Il Marghine, di Luciano Carta
Rubrica: ISTORIAS DE SARDIGNA contada dae Luciano Carta. Sa QUARTA.
Nuraghe Orolo (bortigali), la sentinella del Marghine
Il viaggiatore che percorre la strada statale N. 131 da Cagliari verso Sassari, lasciatasi alle spalle la possente mole del nuraghe Losa e l’altopiano di Abbasanta, oltrepassato il Km 130 circa, grosso modo presso il ponte del rio Merchis, che segna il confine tra i Comuni di Norbello, Macomer e Borore, si trova l’orizzonte come sbarrato da un antemurale che non gli consente di vedere oltre l’altopiano di Campeda. A sentinella di quel bastione naturale, che costituisce la catena montuosa del Marghine, subito dopo la selva del Monte S. Antonio e di Macomer sulla sinistra, svettano nell’altura le severe torri dei nuraghi Santa Barbara e Oròlo, mentre sulla destra si erge la maestosa mole del monte Santu Padre, che domina i paesi di Bortigali e di Birori. È solo dopo oltrepassata la vallata del rio S’Adde, sui cui spuntoni rocciosi è adagiato l’abitato di Macomer, e dopo percorsa la salita che porta al lembo meridionale dell’altopiano della Campeda, all’altezza del bivio per Bosa e per Mulargia, che è possibile iniziare a cogliere la funzione di “margine” naturale (è questo il significato appunto di Marghine) cui assolve la catena montuosa, che separa il Capo settentrionale della Sardegna o Logudoro dal Capo meridionale o Campidano. Una funzione che viene meglio percepita qualora il viaggiatore, percorso in parte l’altopiano di Campeda, imbocchi, all’altezza del bivio per Bolotana, la strada provinciale N. 17, che attraversa tutta la fascia montana del Marghine, per raggiungere la punta Palai a quota 1200 m. di altezza. Il paesaggio mozzafiato che si ammira da punta Palai offre in modo definitivo l’impressione che questo “margine” naturale divide per così dire la Sardegna in due distinti territori: a Nord il Capo del Logudoro e a Sud il Campidano. Frontalmente, a Sud, si scorgono le montagne del Gennargentu; sulla sinistra, a Est, la sagoma arrotondata del monte Rasu, nella successiva catena del Goceano; in direzione Sud e Sud-Ovest, al centro e sul lato destro di chi guarda, le distese a perdita d’occhio delle pianure della Media Valle del Tirso, del Campidano di Oristano e delle coste occidentali del mare sardo. Posto al centro della catena del Marghine, l’osservatore coglie nella sua interezza la sensazione di un’autentica cesura che si realizza in quel punto tra il Capo settentrionale e il Capo meridionale della Sardegna.
Questa conformazione del Marghine, situato nel centro strategico di divisione della parte meridionale da quella settentrionale dell’isola, ha fatto sì, durante la preistoria come in epoca punica e romana, nel medioevo come in età moderna e contemporanea, che le propaggini occidentali del territorio, in corrispondenza dei centri abitati di Macomer e di Mulargia (rispettivamente le antiche Macopsissa e Molaria dell’Itinerario di Antonino), siano sempre state passaggio obbligato per l’attraversamento dell’isola da Nord a Sud, e viceversa, lungo la dorsale occidentale, snodo strategico il cui controllo era vitale dal punto di vista militare e commerciale. Un ruolo, questo, che spiega la forte densità abitativa che ha contraddistinto questo territorio dall’età neolitica e nuragica all’età punico-romana, ma anche dal medioevo sino alla fine del secolo XV. Non è sicuramente casuale, come ci ricordano gli storici, che è proprio dopo l’espugnazione e la distruzione del castello di Macomer nel 1478, a seguito della coraggiosa insurrezione del marchese d’Oristano Leonardo Alagon, che la dominazione aragonese diviene definitiva e tramontano le speranze di un governo autonomo della Sardegna. Pochi territori hanno conservato tanta molteplicità e varietà di monumenti neolitici e nuragici quanto la regione del Marghine. Dei 608 monumenti neolitici e nuragici segnalati sino ad oggi, 478 sono stati censiti e descritti da Alberto Moravetti, a testimonianza di una continuità della presenza umana nel territorio che data da tempi antichissimi (cfr. A. Moravetti, Ricerche archeologiche nel Marghine-Planargia, parte I, Il Marghine, Carlo Delfino editore, Sassari 1998). Tra i monumenti figurano, infatti, altre ai numerosissimi proto-nuraghi e nuraghi, i ripari sotto roccia, i dolmen, i menhir, i betili, le domus de janas, i recinti e le fonti nuragiche, le tombe di giganti, i pozzi sacri.
Sicuramente, a favorire la continuità della presenza umana nella regione, ha contribuito la particolare situazione del territorio, che nel breve raggio offre, tra la fascia montana, quella pedemontana e la pianura, una notevole varietà di risorse che hanno reso appetibile l’insediamento e agevole lo sfruttamento. Questa è la caratteristica che il territorio conserva ancora oggi: un’equilibrata presenza di terre montane, collinari e di pianura. Esteso su una superficie di 375,42 Kmq, il Marghine annovera nel proprio territorio 10 centri abitati e 9 Comuni: Macomer, il capoluogo, situato nell’estremo lato occidentale della regione, a 572 m. di altitudine, con un territorio di 122,50 Kmq e 10.941 abitanti (i dati relativi agli abitanti si riferiscono per tutti i Comuni al 2005); il piccolo centro di Birori, il cui territorio di 17,35 Kmq, è in posizione intermedia tra la fascia pedemontana e la pianura, a circa 400 m. di altitudine, con 574 abitanti; Borore, Noragugume e Dualchi, i cui centri abitati sono interamente situati in pianura, rispettivamente a 396 e 300 m. sul livello del mare, con 2266, 357 e 742 abitanti, i cui territori comunali di 42,74, 26,80 e 23,44 Kmq abbracciano la porzione di territorio compresa tra le falde del Monte S. Antonio e l’altopiano di Abbasanta (che l’Angius nell’Ottocento chiamava “Campidano del Marghine”) a Ovest e a Sud-Ovest, e a Sud-Est la parte occidentale della Media Valle del Tirso, la riva destra dello stesso fiume e le propaggini estreme del territorio di Sedilo; infine i quattro Comuni addossati a mezza costa, sulle falde della catena del Marghine, tutti affacciati sulla strada statale N. 129 Macomer-Nuoro: Bortigali (cui appartiene la frazione di Mulargia), Silanus e Lei, a 500 m. sul livello del mare, rispettivamente con 1497, 2320 e 600 abitanti e un’estensione territoriale, nell’ordine, di 67,46, 48,04 e 19,10 Kmq; infine, ultimo comune all’estremo lembo orientale della regione, il grosso borgo di Bolotana, a circa 600 m. sul livello del mare, con 3108 abitanti, il cui territorio comunale, di 108,52 Kmq, si estende, al confine con la regione del Goceano, dalla Media Valle del Tirso a Sud, all’altopiano di Campeda a Nord, nella fascia montana, che confina con i territori di Illorai e di Bonorva.
Già densamente abitata durante la dominazione romana e bizantina, come dimostrano i frequenti reperti archeologici, la toponomastica locale e soprattutto il culto per i santi della tradizione orientale, in epoca giudicale l’incontrada del Marghine è appartenuta a lungo al Giudicato di Torres, per poi passare, dopo la scomparsa di esso nella seconda metà del secolo XIII, al Giudicato di Arborea dalla fine del Duecento fino all’inizio del Quattrocento. Fatta eccezione per Mulargia, che non viene menzionato, i 9 paesi del Marghine sono tutti rappresentati nella pace solenne firmata tra la giudicessa Eleonora d’Arborea e il re Giovanni d’Aragona nel gennaio 1388. Si tratta di Pietro Coghe, che firma in rappresentanza di Macomer e dell’intera curatoria del Marghine; firmano inoltre in qualità di maiores de villa Ioanne Marras e Pietro de Muru per Birore e Bortigale, Maniele Solinas e Torbino Penna in rappresentanza di Silano e Lecy (Lei), Anthonio Casula per Gorare (Borore). Comita P.° per Dualche, Nicola Penna per Noracogoma, Juliano Dore per Golossane (Bolotana). Elemento di non secondaria importanza, a comprova della densità della popolazione, la presenza nello stesso documento dei rappresentanti di nuclei di popolazione diffusa nelle campagne: «Item a Petro de Serra e Petro de Muru juratis et Petro Sanna, Arsocco Penna e Januario de Serra proxime dicte ville [scil. Bolotana] omnibus et singulis comorantibus et curatorie predicte».
Caduto il Giudicato d’Arborea ad opera degli aragonesi durante il secolo XV, il Marghine fu concesso in feudo a Bernardo Centelles, governatore generale della Sardegna. La famiglia Centelles governò il feudo sino alla fine del secolo XVI, quando passò per via ereditaria da questa famiglia a quella dei Borgia. Durante la dominazione sabauda, essendo morto senza eredi l’ultimo discendente dei Borgia, nel 1740 il feudo marghinese fu incamerato dallo Stato, che ne amministrò le rendite fino al 1767, quando, dopo una lite quasi trentennale, esso fu restituito alla duchessa di Benavente donna Maria Faustina Tellez Giron d’Alcantara, riconosciuta legittima erede dei Borgia. Da questa famiglia feudale spagnola il feudo fu riscattato durante il regno di Carlo Alberto nel 1843.
Sono sufficienti questi rapidi cenni sulla storia del Marghine in quanto, per quanti amassero approfondire questo aspetto, è facile reperire numerose ricostruzioni di carattere storico. Infatti, per merito soprattutto della rivista annuale “Quaderni bolotanesi” e del suo direttore Italo Bussa, dal 1975 il Marghine è stato studiato nei molteplici aspetti della sua storia – politica, sociale, amministrativa, feudale, religiosa - dai collaboratori della rivista, tanto che non è retorico affermare che questa regione della Sardegna è stata, nel periodo più recente, come la culla della reviviscenza della storia locale in Sardegna, studiata in una dimensione che si sforza di superare una visione meramente municipalistica ed erudita, per concepirla in senso dinamico, coniugandola con le più generali problematiche dell’identità sarda, della rinascita economica e sociale dell’isola e del nesso dialettico della storia locale con la storia generale e di questa con la storia globale. Nei 32 numeri della rivista sinora pubblicati, il lettore si imbatte, oltre che in studiosi locali e nazionali, in contributi di studiosi di fama internazionale, come ad esempio Maurice Le Lannou, oppure in studiosi giapponesi o di altre remote nazionalità. Nell’ultimo decennio, inoltre, sono comparsi i ponderosi e importanti contributi di storia del Marghine di Giovanni Cucca, incentrati prevalentemente sulla storia di Macomer dal Seicento al primo Ottocento, frutto di una meticolosa e appassionata ricerca archivistica e documentaria, nonché i contributi delle sorelle Maria Rosaria e Grazia Corda.
Considerate le caratteristiche del territorio, la vocazione economica del Marghine, è sempre stata di carattere agro-pastorale: l’agricoltura è stata sempre praticata nella pianura della Media Valle del Tirso nella fascia centro-orientale dove sono ubicati i Comuni di Bolotana, Silanus, Lei, e Noragugume, e nella fascia occidentale dell’altopiano di Abbasanta appartenente ai Comuni di Macomer, Birori, Bortigali e Borore. La pastorizia veniva praticata sia in montagna che in pianura, in un territorio che offre la comodità di una transumanza breve che si svolge nella distanza massima di 25/30 Km tra pascoli montani e di pianura.
E’ fondamentalmente questo il quadro economico-sociale della regione che viene fornito dalla fonte storico-statistica più importante della prima metà dell’Ottocento, il Dizionario storico-geografico di Goffredo Casalis nelle voci relative a tutti i Comuni e regioni della Sardegna redatte da Vittorio Angius. Questo studioso, nella voce Marghine redatta nel 1838, annoverava nella regione 13.000 abitanti circa, assai diversamente distribuiti rispetto ad oggi, in cui il capoluogo Macomer è stato quasi il solo beneficiario del progressivo spopolamento degli altri 8 Comuni, ospitando quasi la metà dell’intera popolazione della regione. Nell’Ottocento, quando ancora Macomer non aveva assunto il ruolo di snodo strategico del sistema dei trasporti isolano con la costruzione delle Ferrovie dello Stato e l’economia era di carattere esclusivamente agricola e pastorale, la parte più cospicua della popolazione risiedeva soprattutto nei Comuni di Bolotana e di Bortigali; il capoluogo, con i suoi 1600 abitanti, veniva addirittura al 5° posto per il numero degli abitanti, dopo Bolotana (3885 ab.), Bortigali (3010 ab.), Silanus (1800 ab.) e Borore (1646 ab.). Relativamente ai mestieri esercitati dagli abitanti, gli agricoltori erano in tutta la regione 2198 e i pastori erano 1128. La superficie agraria coltivata era di starelli 24.130. Il patrimonio zootecnico constava di 79.000 ovini e 9.560 bovini (questi ultimi soprattutto nei pascoli di Macomer e Bortigali). Rilevante era, inoltre, l’allevamento dei suini, dei caprini nonché dei cavalli e dei giumenti, insostituibile mezzo di trasporto in una società arretrata e in un territorio privo di adeguata rete stradale. L’arcaicità e il tradizionalismo nella conduzione agraria e dell’allevamento è evidente anche dal forte ritardo con cui nel territorio del Marghine veniva realizzata la trasformazione fondiaria e della proprietà della terra avviata nel 1820 con l’Editto delle chiudende; infatti, attorno al 1840 appena un decimo dell’estensione territoriale del Marghine risultava costituito in proprietà perfetta. Una spia, questa, della resistenza della popolazione all’innovazione dei metodi di allevamento e di coltura, che rimanevano legati all’uso promiscuo delle terre adibite a coltura, classicamente suddivise in ciascun Comune, secondo i canoni dell’economia feudale, in due vidazzoni per la consueta rotazione annuale delle colture, e con la netta prevalenza della pastorizia brada. Solo poche famiglie facoltose, appartenenti alla piccola nobiltà locale e dei prinzipales, già a partire dalla metà del secolo avevano dato inizio al processo di privatizzazione della terra, che si accentuerà soprattutto nella seconda metà del secolo: tra queste, le famiglie dei Pinna e dei Sequi a Macomer, dei Fois e dei Passino a Bortigali, dei Filia, dei Delitala e degli Scarpa a Bolotana.
La prevalenza di un’economia basata sulla coltura e soprattutto sull’allevamento del bestiame e sulla trasformazione dei prodotti latteo-caseari conserverà a lungo il primato nella regione, per raggiungere l’apice nei primi decenni del Novecento, quando il capoluogo del Marghine diventerà in Sardegna uno dei centri più rinomati di produzione e commercializzazione dei formaggi grazie alla creazione dei caseifici da parte di imprenditori provenienti dalla penisola, come le famiglie Albano, Dalmasso e Salmon, che avrebbero dato il nome a quello che ancora oggi è conosciuto sul mercato nazionale e internazionale come “pecorino romano”. Un contributo storicamente importante nel passaggio dai metodi arcaici di sfruttamento delle risorse agricole e zootecniche ad un moderno modo di conduzione delle aziende poté aver luogo soprattutto grazie all’intraprendenza di Benjamin Piercy (1827-1888), l’ingegnere inglese che fu allo stesso tempo progettista e azionista della costruzione della rete ferroviaria sarda tra il 1860 e il 1890 circa. L’ingegnere gallese, infatti, oltre che costruttore di strade ferrate in Sardegna come in Inghilterra, in Italia e nell’India, fu anche un appassionato imprenditore agricolo. Alla fine degli anni Settanta dell’Ottocento, profittando della vendita dei beni ex-ademprivili, acquistò nella fascia montana del Marghine una cospicua estensione di territorio di circa 3700 ettari, compresa tra l’altopiano di Campeda e la montagna di Bolotana, che egli trasformò in una moderna azienda agro-zootecnica che condizionerà nel bene e nel male la storia del Marghine dal 1880 al 1950, quando i contadini del Marghine, in sintonia con il più generale movimento di occupazione delle terre del secondo dopoguerra, occuparono i latifondi della famiglia Piercy, preludio alla riforma agraria che attraverso l’E.T.F.A.S. negli anni Sessanta e Settanta del Novecento porterà alla creazione delle piccole aziende pastorali che costituiscono oggi il tessuto produttivo tradizionale del Marghine. È stata invece letteralmente spazzata via la produzione agricola dal processo di industrializzazione italiano ed europeo, che a partire dagli anni Cinquanta del Novecento ha falcidiato la popolazione con l’emigrazione verso il triangolo industriale dell’Italia settentrionale e verso i paesi dell’Europa soprattutto la classe agricola.
Questa forte preponderanza della pastorizia sull’agricoltura è ancora più evidente se si raffronta la superficie territoriale adibita a seminativi e alla coltura di cereali con quella adibita a prati permanenti e a pascoli nonché il numero delle aziende agricole con quelle pastorali. Secondo i più recenti dati statistici offerti dal Piano socio-economico della Comunità Montana N. 8, della quale il Marghine fa parte insieme alla contigua Planargia, nei cinque comuni più grossi di Macomer, Borore, Bortigali, Silanus e Bolotana, i seminativi occupano rispettivamente 1138, 378, 431, 796 e 979 ettari, mentre quelli adibiti a prati permanenti e a pascoli occupano rispettivamente 5070, 2633, 5400, 3775 e 6125 ettari. Le aziende pastorali, piccole e medie, operanti attualmente nel territorio ammontano a 670 per un totale di circa 30.000 capi tra ovini e bovini. Importanza non secondaria assume, inoltre, sempre nell’ambito dell’allevamento, il commercio delle carni, grazie a un moderno impianto di macellazione presente a Bonu Trau nei pressi di Macomer e alla Macelleria dei fratelli Milia a Bortigali. I prodotti latteo-caseari, infatti, vengono trasformati e commercializzati presso la Latteria Centrale della Sardegna (LA.CE.SA.), una delle industrie del settore più importanti della Sardegna, ubicata in territorio di Bortigali, all’altezza del Km 142 della Statale N. 131. La LA.CE.SA. produce ottimi formaggi bovini, tra cui il tipico casizzolu (le caratteristiche caciotte a forma di pera) dal gusto aromatico dei pascoli montani e il provolone, formaggi pecorini come il tradizionale “pecorino romano” e il “fior di Campeda”. Tali prodotti, freschi o stagionati, possono essere acquistati direttamente dal consumatore nello spaccio molto frequentato annesso agli stabilimenti industriali. Permane tuttavia nel territorio, sebbene in quantità ridotta, la caseificazione da parte dei singoli pastori, generalmente per il consumo familiare.
Contrariamente a quanto è avvenuto per l’agricoltura, che tra l’Ottocento e il Novecento ha subito grandi trasformazioni, hanno conservato la loro originaria configurazione le colture agrarie collinari, prevalentemente adibite alla coltura della vite e dell’ulivo; in misura minore è diffusa la coltura di alberi da frutto e di specie ortive lungo le lingue di terra al bordo dei fiumi (le tipiche iscras), esclusivamente adibite al consumo familiare. Le micro-aziende viticole occupano solo 220 ettari. Prevalentemente ubicati in collina, i vigneti, quasi del tutto assenti nei Comuni di Dualchi e Noragugume, pur non producendo vini prelibati come la celebre malvasia della vicina Planargia, sono tuttavia di ottimo gusto e di non elevata gradazione alcoolica. La vinificazione è interamente affidata ai privati, non esistendo nel territorio alcuna cantina sociale o impianto di produzione industriale. Molto diverso, invece, è il discorso relativo alla coltura dell’ulivo, che vanta una lunga tradizione storica, che affonda le radici soprattutto nei primi decenni dell’Ottocento, dopo la promulgazione dell’editto da parte di Vittorio Emanuele I che nel 1807 ne promuoveva la coltura. La facoltosa famiglia Pinna di Macomer deve anche alle benemerenze acquistate per la coltura dell’olivo il titolo comitale, di cui fu insignito nel 1829 l’avvocato Salvatore Pinna, già ricco amministratore feudale del Marghine, e successivamente il nipote Gioacchino Pinna conosciuto appunto come “conte degli olivi”. In passato il Marghine vantava una cospicua presenza di frantoi sparsi nei Comuni collinari e una discreta commercializzazione dell’olio, fatta direttamente dai privati. Attualmente esiste nella regione un solo grande frantoio a Bolotana, in località Bardosu, gestito dalla Cooperativa Olearia “Sardegna Centrale”, costituita da 725 soci, di cui oltre 600 marghinesi, che nell’ultimo decennio ha registrato un progressivo incremento della produzione, che si è attestata, secondo i dati più recenti, in oltre 7.000 quintali di olive lavorate per una produzione di 1315 quintali di olio, con una resa media per quintale di 19.69 litri, il cui valore economico è valutabile in circa 700.000 euro.
Dopo il grande esodo migratorio del ventennio 1950-1970, è iniziato un moderato rientro degli emigrati a partire dagli anni Settanta del Novecento con l’avvio del processo di industrializzazione della Sardegna Centrale, con stabilimenti ubicati ai due lati estremi del territorio del Marghine: a Est l’industria petrolchimica e metalmeccanica dell’Enichem e Metallurgica del Tirso, in agro di Bolotana, nel cosiddetto polo industriale di Ottana; a Ovest le fabbriche tessili, calzaturiere e di lavorazione del legno a Tossilo, in territorio di Macomer, nella Zona Industriale di Interesse Regionale (Z.I.R.). L’industrializzazione ha comportato nel primo decennio del suo insediamento (1971-81) un incremento generalizzato della popolazione e un conseguente complessivo benessere riconducibile all’incremento dell’occupazione nell’industria, nel suo indotto e nel settore dei servizi, e alla tenuta dell’economia agricola tradizionale soprattutto nel settore dell’allevamento. A partire dal 1981, pur in presenza di una complessiva stabilità del numero degli abitanti (il Marghine ne contava 21.951 nel 1971, 24.069 nel 1981, 24.480 nel 1991 e 23804 nel 1998), si è verificato un fenomeno di redistribuzione interna della popolazione residente, che ha registrato una costante saldo negativo in tutti i Comuni, fatta eccezione per Macomer e Birori (questo piccolo centro costituisce quasi un’appendice del capoluogo). Macomer è passato da 9.531 abitanti nel 1971, a 11.010 nel 1981, a 11.537 nel 1998. Il fenomeno è da ricondurre, oltre che al più generale fenomeno del processo di inurbamento delle società industrializzate, alla centralità del capoluogo, allo sviluppo delle industrie, all’incremento dei servizi e alla forte terziarizzazione che ha investito negli ultimi decenni Macomer. Nel volgere di cento cinquanta anni il capoluogo del Marghine ha cambiato natura: da piccolo borgo agro-pastorale è divenuto l’unica realtà a dimensione urbana, divenendo una dinamica e accogliente cittadina di provincia. Questo ruolo di centro dinamico della regione diventa ancor più pronunciato oggi, dopo il fallimento dell’industrializzazione dell’industria petrochimica del polo industriale di Ottana: esito ineludibile di un’industrializzazione sbagliata, che ha comportato le amare disillusioni delle “cattedrali nel deserto” in questa come in altre aree della Sardegna.
La continuità geografica e la sostanziale uniformità economica del Marghine non si traduce, tuttavia, in una omogeneità di indole dei suoi abitanti e in una identità di lingua e di cultura: la regione, cioè, non costituisce un’espressione di cultura cantonale omogenea. Diversi sono il carattere e l’indole degli abitanti dei diversi Comuni, come diversa ne è lingua soprattutto nell’inflessione dialettale e nella fonetica. Già Vittorio Angius nella prima metà dell’Ottocento, rilevava: “I marghinesi partecipano del carattere di ciò che è proprio a’ montanari e a’ campidanesi”; non solo, ma tra i diversi centri della regione erano ancora presenti i segni di “antiche inimicizie” e di scontri cruenti. Oggi queste differenziazioni di indole e queste antiche inimicizie permangono, oltre che nelle forti contrapposizioni municipali, nel carattere degli abitanti: rude e scorbutico quello dei bolotanesi e dei silanesi, cordiale e aperto quello dei bortigalesi e dei bororesi, intriso di modi urbani e allo stesso tempo di una certa alterigia cittadina quello dei macomeresi, improntato a semplicità e cordialità contadina quello dei centri minori. Allo stesso modo differiscono le inflessioni dialettali, che assumono tonalità cupe e dure nei silanesi e nei bolotanesi (una parola così evocativa di dolcezza come gioia o giobia, ossia ‘giovedì’, diventa zozza nel rude dialetto bolotanese!) e inflessioni più dirozzate e gentili nei dialetti degli altri paesi. Differenze che tuttavia nulla tolgono alla genuinità della parlata logudorese, se un autorevole personaggio come Giovanni Spano ha potuto scrivere, nella sua autobiografia inedita, che il Marghine è la regione della Sardegna “ove si parla il miglior dialetto del Logudoro”.
Del resto, l’uso anche letterario della lingua sarda vanta nel Marghine una solida e illustre tradizione. È nato e vissuto a Macomer Melchiorre Murenu (1803-1854), il vate cieco caduto vittima della mordacità dei suoi versi, al quale, lo stesso Spano, attribuì l’impegnativo titolo di “Omero del Marghine”, un epiteto ormai consacrato nella vulgata popolare. E se anche quell’epiteto, peraltro circoscritto ad un ambito cantonale, è sicuramente esagerato e retorico, tuttavia occorre riconoscere alle oltre settanta composizioni poetiche rimasteci del Murenu una robusta passione civile, un delicato sentimento amoroso, un forte afflato religioso e una corrosiva vis polemica, che fanno della sua opera poetica una delle manifestazioni più significative nel panorama della tradizione storica della poesia in lingua sarda. Ricordiamo, desumendoli da Povera Sardigna, una delle sue liriche più note, il quadro di un’umanità dolente descritta nei versi dedicati alle popolazioni sarde affamate e disperate: “Si ti miras sos poveros presentes / non lis osservas sambene in sas laras, / ca sun bivinde ‘e cibos puzzolentes / cun erbas mesu siccas e amaras, / bendidas tott’ a prezios dolentes / sas tancas chi tenian pius caras: / como medas famidos e distruttos / in bassu disisperu sunu ruttos” [Se osservi i poveri d’oggi, non gli scorgi sangue nelle labbra, perché mangiano cibi puzzolenti, erbe rinsecchite e amare, dopo che sono stati costretti a vendere a prezzi iniqui le tanche che avevano più care: adesso molti, affamati e affranti, sono caduti nella più profonda disperazione]. Ma ancor più celebre è la satira Sos fiagos de Bosa, dove il poeta, con linguaggio crasso e triviale, irride Bosa, la città rivale di Macomer, e i suoi abitanti.
Melchiorre Murenu non è però l’unico poeta del Marghine: la poesia in lingua sarda vanta nella regione una lunga e consolidata tradizione, con manifestazioni letterarie di rilievo, come dimostrano le recenti riscoperte di diversi autori, cui è seguita la pubblicazione delle opere ora ricostruite attraverso la memoria popolare ora ristampate utilizzando rare edizioni ormai introvabili. Intendiamo riferirci sempre a Macomer, a Pietro Caria, ai poeti bolotanesi Bacchisio Raimondo Basolu e Costantino Longu, ai dualchesi Salvatore Poddighe e Celestino Caddeo, alla poetessa bortigalese Anna Maria Falchi Massidda. Questa attenzione alla tradizione linguistica e alla poesia popolare trova oggi numerosi cultori nel Marghine; tra questi è sicuramente degno di segnalazione il benemerito gruppo di Silanus – patria di Marieddu Masala, uno dei poeti improvvisatori ancora in attività – che ha fondato una scuola per la formazione dei cantadores.
Il Marghine ha anche dato i natali a personaggi illustri e di alta cultura che si sono distinti nel campo giuridico, letterario, politico e religioso. Bortigali ha dato i natali al giurista Domenico Fois (1776-1871), deputato al Parlamento subalpino a autore del trattato Dei delitti delle pene e della processura criminale, pubblicato a Genova nel 1817; è nato a Silanus Giuseppe Fiori (1923-2003), l’autore della Società del malessere e biografo di Antonio Gramsci e di Emilio Lussu «cavaliere dei rossomori»; Bolotana ha dato i natali al grande filologo e storico dell’antichità Bacchisio Raimondo Motzo (1883-1970). Ancora, era nativo di Borore l’intellettuale e politico Nino Carrus (1937-2002); Silanus ha dato i natali a mons. Giorgio Delrio (1865-1938), arcivescovo di Oristano, mentre sono originari di Bolotana mons. Giovanni Maria Filia (1808-1882) vescovo di Alghero e mons. Giovanni Pisanu (1921-2003) vescovo di Ozieri.
Molto sentita è nella regione la dimensione religiosa, che costituisce uno degli aspetti che meglio interpretano i valori tradizionali delle comunità e la loro storia. I culti dei santi affondano le radici nei primi secoli del cristianesimo, nei secoli bui della dominazione bizantina e nei secoli del periodo alto-giudicale, sebbene le leggende agiografiche dei santi venerati nei dieci centri abitati risentano dei rifacimenti e delle intrusioni apportate dalla colonizzazione dei monaci benedettini dopo il Mille. Ai primi secoli del cristianesimo riconducono il culto di san Bachisio di Bolotana, di santa Sabina e san Lorenzo a Silanus e di san Lussorio a Borore, mentre è di ascendenza bizantina il culto di san Pantaleo a Macomer. Sotto il profilo architettonico, gli edifici religiosi, tra cui numerose chiese parrocchiali, risalgono in gran parte ai secoli XV-XVI: tra questi le chiese parrocchiali di San Pantaleo a Macomer, della Vergine Assunta a Bortigali, di San Pietro a Bolotana, nonché, in questo stesso Comune, il santuario di San Bachisio. Di particolare interesse sono inoltre alcuni fregi architettonici, opere pittoriche e manufatti lignei, come i portali in trachite rossa delle parrocchiali di Macomer, Bortigali e Bolotana, il retablo cinquecentesco della parrocchiale di Bortigali, composto da quattro pannelli rappresentanti episodi della vita della Vergine, gli altari in legno dorato della parrocchiale di Borore e del San Bachisio di Bolotana. In quest’ultimo santuario sono degni di interesse, in quanto esempi di arte simbolica religiosa di fattura autoctona che ripropone in epoca moderna modelli espressivi tipici del medioevo sardo, i soggetti fregiati in bassorilievo nelle formelle di trachite rossa della facciata esterna e delle colonne interne, rappresentanti i misteri della redenzione, il ballo tondo, il suonatore di zufolo e l’abbigliamento maschile. La prominenza dei genitali in queste formelle che rappresentano l’abbigliamento dei sardi dei secoli passati e la concomitante rappresentazione del ballo sardo in altre, unita alla simbologia sessuale del ballo stesso, ha infervorato nel recente passato la fantasia di un importante antropologo, il quale ha favoleggiato di improbabili simbologie residuali dell’antico culto fallico nelle chiese cristiane della Sardegna. Risale al secolo XI la chiesetta a croce greca intitolata a Santa Sabina, nella periferia di Silanus, mentre è del secolo XII l’unico esemplare dell’architettura romanica nel Marghine, la slanciata ed elegante sagoma lesenata della facciata della chiesa di San Lorenzo, a monte dell’abitato dello stesso paese, attorniata da betili di origine nuragica; di origine romanica è inoltre la chiesa della Vergine del Soccorso a Macomer.
Tutte le feste religiose vengono celebrate da comitati spontanei che organizzano i festeggiamenti religiosi e profani, molto suggestivi, con processioni in cui l’elemento coreografico più appariscente è rappresentato dall’assordante batteria di spari di fucileria a salve e dall’accompagnamento dei cavalli (s’ardia). Notevoli sono è in tutto il Marghine la presenza di chiese campestri, corredate di cumbessias per i novenanti e per i devoti, e le feste che attorno alle stesse vengono celebrate. Tra queste la più suggestiva è quella che i bortigalesi celebrano da secoli nella prima metà di settembre in onore della Madonna di Sauccu, località della montagna in cui si trova la chiesetta campestre, non lontano dalla villa Piercy di Baddesalighes. Grazie all’attività dell’associazionismo locale, che si è molto diffuso nell’ultimo ventennio, in particolare delle pro-loco presenti in ogni Comune, anche l’aspetto di divulgazione e di conoscenza delle tradizioni locali, dalla cucina ai monumenti, dalla storia alle strutture di ristoro, è possibile oggi fruire di notizie dettagliate su tutti gli aspetti tipici delle tradizioni locali. Sono state inoltre attivate, insieme a strutture bibliotecarie gestite con criteri moderni, tra cui spiccano quelle di Macomer e Bortigali, strutture museali destinate alla conoscenza delle tradizioni e della storia materiale del Marghine, come il Museo etnografico “L’Arte antica” a Macomer e il Museo del Pane Rituale a Borore.
Ma l’aspetto più accattivante del territorio del Marghine, quello che sicuramente è in grado di soddisfare le esigenze del turista desideroso di conoscere da vicino la millenaria civiltà nuragica della Sardegna e di contemplare ambienti naturali di rara bellezza, è l’itinerario archeologico-ambientale. “Il Marghine – ha scritto giustamente l’Angius – è forse la regione che più abbondi di quei monumenti che i sardi chiamano nuraghes”. All’inventario di questa risorsa monumentale hanno recentemente dedicato i propri sforzi molte associazioni locali, mentre una descrizione meticolosa di parte cospicua di essa è stata resa da Isabella Paschina nel pregevole volume Monumenti archeologici del Marghine (Sassari 2000). L’itinerario archeologico può coincidere, soprattutto nella zona pedemontana e montana del territorio, con quello ambientale. Infatti, se i boschi del Marghine non sono più quella “continua selva” di cui ha parlato l’Angius, a causa di un dissennato disboscamento perpetrato a partire dall’Ottocento, tuttavia essi offrono ancora oggi un superbo esempio di percorso ambientale. L’itinerario, che può iniziare dal Monte S. Antonio a Ovest e concludersi nella montagna di Bolotana a Est, offre i caldi e tipici colori della sughereta nelle quote più basse, cui succedono attorno ai 600/700 metri di altitudine i folti boschi di leccio dei salti ghiandiferi, più in alto i robusti tronchi dei boschi di roverella, per culminare sui mille metri, nel verde gagliardo dei tassi e degli agrifogli. Un itinerario ambientale nel cui percorso possono ammirarsi, insieme a siti e panorami di grande bellezza, come la cascata (s’istrampu) di Mularza noa e la vetta del monte Palai, anche l’intelligente opera di adattamento e di armonizzazione delle essenze autoctone con essenze esotiche, come nel bel parco che attornia la villa Piercy di Baddesalighes, recentemente restaurata e pronta ad ospitare un museo botanico naturale di rara ricchezza.
Non meno ricco e suggestivo è l’itinerario archeologico, adatto anche al visitatore sedentario o frettoloso che non ama spingersi oltre i centri abitati. L’itinerario può prendere l’avvio dalla monumentale stele della tomba di giganti di Imbertighe, appena fuori dall’abitato di Borore, per continuare nei numerosi monumenti neolitici e nuragici, tra cui la tomba di giganti di Palattu dentro l’abitato di Birori e il vicino nuraghe Miuddu, significativo esemplare di nuraghe a corridoio o proto-nuraghe, le domus de janas e i betili di Tamùli e l’imponente nuraghe Santa Barbara, non lontano da Macomer, per concludersi nel nuraghe di Santa Sabina, dirimpetto all’omonima chiesetta a pianta greca, poco lontano dall’abitato di Silanus.
È proprio questo sito di Silanus che offre l’immagine più suggestiva e più significativa della regione del Marghine e della Sardegna: esso sintetizza in modo plastico l’essenza della cultura di questo territorio e dell’isola intera. La presenza, a poche decine di metri di distanza l’uno dall’altra, del nuraghe di Santa Sabina e dell’omonima chiesetta a croce greca, formano un’immagine che difficilmente si cancella dalla memoria: essa rappresenta il simbolo più efficace del mistero, della storia, della cultura, dell’identità del Marghine come della Sardegna tutta.