Cioè tra il progetto naturalista e il progetto umanista di approccio alla vita, attraverso una discussione critica, in riferimento ai filosofi che più hanno influenzato il mio pensiero, da Ludwig Wittgenstein a Michel Foucault, da Walter Benjamin a Hannah Arendt».
Una delle caratteristiche del libro è appunto la discussione sull’idea di biopolitica di Foucault, che lei ritiene inattuale. Un concetto da ricondurre al suo etimo originario di «politiche della vita».
«Il concetto di biopolitica è importante e fecondo. Ha rinnovato la nostra comprensione delle società contemporanee. Ma non è quello che sembra annunciare. Non tratta di vita, ma di persone; non di politica, ma di governo. Il governo delle popolazioni, attraverso le tecnologie della conoscenza come la demografia, o strumenti di intervento come il controllo delle nascite e dell’immigrazione. In effetti, più che di biopolitica, sarebbe meglio parlare di politiche della vita, studiando il modo in cui la politica tratta le vite umane».
Possiamo parlare di «indifferenza» alla vita?
«Si tratta piuttosto di indifferenza verso certe forme di vita, quella sociale più che quella fisica. Questa indifferenza riguarda in particolare gli immigrati, i rifugiati e i poveri. Alla luce di questa duplice dimensione possiamo considerare il modo indegno di trattare gli stranieri
in Italia, in Francia o negli Stati Uniti. Ma non qualsiasi straniero: quelli dell’Africa o del Medio Oriente, mai coloro che provengono dal Nord America. Quindi siamo di fronte a disuguaglianze sociali e razziali, che hanno raggiunto livelli estremi nei campi di concentramento per i migranti nel Sud degli Stati Uniti e nel cimitero marino del Mediterraneo, con oltre 35 mila morti».
È vero che oggi si dà più importanza al biologico che al politico? Con quali effetti?
«Benjamin e Arendt si erano già preoccupati di questo, criticando l’evoluzione delle nostre società verso un privilegio concesso al semplice fatto di vivere, rispetto al fatto di vivere degnamente. Giorgio Agamben ha radicalizzato questa lettura opponendo zoè, la vita strettamente biologica, a bíos, la vita socialmente qualificata. Attraverso una serie di esempi, intendo dimostrare che la bio-legittimità, cioè la priorità data alla vita fisica, tende spesso a determinare una precedenza sulla giustizia sociale, cioè sullo sforzo di ridurre le disuguaglianze tra gli individui».
Potrebbe spiegare il concetto di «morte sociale»?
«La morte non è solo intesa come fine della vita fisica. Può anche essere la fine della vita sociale. Lo vediamo nelle lunghe pene detentive, casi in cui la de-socializzazione è tale da rendere impossibile il ritorno a una vita normale dopo il carcere. Inoltre la disuguaglianza non riguarda solo il reddito o le condizioni di vita. Si riflette sulle differenze di salute e sull’aspettativa di vita, tanto che in Francia un lavoratore non qualificato ha un’aspettativa di nove anni inferiore rispetto a un dirigente. E negli Stati Uniti un nero che ha lasciato la scuola muore in media quattordici anni prima di un bianco che ha studiato all’università».
Esistono soluzioni adatte a correggere queste disparità tra «vite ineguali» oppure è una condizione senza via d’uscita?
«La storia e la geografia ci ricordano che il trattamento delle vite umane con dignità o indegnità non è mai stabilito una volta per tutte. La Germania ne è un esempio: durante il nazionalsocialismo ha raggiunto picchi di crudeltà e di disumanizzazione nei confronti di ebrei, rom, omosessuali. Negli ultimi anni, invece, si è dimostrata accogliente con migranti e rifugiati. Ciò che conta sono la volontà politica e le qualità morali dei leader, che oggi in Italia e in Francia mancano».
LA LETTURA, 28 LUGLIO 2019