Il contributo di Vittorio Angius al “Dizionario geografico-storico-statistico-commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sardegna” di Goffredo Casalis, di LUCIANO CARTA
Rubrica: ISTORIAS DE SARDIGNA contada dae Luciano Carta. Sa TERZA. Prefazione su Ditzionariu de Vittorio Angius.
1. La genesi del “Dizionario”.
Alla fine del 1833 usciva a Torino il 1° volume del Dizionario geografico storico statistico commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sardegna compilato dal sacerdote Goffredo Casalis (Saluzzo 1781-Torino 1856). Alla realizzazione di questa monumentale opera, che già negli anni Cinquanta dell’Ottocento veniva considerata come “miglior Dizionario, che forse possedesse il Piemonte”[1], il Casalis aveva dedicato quasi un trentennio e terminava l’opera in 26 volumi, suddivisi in 29 tomi[2], poco prima della morte. Tra il 1856 e il 1857 Paolo Camosso, collaboratore del Casalis ed erede della proprietà e dei diritti dell’opera, aggiungeva due volumi di Appendici, il 27° e il 28°, interamente dedicati alle integrazioni suggerite da numerosi eruditi ed estimatori e soprattutto ad una nuova esposizione delle voci contenute nel 1° volume del Dizionario, relative ad alcune città dei territori di Terraferma dello Stato sardo, che nell’originaria redazione erano state giudicate “troppo concise e non rispondenti all’ampiezza con cui per lo più erano trattate le altre nei volumi successivi”[3].
La colossale impresa editoriale, promossa attorno al 1830 da una società di imprenditori torinesi costituita dal libraio Giuseppe Maspero e dai tipografi Cassone, Marzorati e Vercellotti, se rispondeva alla sensibilità, al gusto e alle esigenze dell’intellettualità sardo-piemontese della prima metà dell’Ottocento, non si presentava di facile attuazione considerata la molteplicità di competenze che la sua realizzazione presupponeva. Attraverso la preliminare raccolta di una mole imponente di notizie di carattere geografico, statistico, storico, economico, demologico, politico-amministrativo, ecclesiastico e biografico, si trattava di realizzare una puntuale descrizione dei territori continentali e insulari appartenenti alla Corona sabauda. L’opera, infatti, non intendeva ricalcare il modello dei dizionari enciclopedici, dei numerosi prodotti della letteratura di viaggio o delle pubblicazioni di carattere erudito, o ancora delle descrizioni di carattere meramente corografico di ambiti territoriali particolari, di cui abbondava la letteratura di fine Settecento e del primo Ottocento, ma si proponeva di offrire un contributo oggettivamente testato di conoscenze del territorio che riuscisse utile, oltre che ai cultori di memorie locali e agli escursionisti, anche al mondo imprenditoriale e commerciale, ai funzionari pubblici e agli stessi governanti. Il Dizionario, come si legge nel sottotitolo, doveva risultare “opera utile agli impiegati nei pubblici e privati uffizi a tutte le persone applicate al foro alla milizia al commercio e singolarmente agli amatori delle cose patrie”. In altre parole, il Dizionario doveva riuscire un valido contributo ad una politica dinamica di riforme e di sviluppo della società e dello Stato, secondo le direttive del riformismo illuminato perseguito dalla dinastia sabauda a partire dalla seconda metà del Settecento.
Come ha scritto Gian Paolo Romagnani, “l’idea di raccogliere tutti quegli elementi geografici, storici, economici e statistici che avrebbero potuto servire agli uomini di governo per una migliore conoscenza e conduzione degli affari dello Stato”[4] non era nuova nel contesto culturale piemontese. Tale idea partiva da lontano in ambito culturale piemontese: già presente nel secolo XVII nelle Relazioni universali di Giovanni Botero, essa era stata fatta propria nella seconda metà del Settecento da un gruppo di giovani intellettuali torinesi sensibili al clima culturale del secolo dei lumi e alle suggestioni enciclopediche dell’illuminismo francese. Tra questi figuravano Angelo Paolo Carena, che nel 1765 aveva scritto un abbozzo di Dictionnaire géographique des États de S. M., e un gruppo di giovani aristocratici, di cui era anima il giovanissimo Prospero Balbo, che nel 1783 avevano dato vita ad un vivace circolo culturale, noto in seguito come Società filopatrida, e si erano fatti propugnatori di un moderno progetto di Dizionario geografico degli Stati sardi non meramente corografico-descrittivo, ma storico e geografico allo stesso tempo, e inoltre attento alla demografia, all’economia politica e alla nascente scienza statistica, che potesse fungere da valido sopporto alla illuministica idea di riformismo politico e di uso “civile” della letteratura.
L’idea di matrice illuministica per cui “la conoscenza della storia, della natura e del territorio del proprio paese sarebbe stata la premessa necessaria per qualsiasi azione riformatrice volta a migliorare le condizioni di vita dei sudditi di Casa Savoia”[5], che accomunava i progetti, che non ebbero seguito, del Carena e del circolo dei giovani aristocratici filopatridi, sta anche alla base del progetto di Dizionario proposto dal Marzorati e soci a Goffredo Casalis. La complessità di impostazione ne rendeva problematica la realizzazione, soprattutto perché il peso della redazione, per scelta dei committenti e dello stesso Casalis, avrebbe dovuto ricadere sulla spalle di un unico estensore. Questa circostanza trattenne a lungo il Casalis dall’accettare l’incarico. Pur essendo un letterato di riconosciuta capacità, particolarmente versato nella ricerca erudita di storia patria e di consolidata esperienza – dal 1823 al 1829 egli aveva curato un Repertorio medico-chirurgico e dal 1829 dirigeva per gli editori Maspero e Marzorati una fortunata collana popolare di cultura religiosa denominata Biblioteca economica di opere di religione – il sacerdote di Saluzzo si rendeva conto che l’ampio spettro di ambiti conoscitivi avrebbe presupposto l’esistenza di un nutrito gruppo di specialisti nelle diverse discipline, secondo la tradizione dell’enciclopedismo settecentesco. Tuttavia, poiché gli editori e lo stesso Casalis escludevano a priori tale soluzione, diventava essenziale, soprattutto per l’acquisizione delle notizie di carattere statistico ed economico, il supporto dell’amministrazione pubblica. Solo dopo tre anni di pressioni da parte degli editori, il Casalis firmò il contratto editoriale essendogli stata assicurata la protezione del Governo “senza gli auspici del quale – egli scrive – ho sempre stimato che impossibile ne fosse la buona riuscita”[6].
L’appoggio da parte dell’apparato governativo giunse, incondizionato e fattivo, per l’interessamento di Giuseppe Manno, allora ai vertici dell’amministrazione sabauda, che aveva un una sensibilità particolare per lo studio e la conoscenza delle realtà locali. Il Manno, magistrato sardo originario di Alghero, oltre ad essere un alto funzionario dello Stato sabaudo, era un letterato affermato; tra il 1825 e il 1827 aveva pubblicato la celebrata e fortunatissima Storia di Sardegna presso gli editori torinesi Alliana e Paravia[7]. “Come seppe che io mi sarei posto alla compilazione di quest’opera – ricorda il Casalis – ebbe la bontà non solo di mostrarsene soddisfatto, ma di asseverare che per le mie cure sarebbe essa recata a felice compimento”[8]. Il magistrato algherese, in effetti, si mise subito all’opera per ottenere dall’apparato burocratico dei territori dello Stato, quell’aiuto che il Casalis riteneva essenziale per la realizzazione del Dizionario. ”Promise i suoi benevoli uffizi: – continua il Casalis – ottenne in poco d’ora, che da me i potessero inviare lettere circolari a tutti gli Intendenti, e ai Sindaci del Regno, allo scopo d’avere le notizie geografico-statistiche di ciascuna provincia, di ciascuna città, d’ogni villaggio: e ciò che sommamente rileva, si compiacque suggerire il primo mezzo di avere quelle importantissime della Sardegna”[9]. Con il sostegno del Manno e l’incoraggiamento di alcuni tra i più validi letterati piemontesi particolarmente versati negli studi di storia patria, tra cui Ludovico Sauli, l’abate Costanzo Gazzera e lo storico Luigi Cibrario, Goffredo Casalis, al quale già dai primi mesi del 1833 “quasi ogni giorno, da tutte le provincie dei Regi Stati di terraferma … pervenivano ben ragguagliati riscontri alle circolari” inviate agli Intendenti, ai Sindaci e agli eruditi locali, diede inizio alla sua quasi trentennale fatica e già alla fine dello stesso anno poté iniziare la pubblicazione del Dizionario. A partire da quell’anno, con regolarità quasi annuale, uscirono i volumi successivi fino al 1856; ad opera conclusa il monumentale Dizionario constava di 28 volumi, distribuiti in 31 tomi, per un totale di 26.262 pagine a stampa.
Come si è accennato sopra, il Manno, “dotto e possente mecenate” del Dizionario, come lo definisce il Casalis, aveva provveduto anche a suggerire il mezzo migliore per superare quello che appariva l’ostacolo più serio per il compimento dell’opera: l’acquisizione dei dati relativi alla periferia più lontana dello Stato sabaudo, la “remota” e “mal conosciuta Sardegna”[10]. Dietro suggerimento del Manno, il Casalis si era rivolto all’erudito cagliaritano Ludovico Baille, persona che in quel momento era oggettivamente la più indicata per fornire “le cognizioni più accomodate a poter descrivere la corografia di tutta l’isola”[11]. Da oltre mezzo secolo l’erudito cagliaritano si era infatti dedicato alla trascrizione negli archivi isolani e della penisola dei documenti manoscritti relativi alla storia della Sardegna, alla realizzazione di una compiuta biblioteca di testi a stampa sulle vicende dell’isola e alla illustrazione di importanti testimonianze archeologiche e letterarie venute alla luce. In virtù di tali benemerenze era stato destinato a succedere nel 1827 al grande Domenico Alberto Azuni nella direzione della Regia Biblioteca dell’Università di Cagliari e attorno agli anni Trenta occupava una posizione di rilievo nel governo dell’Ateneo cagliaritano di cui era il censore.
Motivi di salute impedirono al vecchio Ludovico Baille di accettare l’incarico, ma fu egli stesso a trasferirne l’incombenza, con il consenso del Casalis, al trentacinquenne scolopio cagliaritano Vittorio Angius, “giovane ardente negli ottimi studi d’ogni maniera”[12], il quale, oltre a sobbarcarsi l’onere di raccogliere i materiali richiesti agli Intendenti ed ai Sindaci, s’incaricò anche di redigere direttamente le voci relative alla Sardegna divenendo così, a pieno titolo, coautore del Dizionario[13].
2. La personalità di Vittorio Angius.
La personalità di Vittorio Angius, nato a Cagliari il 18 giugno 1797, è stata variamente giudicata dagli storici. Ingegno molto versatile, portato sia agli studi umanistici che a quelli scientifici, aveva però un carattere scontroso e altezzoso che lo indusse più volte a polemiche astiose, che finirono per isolarlo. Solo e ridotto all’indigenza morì a Torino il 19 marzo 1862. Della sua morte nessuno in pratica si accorse; essa fu comunicata dal generale Alberto Lamarmora, suo conoscente ed estimatore col quale aveva condiviso diverse escursioni per la Sardegna negli anni Venti, al canonico Giovanni Spano in una lettera del 21 marzo 1862. Solo lo storico Pietro Martini nel 1863 e lo Spano nel 1867 gli dedicarono, nelle rispettive biografie del Lamarmora, poche parole di compianto e di riconoscimento dei meriti letterari e civili. “Se vogliamo essere giusti, – scrisse il Martini – dobbiamo onorarne la memoria, annoverandolo … fra i chiari cultori di storie patrie”[14]; e lo Spano: “Egli è dimenticato da tutti, nessuno ne parlò e molti ignorano perfino la sua morte, mentre meriterebbe una speciale biografia”[15]. In effetti, soprattutto grazie alla redazione di pressoché tutte le voci relative alla Sardegna, circa un terzo di tutta l’opera, del Dizionario del Casalis, ma non solo per esse, Vittorio Angius è sicuramente una personalità di spicco tra gli intellettuali sardi che nel secondo quarto dell’Ottocento diedero vita a quella ricca stagione culturale, chiamata periodo della “rinascenza sarda”. A partire dalla pubblicazione della Storia di Sardegna di Giuseppe Manno e sulle orme di essa, intellettuali come l’Angius, Pasquale Tola, Pietro Martini, Giovanni Spano, Giovanni Siotto Pintor, diedero un impulso notevole a ricostruire, nel generale quadro della cultura romantica che anche in Sardegna faceva sentire i suoi effetti, un sentimento nuovo dell’identità sarda attraverso validi contributi di carattere storico, geografico, demologico e linguistico tutti indirizzati a rivendicare alla Sardegna un ruolo specifico nella storia culturale italiana ed europea. L’Angius inoltre, come deputato del Parlamento subalpino durante la prima e la quarta Legislatura tra il 1848 e il 1853, fu tra coloro che parteciparono da protagonisti, sebbene da posizioni non sempre improntate a mentalità progressiva, ma sempre fondate su un impianto conoscitivo di prim’ordine, al moto risorgimentale che, iniziato con la “fusione perfetta” della Sardegna con gli Stati di terraferma, porterà alla costituzione dell’ Unità d’Italia. Inoltre egli non fu solo scrittore di cose patrie, ma fu anche poeta, giornalista, romanziere, cultore di argomenti scientifici e divulgatore dei progressi della scienza e della tecnica.
Di questo ruolo di indiscutibile importanza da lui rivestito nella tradizione storico-letteraria della Sardegna costituisce un sicuro indizio l’uso massiccio che è sempre stato fatto dagli scrittori di cose patrie delle voci relative alla Sardegna del Dizionario Casalis-Angius, che costituisce il quadro più approfondito prodotto nel secolo XIX “della situazione geografica, economica e sociale della Sardegna, della sua popolazione, dei suoi usi e costumi, della sua lingua, delle sue tradizioni, della sua storia”[16]. Una conferma di tale importanza la offrono le edizioni, parziali o complete, che di quelle voci sono state fatte dagli anni Settanta del Novecento ad oggi, ciascuna con finalità proprie, ma accomunate dalla consapevolezza che la descrizione della Sardegna ottocentesca offerto dall’Angius nel Dizionario è il repertorio più ricco e completo al quale lo studioso e il curioso possono attingere[17]. Ed è in considerazione di tale caratteristica dell’opera dell’Angius che, dopo un quasi totale ostracismo durato oltre un secolo[18], nell’ultimo quarantennio alcuni studiosi hanno provveduto a rendere a questo importante studioso della Sardegna quell’atto di giustizia, a suo tempo auspicato dagli amici e contemporanei, con la pubblicazione di diversi contributi storiografici[19].
Agli inizi degli anni Trenta, quando Ludovico Baille decise di affidare a lui l’incarico di compilare gli articoli del Dizionario del Casalis relativi alla Sardegna, Vittorio Angius era un giovane sacerdote scolopio già molto interessato alle ricerche sulla storia e sulle antichità della Sardegna. Il Baille lo aveva sicuramente conosciuto nel periodo di formazione a Cagliari, dove il giovane aveva seguito gli studi nelle scuole degli scolopi, l’unico ordine religioso che si occupava dell’educazione della gioventù dopo la soppressione dei gesuiti nel 1773, che annoverava numerosi uomini di cultura e docenti universitari, alcuni dei quali si erano distinti nello studio e nell’insegnamento delle lettere e delle discipline scientifiche[20].
Entrato nell’ordine dei Padri della Scuole Pie all’età di 15 anni nel 1812, portò a termine gli studi presumibilmente attorno al 1820. Ordinato sacerdote, dopo aver insegnato a Cagliari per qualche tempo nelle scuole elementari, nel 1826 lo troviamo a Sassari con l’incarico di docente di Retorica e aggregato a Collegio di Filosofia in quella Università. Nel 1829 viene creato prefetto (ossia preside) delle Scuole scolopiche del capoluogo turritano. I progressi della carriera del giovane e brillante scolopio cagliaritano ci sono noti da un fitto carteggio inedito intercorso tra il 1826 e il 1834 tra lui e i fratelli Ludovico e Faustino Baille, suoi estimatori e consiglieri, conservato presso la Biblioteca Universitaria di Cagliari. È attraverso questo carteggio che conosciamo l’attività dell’Angius durante il periodo ssssarese, che durò fino al 1835, quando egli rientrerà a Cagliari con l’incarico affidatogli dal governo di prefetto delle Scuole Pie di Cagliari.
Durante il soggiorno a Sassari, nella sua qualità di professore aggregato al Collegio di Filosofia dell’Università, nel novembre 1827 Angius ebbe l’incarico, in occasione dell’apertura dell’anno accademico, di pronunciare l’elogio del grande giurista sassarese Domenico Alberto Azuni, scomparso a Cagliari il 20 gennaio di quell’anno[21]. Forbito scrittore in lingua latina, l’Angius negli anni successivi verrà incaricato per altre quattro volte, prima del suo rientro a Cagliari nel 1835, di pronunciare la prolusione dell’anno accademico dell’Ateneo turritano, occupandosi in altrettante orazioni latine di tre illustri sassaresi: il teologio Giorgio Sotgia Serra, il celebre giurista e storico Francesco Angelo Vico, vissuti nel Seicento, e il padre della storiografia sarda Gian Francesco Fara, vissuto nel Cinquecento; l’ultima orazione latina pronunciata a Sassari dall’Angius è dedicata alla giudicessa Eleonora d’Arborea[22].
Più citate che lette e studiate, le tre orazioni latine pubblicate, contenenti gli elogi dell’Azuni, del Fara e di Eleonora d’Arborea costituiscono momenti importanti della maturazione da parte dell’Angius di quell’ideologia ‘sardista’ che sta alla base dell’opera dei maggiori rappresentanti della “rinascenza sarda” della prima metà dell’Ottocento. Questa ideologia era indirizzata, sulle orme di Giuseppe Manno, a delineare, secondo modelli romantici caratteristici della cultura italiana ed europea della prima metà dell’Ottocento, un’immagine della Sardegna dotata di un’identità specifica, tesa a individuare, come si diceva allora, il “genio del popolo sardo”, in raffronto e anche in competizione con le caratteristiche identitarie degli altri popoli. Tale cultura identitaria doveva aprirsi al confronto con gli altri popoli, delineare gli aspetti specifici della sua civiltà capaci di creare rapporti dinamici e di comunicazione costruttiva con le altre civiltà e le altre culture. Gli intellettuali della cosiddetta “rinascenza sarda” contribuirono, cioè, a elaborare un concetto di identità della Sardegna che, partendo dalla specificità etniche, linguistiche e storiche, fosse capace di far conoscere i valori della propria civiltà e di renderli dinamicamente compartecipi dei valori delle altre culture, in particolare di quelli progressivi e propulsivi della società moderna.
Così Vittorio Angius, sull’esempio di Domenico Alberto Azuni, intellettuale di apertura europea, rivendica come passaggio necessario per lo sviluppo della cultura del popolo sardo, lo svecchiamento e la deteologizzazione della cultura sarda, ancora abbarbicata ai vieti modelli interpretativi delle “muffate ghiande” della tradizione aristotelico-scolastica; sollecita l’accoglimento della mentalità sperimentale propria della cultura illuministica; invita i giovani ad un improcrastinabile e salutare bagno di cultura scientifica. Come già aveva fatto l’Azuni nell’opera Histoire géographique, politique et naturelle de la Sardaigne, l’Angius esprime la convinzione che era quanto mai urgente, per favorire il progresso e superare l’arretratezza, inserire nelle Università sarde l’insegnamento dell’Economia politica; soprattutto era necessario favorire l’applicazione della gioventù sarda allo studio delle scienze sperimentali: “Iuvenes praestantissimi – egli esorta – omne ingenium conferte in scientias”!
Ma non è solo questo il messaggio che proviene dall’esempio dell’Azuni. Egli è anche, secondo lo scolopio cagliaritano, una emblematica figura nella quale è possibile vedere come una mentalità moderna e un programma di svecchiamento della cultura e della società si coniugano in modo armonico con un’ideologia politica moderata, contraddicendo l’assioma secondo cui varrebbe l’equivalenza tra modernità e ideologia politica giacobina. Infatti, sostiene l’Angius, contrariamente a quanto dell’Azuni è stato detto e scritto dai suoi detrattori già al suo rientro in Sardegna nel 1816, durante il periodo della sua permanenza in Francia egli non fu mai un giacobino, non professò idee rivoluzionarie e non tradì mai la causa della monarchia sabauda. In effetti, come ha scritto anche Luigi Berlinguer, il suo più autorevole studioso, D. A. Azuni “fu un moderato, un girondino, un restauratore. Attaccò Rousseau per difendere il diritto alla proprietà privata come diritto naturale; fu contrario ad espressioni politiche di eccessiva libertà individuale (libertà di stampa, ad esempio, ed alle forme di autogoverno espresse temporaneamente dal moto antipiemontese in Sardegna); fu sempre decisamente avverso ad ogni forma di egualitarismo”[23].
L’ideologia riformista si sposa bene, dunque, con una fede politica moderata, tutta inserita nell’alveo del paternalismo illuminato della monarchia sabauda, secondo le linee tracciate dal Manno nella sua Storia di Sardegna, il quale aveva additato nel riformismo settecentesco del periodo boginiano come strada maestra della politica sabauda anche nel periodo feliciano e albertino. Emerge, dunque, in questo orazione latina in lode dell’Azuni, personalità nella quale l’Angius sembra quasi specchiarsi, una chiara operazione politico-culturale che vedremo costituire l’obiettivo di fondo anche del Dizionario: consolidare e propagandare quella ideologia che Girolamo Sotgiu ha definito di ammodernamento senza riforme, elemento caratterizzante della politica sabauda dall’epoca del Bogino fino al 1848. L’ammodernamento della cultura, così autorevolmente rappresentato dall’Azuni, doveva essere riportato nell’alveo del riformismo illuminato; la Grande Rivoluzione, alcuni aspetti della quale potevano far capolino attraverso la personalità dell’Azuni, andava esorcizzata. La ricca e complessa figura del giurista sassarese andava mendata da ogni ‘peccato’ rivoluzionario e proposta ai giovani secondo il cliché di scienziato brillante e suddito fedele alla causa della dinastia sabauda. Ed è quasi in adempimento ad una delle aspirazioni dell’Azuni, che nel 1821 aveva proposto la pubblicazione di una rivista scientifica, che l’Angius promuoverà, tra la fine del 1838 e l’autunno del 1839, la rivista mensile Biblioteca sarda[24].
Non è tuttavia senza significato che l’orazione in lode dell’Azuni termini con un altissimo elogio di Giuseppe Manno “il più grande storico della Sardegna … del quale la città di Alghero potrà vantarsi come Padova del suo Tito Livio”. Accanto alla modernizzazione della mentalità e del metodo scientifico doveva procedere, secondo l’Angius, il recupero della memoria storica della Sardegna; a questo secondo aspetto del programma di rinnovamento della cultura sarda da parte dell’Angius è dedicata in gran parte l’orazione in elogio di Gian Francesco Fara, il padre della storiografia sarda, “patrem et conditorem sardoae historiae”[25]. Dopo avere esaminato il metodo educativo, fondato sul rispetto della personalità dell’allievo, l’Angius illustra il metodo storiografico dello storico sassarese, che è poi lo stesso metodo che egli addita per la ricerca storiografica. Gian Francesco Fara, osserva l’Angius, ha saputo costruire nella Corographia sulla Sardegna e nel De rebus sardois una narrazione geografica e storica sulla base di un corretto metodo storiografico e scientifico fondato sulla ricerca diretta e minuta del materiale documentario. La narrazione storica diventa, grazie alle ricerche pazienti e documentate del Fara, narrazione di fatti e non di fantasie mitiche e retoriche. L’Angius, nell’attribuire al Fara la paternità di quella che in realtà è la sua concezione storiografica, lo pone sullo stesso piano dei moderni “statistici”. E di quel che l’Angius intendesse per “statistica”, egli forniva in quegli stessi anni un esempio negli articoli che andava redigendo per il Dizionario del Casalis: fornire una conoscenza della realtà sarda che fosse frutto di una documentata ricerca sul campo, attraverso un inventario puntuale dei documenti archeologici letterari e archivistici nonché di uno studio dei fenomeni demografici ed economici che non può fare a meno dell’analisi quantitativa. Come vedremo meglio oltre, l’opera storico-statistica dell’Angius presente nel Dizionario è molto accurata e si potrebbe dire che in questo il suo lavoro è più completo di quello del Manno, se all’Angius non facesse difetto lo stile letterario e la capacità di intessere la narrazione storica attorno ad alcune fondamentali idee chiave. L’opera storica del Manno è tanto tersa e misurata nel dettato quanto farraginosa e priva di freno è quella dell’Angius; è però ugualmente vero che invano nell’opera del Manno il lettore ricercherebbe quell’impressionante mole di dati quantitativi che ritroviamo negli articoli del Dizionario capaci di offrire una dimensione meno letteraria e più scientifica della realtà sarda. La statistica intesa come ricerca sul campo e come sforzo di quantificazione dei fenomeni storico-sociali, che non dovrebbe mai mancare nell’opera storiografica, è secondo l’Angius già presente nell’opera del Fara e a questa caratteristica di essa il moderno ricercatore deve far riferimento per offrire un adeguato recupero dell’identità culturale dei sardi.
L’altra importante orazione dell’Angius, letta nell’Ateneo sassarese come prolusione dell’anno accademico 1835-36, è interamente dedicata alla individuazione di un periodo storico e di un personaggio in cui la civiltà del popolo sardo abbia raggiunto il suo apice, una sorta di età dell’oro della civiltà sarda. Ebbene, nell’orazione in onore di Eleonora d’Arborea egli individuava nel medioevo giudicale il momento culminante della civiltà dell’isola e in Eleonora il personaggio eroico di quel glorioso passato della nostra storia. Nasceva con questa orazione dell’Angius il mito storico del medioevo sardo e dell’eroina Eleonora[26]. E poiché il “genio” di un popolo non può riferirsi solo agli aspetti politici della vicenda storica di un popolo, ma coinvolge anche i costumi, i modi di vita, la cultura artistica e letteraria, la lingua, l’Angius, dopo aver delineato queste caratteristiche specifiche del “genio” del popolo sardo negli articoli che egli andava gradatamente redigendo per il Dizionario del Casalis, cercherà anche di dare una compiuta rappresentazione di questo periodo d’oro della civiltà sarda attraverso quella che egli definisce l’epopea della storia giudicale della Sardegna: si tratta dell’opera Leonora d’Arborea, cui egli lavorerà fin dai primi anni della sua permanenza a Torino ma pubblicherà solo nel 1847 e che impropriamente viene definita dagli studiosi come il “romanzo storico” dell’Angius[27].
Occorre avere presenti anche questi aspetti del pensiero dell’Angius per un adeguato inquadramento del suo lavoro per il Dizionario geografico-storico, un pensiero che egli andava maturando in altri scritti negli stessi anni in cui collaborava ai primi volumi di esso.
3. Strumenti, modalità e tempi di raccolta dei dati statistici.
La rilevazione dei dati statistici, come già avveniva per gli Stati di terraferma, avvenne in primo luogo attraverso la spedizione agli uffici periferici dell’amministrazione statale, ai sindaci e ad alcuni eruditi, di una sequenza di punti formulati attraverso 30 quesiti sulla cui base dovevano essere compilate le schede relative ai singoli paesi, città o regioni storico-geografiche, le cui risposte dovevano poi essere restituite a Sassari al sacerdote Vittorio Angius che firmava in qualità di “incaricato della compilazione della corografia della Sardegna”. Da una rapida analisi del primo questionario, che si pubblica integralmente in questo volume dopo la Prefazione, si coglie la struttura di massima che si ritrova nella descrizione dei luoghi e la ricchezza di informazioni statistiche richieste.
Di ogni località si voleva sapere l’estensione territoriale, l’assetto urbanistico e viario, le condizioni igieniche, le professioni e i mestieri che vi si esercitavano con il numero degli addetti, le istituzioni civili e religiose presenti, lo stato dell’istruzione elementare istituita in tutti i Comuni nel 1823, la presenza di scuole superiori, l’eventuale contingente di forza pubblica e di truppe miliziane o della compagnia barracellare, il numero delle chiese urbane e rurali e la loro intitolazione, la consistenza del clero e delle decime, le principali feste religiose e i pubblici divertimenti che le accompagnavano, lo stato della popolazione anche in prospettiva storica con l’indicazione dell’incremento demografico attraverso il numero annuale di matrimoni, nascite e morti, il clima, la distanza dei piccoli comuni dalle città e dall’asse viario centrale, l’appartenenza alle divisioni amministrative (province e distretti) e giudiziarie (mandamenti).
Un’altra serie di quesiti di carattere economico chiedeva di segnalare le risorse principali del territorio, con particolare attenzione alle due fondamentali attività della pastorizia e dell’agricoltura. Doveva pertanto essere indicata la primaria vocazione del territorio, se agricola o pastorale, la quantità di frumento e di altre sementi coltivate e raccolte, il numero di contadini e di pastori addetti alla coltura e al governo del bestiame, lo stato dei monti granatici e nummari, l’alternanza annuale o biennale delle vidazzoni e dei paberili e i conseguenti rapporti tra contadini e pastori, la consistenza delle chiusure in applicazione dell’editto delle chiudende, il numero dei gioghi e di animali da trasporto, l’estensione della coltura dei vigneti, degli oliveti e di altri alberi da frutto; si dovevano inoltre indicare il numero di armenti e di animali domestici, le modalità di confezione dei formaggi e dei latticini e la quantità destinata al commercio.
Una terza serie di quesiti tendeva a individuare le risorse naturali del territorio, ossia la situazione delle acque e delle fonti, la presenza di minerali passibili di sfruttamento, l’abbondanza di cacciagione e il suo esercizio nei territori di pertinenza, l’entità e le modalità di esercizio della pesca nei paesi costieri.
Una quarta serie di quesiti si riferiva alla conoscenza di quello che oggi definiremmo patrimonio artistico e monumentale dei singoli comuni. Si richiedeva la segnalazione ove possibile precisa di nuraghi e monumenti megalitici e neolitici in genere, di castelli e vestigia di antiche popolazioni, di iscrizioni latine, di chiese monumentali di particolare importanza storica o religiosa.
Infine negli ultimi quesiti, che ci fanno cogliere una Sardegna ancora immersa nell’anacronistico sistema feudale, si chiedeva il feudo di appartenenza delle ville infeudate con l’indicazione dei diritti esatti dai feudatari e della curia baronale di riferimento; per i feudi reali e per le sette città di amministrazione regia si chiedeva l’entità dei diritti versati al fisco e la segnalazione degli uffici periferici dell’amministrazione civile, fiscale e giudiziaria cui le singole località facevano capo.
Si tratta, come si può vedere, della raccolta di una mole veramente imponente di dati, che dovevano servire alla redazione del prospetto statistico delle voci del Dizionario, gran parte delle quali, in particolare quelle che descrivono i singoli comuni e le province o le regioni storico-geografiche, risultarono poi essere delle vere e proprie monografie esaustive e fedeli dei territori descritti. Ed è proprio questa ricchezza di dati statistici e descrittivi che rende il Dizionario Casalis-Angius ancora oggi, a distanza di quasi due secoli dalla sua pubblicazione, una fonte unica nel suo genere per la conoscenza della Sardegna.
Come racconta il Casalis nella prefazione al Dizionario, l’Angius, appena ebbe ricevuto l’incarico di collaborazione attorno al 1832, provvide subito, con l’incoraggiamento del Manno e con la collaborazione del vicerè e del suo segretario particolare Ciaudano, a far pervenire il questionario di cui abbiamo parlato sopra agli intendenti e ai sindaci della Sardegna. L’esito di questo primo approccio non fu però secondo le aspettative. Di conseguenza, “veggendo che gli venivano troppo a rilento i chiesti ragguagli dei luoghi di ciascuna Amministrazione, abbracciò tostamente il consiglio di rivolgersi per questo scopo, con altra apposita circolare, e con altro acconcio prospetto, ai Vescovi, ai Parroci, ad ogni più colta persona della Sardegna: e questo avveduto consiglio ottenne il miglior effetto possibile; perocché in men d’un anno, alle sue preziose cognizioni, a quelle attinte alla gravissima storia del Manno, e ai rilevanti scritti, che il Della Marmora dettò, fu egli in grado di riunire tutte quante le notizie dalla natura di questo lavoro addimandate”[28]. Anche questa circolare e i prospetti spediti di nuovo dall’Angius, consistenti in un più semplificato quadro di Quesiti statistici e in una scheda semplificata, quest’ultima probabilmente fatta pervenire ai comuni più piccoli, vengono pubblicati in apertura del 1° volume di questa nuova edizione del Dizionario storico-geografico; si tratta di materiali di grande interesse per ripercorrere le modalità e le difficoltà con cui è stata realizzata l’opera. È doveroso tuttavia aggiungere, come risulta dai pochi ricordi personali sparsi nel Dizionario nonché dall’orazione latina in lode di Gian Francesco Fara e dall’epistolario con lo Spano, che l’Angius non si accontentò di spedire e raccogliere i questionari statistici, ma a partire dal 1832 e fino al 1840, anno della sua partenza per Torino, provvide egli stesso a percorrere palmo a palmo l’isola. Non solo, ma egli finì per assumersi anche l’incarico di scrivere interamente le voci sulla Sardegna. “Frattanto il Padre Angius – scrive il Casalis – proseguendo con somma attività nello assuntosi lavoro, e dal modo, in cui se ne trovava tutto occupato, bene accorgendosi, che la difficile ricerca, lo spoglio, l’esame e la compilazione delle materie relative agli Stati di terraferma, mi avrebbero posto innanzi abbastanza che fare, con nuova inaspettata bontà volle rendermi avvertito, che qualora io gli avessi indicato il metodo da me tenuto nella compilazione degli articoli, per scemarmi una troppo grave fatica, avrebbe egli medesimo composti quelli che ragguardavano all’intiera Sardegna. Come spontaneamente promise, così volentieri adempì. Negli articoli, che già mi ha spediti, si osservano e bell’ordine, e tanta concisione, quanta ne acconsente la copia delle cose narrate. Gli stessi pregi si avranno certo i rimanenti, che via via mi andrà trasmettendo. Così la Sarda corografia, per cui verrà molto lustro a questo Dizionario geografico dei Regii Stati, è tutta opera di quell’egregio letterato[29]; ed a me non altro ne rimane che il merito, o per dir meglio, la compiacenza di avere eccitato l’ardore, con cui egli la conduce a quel grado di perfezione, che per un uomo istruito e diligente si possa. Queste cose ho voluto narrare – conclude il Casalis – perché la riconoscenza me ne impone il dovere, ed affinché il reggitore bramoso di conoscere la vera geografia d’ogni illustre nazione, sappia per quali cagioni può adesso imparare quella di un’isola italiana così celebrata”[30].
4. Aspetti geografico-statistici delle province di Alghero, Busachi, Cagliari e Cuglieri.
Non è impresa facile dare un quadro succinto ma fedele di un’opera così complessa e ricca qual è il Dizionario Casalis-Angius, considerato che la sua stessa complessità e ricchezza esigerebbe un capitolo a sé per ciascuno dei numerosi aspetti dell’universo della Sardegna della prima metà dell’Ottocento minutamente esaminati.
Dei molteplici aspetti alla luce dei quali essa può essere letta e studiata, ne privilegeremo tre che possiamo così riassumere: delineeremo anzitutto un quadro della Sardegna descritta dall’Angius sotto il profilo geografico-statistico; esamineremo quindi l’aspetto demo-antropologico dei suoi abitanti, individuando gli usi, i costumi, le abitudini, la cultura nelle realtà territoriali più significative; infine dedicheremo alcune considerazioni finali alla parte storica, con il precipuo scopo di individuare il concetto di identità della Sardegna quale viene delineata dall’Angius nel quadro della riscoperta, fatta dall’intellettualità isolana nel cosiddetto periodo della “rinascenza sarda”, dell’idea di “nazione sarda” che tanta importanza ha avuto, ed ha ancora oggi, per l’immaginario collettivo del popolo sardo.
Gli aspetti sopra indicati verranno individuati ed enucleati attraverso tutte le voci presenti nel Dizionario, fatta eccezione per la voce Sardegna, che occupa, come abbiamo visto, i tre tomi XVIII bis, ter e quater, e che in questa edizione non viene ripubblicata[31]. Una scelta, questa, che nasce da diverse motivazioni. In primo luogo la lunghissima voce Sardegna, pubblicata nell’arco di un quinquennio tra il 1851 e il 1856, costituisce, sotto diversi aspetti, una ripetizione di dati e di notizie storiche inseriti nelle altre voci sparse in 26 volumi dell’opera. In secondo luogo cospicua parte della narrazione storica non è attendibile perché gravemente inficiata dall’utilizzazione della false carte d’Arborea, ritenute autentiche dall’Angius come da gran parte degli intellettuali sardi dell’Ottocento. Infine, lo scopo di questa nuova edizione dell’opera dell’Angius è soprattutto quello di proporre al lettore un percorso che gli consenta di conoscere la specificità, varietà e la ricchezza delle caratteristiche dei singoli comuni e delle tradizionali regioni storico-geografiche della Sardegna delle prima metà dell’Ottocento nelle loro risorse, usi, costumi, condizioni di vita, cultura, credenze, ecc.
Un percorso ideale capace di delineare un quadro sintetico ma adeguato delle condizioni della Sardegna della prima metà dell’Ottocento descritta dall’Angius sotto il profilo geografico-statistico è offerto dalla descrizione per province, consapevoli però che i dati demografici e delle risorse non sono omogenei sotto il profilo cronologico in quanto le voci sono state redatte a intervalli temporali consistenti, che coprono talvolta anche un ventennio.
L’immagine della Sardegna quale emerge dalla narrazione dell’Angius sotto questo specifico profilo, risente fortemente del clima di graduali riforme avviate dai sovrani sabaudi a partire dal primo decennio dell’Ottocento; riforme che tuttavia vanno a scontrarsi con il perdurare del sistema feudale, che solo con il regno di Carlo Alberto verrà gradatamente smantellato. È questo il motivo per cui gli articoli sulla Sardegna redatti tra il 1832-33 e il 1846 (in pratica quelle inserite nei volumi 1-13 del Dizionario, dalla lettera A alla lettera P, risultano essere sotto il profilo politico economico e amministrativo un singolare miscuglio tra sistema feudale e razionalizzazione amministrativa, dove un ordinamento incide sull’altro e non è ben chiaro perché l’Angius privilegi un impianto narrativo fondato ora sull’uno ora sull’altro ordinamento.
Com’è noto, la razionalizzazione amministrativa fu iniziata da Vittorio Emanuele I con l’istituzione nel maggio 1807 delle Prefetture che vennero insediate in 15 province in cui veniva suddiviso il Regno. I prefetti messi a capo di ciascuna provincia svolgevano funzioni non solo giudiziarie e amministrative, ma anche economiche e finanziarie e di controllo politico e fiscale. Ridotte le Prefetture o Province da 15 a 12 nel 1814, un editto di Carlo Felice del 1821 ne potenziava le funzioni e le portava a 11. Nel 1825, infine, un altro editto feliciano separava definitivamente la carica di intendente da quello di prefetto, attribuendo al primo una funzione prevalente di controllo fiscale ed economico-finanziario ed al secondo una funzione più marcatamente giudiziaria.
Ciascuna provincia era suddivisa in circoscrizioni territoriali minori, nei capoluoghi delle quali stava un esattore incaricato della riscossione dei tributi. Le 11 Province della riforma del 1821, che resteranno invariate fino alla “fusione perfetta” e alle riforme del 1847-48, costituiscono le macro-aree su cui è basata la descrizione corografico-storica e statistica dell’Angius. Esse sono, secondo l’ordine alfabetico e di redazione e pubblicazione delle rispettive voci, le province di Alghero, Busachi, Cagliari, Cuglieri, Gallura o Tempio, Iglesias o Sulcitana, Isili, Lanusei o Ogliastra, Nuoro, Ozieri, Sassari.
Costituita da 19 Comuni suddivisi in 3 distretti per l’amministrazione finanziaria (capoluoghi Alghero, Bonorva e Thiesi)[32] e in 13 mandamenti per l’amministrazione della giustizia, la provincia di Alghero, che secondo i dati del 1832, constava di 31.402 abitanti su una superficie di 350 miglia quadrate, è a vocazione prevalentemente agricola e pastorale, con l’eccezione del capoluogo che ha al suo attivo anche lo sfruttamento delle risorse del mare. Nel suo insieme, scrive l’Angius, il territorio si trova “in uno stato poco florido pei cattivi metodi agrari, che il sardo tenacissimo degli usi dei suoi non vuol modificare”. Sempre a causa dell’arcaicità dei metodi di consuzione, anche la pastorizia “è poco fruttuosa, per ignorarsi il modo di mantenere in sanità il bestiame”. Non solo, ma non essendo in alcun modo praticata la pastorizia stanziale, i pastori distruggono i boschi per nutrire gli animali con le fronde degli alberi durante i freddi invernali, per cui “niuno invigilando per la conservazione dei boschi, scema ogni dì il loro numero”.
A questa relativa povertà del territorio fa da contraltare Alghero, città capoluogo, dove insieme alla notevole ricchezza di risorse ittiche viene anche esercitata la pesca del corallo, che però è a prevalente appannaggio di corallari napoletani, toscani e genovesi. Ma la causa più grave dell’arretratezza della provincia risiede nel fatto che i 19 comuni fanno capo a ben 12 feudi compresi nel suo territorio, appartenenti a feudatari diversi, che gravano dei diritti più impensati i poveri vassalli. È quindi necessario, rileva l’Angius, per poter sperare in un progresso del territorio, in primo luogo il superamento di questo anacronistico sistema, e con esso quello delle decime ecclesiastiche, quindi l’incremento dell’istruzione elementare, nella quale si deve, “oltre del leggere e scrivere, insegnare il conteggio, e spiegare i rudimenti dell’agricoltura”. Per favorire lo sviluppo del territorio occorre inoltre incrementare l’industria manifatturiera che “è men che nulla in questa provincia”, e favorire la costruzione “di un porto franco pel commercio nell’antico Portus nimphaeus, cioè nel golfo di Porto Conte, non lontano dal promontorio di Capo Caccia, che contiene la famosa grotta di Nettuno”. Infine, altro mezzo fondamentale per lo sviluppo, è quello della colonizzazione delle vaste zone disabitate. “Sarebbe ottimo consiglio – suggerisce l’Angius – e di grande incremento all’agricoltura, al commercio, alla popolazione dell’isola, se in molti di questi siti, i più comodi per la vita e salubri, si ripristinassero le abitazioni, e se la popolazione de’ cittadini dedicati all’agricoltura si facesse stanziare nel contado”.
Emergono già da questi cenni relativi alla provincia di Alghero alcune delle misure adatte, secondo le valutazioni dell’Angius, a favorire lo sviluppo dell’isola, che egli ripeterà per tutti gli altri contesti territoriali: la conoscenza come fondamento per la trasformazione della mentalità, la lotta contro la pastorizia brada, la colonizzazione delle zone deserte, l’incremento del commercio e dell’industria. Sono gli stessi temi che egli riprenderà, con martellante insistenza fino a rendersi tedioso, durante la sua esperienza di deputato del Parlamento subalpino tra il 1849 e il 1853.
Singolarmente estesa è la provincia di Busachi, che consta di 81 comuni suddivisi in 8 distretti e 15 mandamenti[33].
La provincia, che spazia dalla Barbagia all’Alta Marmilla, dalla costa del Sinis con l’inclusione di Oristano, stranamente non eretta a capoluogo, ai Campidani di Milis e Maggiore, dai paesi gravitanti attorno al fiume Tirso ai comuni di Sedilo e Ghilarza, secondo i dati del 1834 consta di 27.205 e di una popolazione residente di 71.605 abitanti, di cui1708 nel capoluogo. Considerata la vasta estensione della provincia, sono diversi i problemi e le potenzialità economiche del territorio. In primo luogo è da rilevare lo stentatissimo incremento demografico che nel decennio 1825-1834 passa da 68.565 unità a 71.605, con un saldo decennale di soli 3040 abitanti, conseguenza anche della bassa longevità della vita, che con la media di 55 anni risulta essere la più bassa rispetto alle altre 10 province. “Se domandi – scrive l’Angius – qualche ragione perché [l’incremento della popolazione] sia minore, che potrebbe essere, mentre molte io ne riconosco, tra queste ti citerò le principali: ed è, a dir vero, anche generale quella ch’io desumo dalla povertà, che non solo non lascia prosperare e vivere la massima parte dei nati, ma vieta i matrimoni tra persone mature: quindi la poca diligenza verso i bambini e fanciulli, la non rispettata sobrietà, e le acque gravi di sostanze maligne nei campidani, e i cibi poco sani, che conviene si prendano in mancanza di migliori. Si aggiunge specialmente per li dipartimenti di levante le vendette, e la vita errante dei pastori, e generalmente nelle malattie i pregiudizi, la poca persuasione del salutare effetto della vaccinazione, e la stoltissima ignoranza, e nessuna destrezza dei chirurghi e flebotomi, che decimano le popolazioni, e sono causa principale della mortalità”. Una situazione che difficilmente può essere superata perl’incuria in cui versa l’istruzione, affidata a “persone incapaci e senza zelo”, fatta eccezione per la città di Oristano, che ospita le Scuole Pie e il seminario arcivescovile; per la frequenza delle zone paludose soprattutto nei tre Campidani; per l’uso di seppellire i defunti nelle chiese anziché nei cimiteri, in particolare nel distretti di Ales, dove “si respira un’aria fatta maligna dalla mefite dei sepolcri”; per l’insufficienza dell’alimentazione e la mancanz di colture particolari, come quella della patata, coltivazione quest’ultima che se debitamente inculcata “libererebbe anche la Sardegna dalle funeste conseguenze delle carestie”; ma soprattutto, in una regione a vocazione prevalentemente agricola, per la mancata riforma dell’agricoltura. Si ritrova in questo articolo sulla provincia di Busachi uno dei passi più significativi e appassionati scritti dall’Angius in difesa di un programma di riforma agraria che si richiama espressamente alla linea sostenuta da Francesco Gemelli nella seconda metà del Settecento, che pone come elemento essenziale il superamento della comunità dei terreni e conseguentemente una seria applicazione dell’editto delle chiudende per la formazione della proprietà perfetta e l’istituzione di aziende modello che fungano da punto di riferimento agli agricoltori. “Si vorrebbe da molti – scrive l’Angius – riformata l’agricoltura, si vorrebbe portata alla perfezione cui giunse nelle più culte regioni. Ma con ciò sia che al desiderato evento nessuna preparazione siasi fatta. Il compimento di questi voti io li veggo molto ancora in là. Cessi prima e la comunanza e la quasi comunanza delle terre, abbia ciascuno il suo campo, e sel chiuda; i ricchi proprietarii siano i primi nella riformazione degli istromenti, e nell’adottamento dei metodi più ragionevoli; i contadini siano istruiti nei principi dell’agronomia, ed abbiansi tutte le facilitazioni. La fera proprietà, l’esempio persuasivo, l’istruzione soda, le molte agevolezze, ecco quali saranno i potenti impulsi che faccian progredire quest’arte fra noi. Ed insistendo sulla necessità dell’istruzione dico primieramente convenire ai proprietari come a interessati nella prosperazione dell’arte ed ai parroci cui gioverebbero decime più pingui, che procuransi dalle condizioni georgiche: in secondo luogo che per riguardo ai contadini, immediati esercitatori dell’arte, si faccia praticare quello fu sapientemente istituito, e per somma disgrazia generalmente trascurato, che nelle scuole primarie si insegni con diligenza il catechismo agrario. Il quale però, mentre si riconosce insufficiente a conseguire il fine, sarebbe ottimamente fatto se in ciascuna provincia si formasse una villa-modello, dove e si mandassero dai vicini dipartimenti i giovani ad un più ampio addottrinamento, e gli imprenditori fossero da un falegname e da un ferraio ammaestrati per la fabbricazione dei nuovi istromenti dei lavori: e terminato il corso quelli degli istromenti, e questi degli utensili delle rispettive officine, fossero provveduti, concesso ai poveri un respiro al pagamento con tenuissimo interesse”.
Sempre al 1834 sono riferiti i dati demografici della provincia di Cagliari, costituita da 62 comuni, la cui popolazione risultava essere in quell’anno di oltre 100.000 abitanti, di cui 25.769 nella capitale[34]. Una situazione complessiva, quindi, migliore rispetto alla derelitta provincia busachese, dovuta alla maggiore fertilità dei terreni, alla varietà delle coltura, allo sviluppo del commercio che si esercitava prevalentemente nel porto di Cagliari, alla evoluzione culturale e sociale della capitale del Regno “dove tutto è conforme alle mode fiorenti nelle più polite città del continente” e dove è adeguatamente sviluppato il sistema dell’istruzione con la presenza di tutti i gradi di essa fino all’Università. Più curato, inoltre,risulta in questa provincia il sistema sanitario, con la presenza in ogni distretto di un medico, di un chirurgo e di un farmacista stipendiati dalle comunità locali dalle quali “è stabilito, che quelli, di cui consti la povertà, abbiano le medicine gratuitamente”. Anche qui è tuttavia da lamentare, nonostante l’introduzione già dal 1828 dell’obbligo di somministrazione del vaccino per l’immunizzazione antivaiolosa, che tale pratica soprattutto nei paesi dell’interno “vedesi procedere lentamente per la pervicacia dei genitori. L’agricoltura costituisce “la primaria occupazione e la principale speranza” di questa provincia, che soprattutto nei territori della piana di Sanluri e della Trexenta vanta “campi veramente uraniferi della Sardegna”, dove “vedresti biondeggiare le famose opime messi”. Cionostante, osserva l’Angius, occorre procedere con maggiore convinzione sulla strada dell’ammodernamento dell’agricoltura attraverso la la modernizzazione degli strumenti di lavoro e l’introduzione di nuove e più variate colture, sull’esempio di quanto va facendo il marchese di Villahermosa nel podere di Villa d’Orri, tra Sarroch e Capoterra. La seminazione del frumento – rileva l’Angius – viene ancora praticata secondo i vecchi metodi. Alcuni però cominciano a sarchiarlo quando ancora in erba tenera, e sgombrandi di tutte le inutili e nocive gramigne. Si sono fatti degli sperimento di aratri a treno, se n’è lodata l’operazione; ma il sardo va con calzari d piombo a tentar le novità; egli ben esperto che i grani sono assai più produttivi quando si piantano a due o tre pollici non sa vedere perché convenga far gemere i buoi sotto l’aratro profondamente impresso; egli propugna ancora i suoi maggesi. Né in questo io saprei contraddire considerato l’attuale condizione delle cose. Ché, un campo già esausto per la produzione, e che dall’influsso delle meteore deve unicamente attendere di essere di essere incivilito a nuovi parti, è d’uopo che riposi, se in questa solita graffiatura dell’aratro comune non può una terra inesercitata e piena di sue forse rivoltarsi in su a dar alimento ai semi. Ma in questo egli è che versa suo errore. In profonde arature avriasi sempre una terra ricca di buone sostanze”.
Il miglioramento dell’agricoltura passa però anche attraverso la colonizzazione delle campagne e il superamento della comunanza delle terre. “È ben piccola la porzione delle terre che vedonsi cinte, o assiepate, e queste sono intorno alla popolazione a un piccol raggio. La proprietà per molti pregiudizi e forti ostacoli non può ancora vincerla sopra la barbara comunanza: e se non ottenga il trionfo, che le augurano i buoni cittadini, non sarà mai che possa fiorire, quanto le consente la natura. Le poche private proprietà non sono né anche per un terzo chiuse, e le chiusure sono comunemente a siepe viva. Durevole e fruttifera, adoperandovisi i fichi d’India”.
Altra risorsa caratteristiche di questa provincia è la presenza di un numero grandissimo di uccelli, di cui è diffusissima la cacciagione, il consumo alimentare e il commercio soprattutto dagli abitanti della capitale e dei comuni circonvicini. Un patrimonio, quello ornitologico, di cui l’Angius offre una interminabile elenco, che può contribuire a far conoscere la Sardegna all’Europa sotto il profilo scientifico sia sotto il profilo della fruizione turistica. “Grande – osserva l’Angius – è l’ornitologia di questa provincia, e poi sarà maggiore, che si riconoscano tutte le specie, che o vi siedono come in luogo patrio, o vi avvengono da altronde. Se non senza frutto sonosi alcuni da poco tempo in qua applicati a riconoscere se la Sardegna, che non so per qual destino restò ignota all’Europa fino a questi ultimi tempi, potesse dare qualche nuova specie; è sa sperare che maggiormente avranno a riuscir fruttifere altre più studiose inquisizioni. Non sarà discaro che io qui enumeri le specie, che sono conosciute generalmente in questa provincia, e che hannosi in mostra nel gabinetto ornitologico[35]. Quanto alla fruizione turistica di questo patrimonio naturalistico, che Cagliari deve soprattutto alla presenza dello stagno di Moolentargius, è di notevole suggestione la descrizione che egli fa dei fenicotteri e di altre specie presenti nello stagno. “È veramente in giorni serenino spettacolo magnifico aggirarsi su per queste acque, vedere i fenicotteri spiegar le loro grandi linee e aggregarsi in quadrati o in triangoli; le volteggianti turme dei cigni, dei bodoni, delle morette, e di altre specie di anitre, di gabbiani, di procellarie, sterne colimbi, titani ecc., il volo insidioso dei corvi anguillatori, dell’aquila ecc, vaganti in tutte le parti per esplorazione quando con la rapidità del baleno piombano e si tuffano e ne traggono fra gli artigli la preda, e quando, come suole l’aquila, sur un palo si posa a sbranarla”.
Analoga funzione scientifica, economica e turistica l’Angius attribuisce al patrimonio ittico, di cui fornisce come per gli uccelli un lunghissimo elenco delle specie presenti nei mari della provincia cagliaritana, tra cui spicca la presenza di branchi di foche monache. “Forse che in altri paraggi delle coste europee, come nei mari della Sardegna, e specialmente alla parte meridionale, non frequentano in ischiere più numerose più generazioni di pesci. Sarà pregio dell’opera se io qui proferisca ai lettori un indice delle più conosciute specie. Quando qualche nazionale pieno d’amore per la storia naturale vorrà applicarsi a questa parte, stimo che grande incremento ei potrà cagionare alla ittiologia europea. È ignota la terra sarda, ed è men noto il suo mare”.
Ma il vero salto di qualità la provincia di Cagliari, più fortunata e più ricca di risorse delle altre province, potrà farlo solo a condizione che proceda sulla strada dell’industrializzazione del libero commerci: senza questi volani di sviluppo, commenta l’Angius, l’isola resterà sempre una colonia. È di grande forza persuasiva, ricca di forti accenti di modernità e di preveggente fiducia nel progresso la pagina in cui l’Angius denuncia la mancanza di industrie nell’isola e ne chiede l’improcrastinabile introduzione. Dopo aver descritto la povertà e pochezza delle industrie anche nella provincia cagliaritana che è la più prospera della Sardegna, egli scrive: “Dalle quali cose è dritto inferire esser le manifatture di tutta la provincia una cosetta meschina, o essere in sul nascere … ahi che l’oroscopo è infausto! E si intenderà di vantaggio pochi essere i prodotti della natura, che si nobilitino a maggior valore, e mancare il popolo di impiego: ond’è conseguenza penuria, miseria, povertà, ignoranza, rozzezza, superstizione, barbarie. Oh quanti si lamentano in ripigliare manofatte le materie che diedero grezze, sia richiesti di restituire il ricevuto con una arrota doppia, tripla, e talvolta decupla! E sì che ben conoscono quanto si aggiunga di valore alle materie per l’arte; e non pertanto non li vedi mai determinarsi al buon partito, e non saprei presagire, quando siano messi in gradi di entrare nella guerra commerciale e onorevolmente liberarsi dal tributo, cui sono costretti di offrire tutti gli anni alle fabbriche estere, e da una vil servitù, qual è veramente la dipendenza che non sia da un ragione insuperabile; quando si scuotano dalla inerzia, in cui naturalmente va spegnersi il movimento degli animi in questo e simili climi, e caldi di generoso ardore adoprino a che l’industria, cui è molto felice questa provincia per lo migliore relativo stato dell’agricoltura, germini, e di quelle arti, che in regioni più colte educa, sia beneaugurata madre. Che le persone di non volgar fortuna studiino a farle fiorire, né rifugga da quest’impegno la nobiltà, essendo la vera verissima ragion di prestanza nella patria il ben meritar della vera di lei gloria, il ben meritare della umanità, togliendo, per via d’esempio, la mendicità, che è certo una gangrena, e stringendo gli oziosi, che sono una peste, a vivere per sé e per altri. Che si faccia sentire desto quello spirito d’associazione industriale, che le piccole fortune riunisce e pareggia a grandi intraprese, e dal niente e dal poco far nascere cose, e cose grandi. Allora soccorrendo opportune le proibizioni, le quali non si può negare essere alunne della industria principiante, potrebbero, potrebbero pure fra i sardi elle rinnovare i miracoli, che altrove felicemente ebbero operato. Prender di più dallo stato, che già pose fondamento a tutto con incoraggiare l’agricoltura, con prestarle ampio favore, con togliere questi ostacolo, che per la condizion delle cose è stato lecito alla di lei migliorazione, e così creava l’abbondanza, ed in questa cagionava un prezzo mediocre alle opere, non si concede che alla gente grossa. Che se incumba a lui di fornare degli stabilimenti di industria, ciò non sarà che in uno dei due casi, o di impiegare le persone dannate, o di assoggettare al lavoro gli oziosi vagabondi e accattoni”.
Risalgono al 1834-35 i dati demografici e statistici relativi alla piccola provincia di Cuglieri, sebbene alcuni cenni all’edittodeo 21 maggio 1836, che prevedeva un primo provvedimento di abolizione della giurisdizione feudale, che sarebbe stata completata nel luglio 1838, indichino che la sua redazione risale al 1836-37, mentre la pubblicazione del vol. 5° in cui è inserito l’articolo sia del 1839. Assegnata in origine alla città di Bosa la sede della prefettura, nel 1821 essa venne spostata al villaggio di Cuglieri, dove resterà fino alla riforma del 1848.
Composta di 26 comuni suddivisi in 4 distretti[36], la provincia abbraccia un territorio compreso tra le regioni storico-geografiche del Montiferru, della Planargia e del Marghine, fatta eccezione per Bolotana, villaggio che pur essendo nel Marghine è inserito nella provincia di Nuoro, distretto di Bono. La provincia si sestende, come limiti estremi, a Ovest fino a Seneghe, a Sud fino a Borre, a Nord-Est fino a Silanus e a Nord fino a Bosa e Montresta, con un totale nel 1835 di 34.505 abitanti. Territorio nel suo insieme abbastanza produttivi, con triplice vocazione economica, agricola nella Planargia, marittima lungo la costa bosana e pastorale nelle zone montane del Montiferru, del Marghine e della Planaria orientale, esso è ricco di prodotti cereali e ortivi, di alberi da frutto e di vigneti, in particolare nel territorio di Tresnuraghes, dove viene prodotta la celebratissima malvasia “che dicono di Bosa – scrive l’Angius – perché dai Bosinchi solita vendersi e offrirsi in dono”; un vino che “quandi acquista maggior purezza dal tempo può mettersi a confronto di qual che sia miglior vino che vantino le più suntuose mense d’Europa”. Di particolare rilevanza è il patrimonio forestale di questo piccolo territorio, tuttavia costantemente insidiato e distrutto dallo “spirito di distruzione dei pastori”. È pertanto quanto mai opportuno, osserva l’Angius, convinto assertore della salvaguardia e dello sfruttamento razionale dei boschi, che il governo, cui non sfugge il grandissimo vantaggio dei boschi ben conservati, operino per la loro tutela “perché cessi tanto guasto, né si permetta il taglio che quando il bisogno lo comandi, e in una piccola circoscrizione da esser chiusa col prodotto del taglio e ripiantata di querciole, né si possano recidere che alberi già bene sviluppati, perché far si possa senza nocumento dei minori”.
Gustoso è inoltre il quadro dell’indole degli abitanti di questa provincia: “I planargesi sagaci e laboriosi, i bosani poltroni, buffoni, e poco amici di cultura; gli uni e gli altri dediti al commercio di baratto. I marghinesi persone accorte e industri; ma in questo bene spesso peccanti che non rispetto l’altrui proprietà. A questi prevalgono i lussurgiesi in ogni rispetto”. Questi ultimi inoltre sono i produttori della miglior acquavite: “Contenendo principalmente i vini del loro vigneto molta copia di alchool, ed essi adoperandosi nelle operazioni con più intelligenza succede che la loro acquavite sia in più alto pregio, che quella dei villacidresi, e con più riputazione di questi si venda in tutto il regno”.
Nell’ambito del settore zootecnico. La provincia cuglieritana produce “i più bei cavalli” nella tanca di Padrumannu presso Macomer, nonché una pregiata razza asinina che “è la più stimata per corporatura e forza”. Altra tradizione, che dura ancora oggi, è la produzione di formaggio vaccino, “il casiggiolu di Sindia, cacio fino di vacca in sacchi a forme di pera e dette pere (piras de vacca) e di tanta materia che pesi qualcuna più di quaranta libbre sarde”. Altro elemento che l’Angius sottolinea con particolare enfasi è il favore con cui gli abitanti di questa provincia hanno recepito la legge delle chiudende, di cui hanno compreso la grande portata innovativa; una “sapientissima legge che dà interi a’ proprietari i dritti sulle loro terre, e toglie le medesime dallo stato di barbarie in cui erano per la comunanza de’ pascoli”. Escluse le chiusure tradizionali e già esistenti adibite a vigneti, oliveti e frutteti, le popolazioni di questa provincia hanno chiuso “non meno di centomila starelli di terreno”. Un progresso civile quello operato dalla costituzione della proprietà perfetta, che tuttavia è ancora ostacolata dai feudatari, sebbene siano ormai avviati a buon fine, sottolinea l’Angius, gli atti politici del governo carloalbertino che preludono al superamento di questo barbaro sistema. “Questo argomenta il superior grado di incivilimento, in cui sono giunti questi popoli, che hanno con plauso generale e con molta riconoscenza ricevuta la legge delle chiudende. Non compresi i predi più vicini ai villaggi, per vigne, oliveti, verzieri, si chiusero non meno di centomila starelli di terreno. Furono, gli è vero, opposizioni, opinioni ripugnanti, ma la saggezza delle persone che presiedevano alle maggiori amministrazioni le une tolse e annientò le altre ridusse a migliori idee. Se rimuovasi l’impedimento, perché non continuassi a chiudere, forse che pochissimi tratti rimarranno aperti. Il siffatto ostacolo fu il feudalesimo, ed è ancora. I baroni attribuendosi un dritto, che ai medesimi non poteva spettare, contendeano con tutte forze a spegner l’ardore dei proprietari, ed adopravano arti d’ogni specie per arrestare questi grandi progressi alla civiltà. Non contenti de’ fatti incolti, de’ quali aveano utile se li locassero agli esseri per lo corrispettivo di che convenir potessero, o a’ terrazzani per condizioni meno gravi, pretendono su quei terreni che erano destinati in dote della comunità, che secondo le leggi del regno formavansi dalle vidazzoni e controvidazzoni”.
5. Le terre disabitate delle province gallurese, sulcitana e ogliastrina e l’enclave della provincia “mediterranea” di Isili.
Negli anni 1837-38 Vittorio Angius, disponendosi a redigere la voce sulla Gallura, aveva effettuato due lunghi viaggi nella regione per acquisire direttamente sul luogo le notizie statistiche necessarie e per dare una descrizione dal vivo di un territorio per molti aspetti particolare. La raccolta dei dati e la descrizione del territorio si presentava molto difficoltosa considerata la forte dispersione nei “distretti pastorali” o cussorgie[37] di una cospicua parte della popolazione in una provincia a bassissima densità demografica. Infatti, secondo i dati raccolti, su circa 720 miglia quadrate risultavano 2942 famiglie residenti nei nove centri abitati della provincia (il capoluogo Tempio, di recente assurta al rango di città, Terranova, La Maddalena, Longone oggi Santa Teresa di Gallura, Calangianus, Bortigiadas, Aggius, Luras e Nuchis) e 1465 disperse in 87 cussorgie, con una densità di soli 37,80 abitanti per miglio quadrato e un totale di 27.191 di abitanti. Ai primi di settembre del 1840 egli era partito per Torino e il 14 settembre aveva fatto visita a Rivalta al Casalis, al quale con ogni probabilità consegnò l’articolo sulla Gallura, che uscì, come egli scrive all’amico Giovanni Spano in una lettera scritta in parte in logudorese, nel fascicolo 25° del Dizionario “chi contenet sa Gallura, et haet meritadu mannos elogios de su Barone Manno, et generalmente est laudadu comente fattu diligentemente, et appagante”[38]. Un passo dell’articolo Gallura provincia, relativo alla bolla papale che erigeva alla dignità di cattedrale la chiesa di Tempio, rivela che l’Angius lo redigeva nell’agosto 1840, poco prima della partenza per Torino. “Nell’anno 1839 – egli scrive Gregorio XVI la innalzava [la chiesa di Tempio] al grado di cattedrale con sua bolla datata addì … la quale finora (anno 1840, agosto) non è stata eseguita”. La voce Gallura dovrebbe quindi essere l’ultima redatta dall’Angius in Sardegna, poco prima della sua partenza per Torino. Si tratta di un dato importante per seguire l’iter di redazione delle voci del Dizionario sulla Sardegna; gli articoli pubblicati a partire dal volume 8°, che uscirà nel 1841, sono stati redatti a Torino, da dove era molto difficoltoso per l’Angius acquisire le informazioni e i dati necessari, tanto è vero che gli articoli in questione appaiono meno ricchi di dati statistici e di costume ed eccessivamente infarciti di un numero eccessivo di pagine di minuta erudizione storica. Nella stessa lettera allo Spano del 28-29 settembre 1840, dopo l’annuncio dell’uscita del fascicolo 25° del Dizionario, egli lamenta la poca collaborazione degli amici e confratelli sardi, per cui non ha potuto pubblicare gli articoli sui villaggi di Generi e di Gorofai, che infatti usciranno l’anno successivo nel volume 8°. Chiede pertanto l’autorevole intervento dello Spano per smuovere l’indolenza dei corrispondenti sardi. “Mi dispiaghet – scrive – chi mi manchent duos articulos, unu subra Genuri, s’ateru subra Gorofai et cherzo mi fattat su piaghere de freddare a Dr. Matzeu si est in Caralis o de l’iscriere, o vero de raccumandare s’una e s’atera cosa a Pisano. Podet esser chi a custa intercessione accumplat a sa peraula dadami, de mi lus faghere aere a s’Attungiu. Eo aia raccumandadu custu a Radicati, et a Padre Degiuannis; ma ue est sa fraternidade, ue s’amore patriu? Totus vantant custa bella affectione nudda faghende, et eo miseru chi a notte e die apu tribagliadu, eo passo comente unu chi non conoschit sa patria, et totus mi venint subra, finu sos amigos”[39].
L’articolo Gallura provincia, frutto dei viaggi del 1837-38, è uno dei meglio riusciti e dei più ricchi di notizie su un territorio largamente sconosciuto. La popolazione prevalentemente pastorale della provincia viene presentata come “ben governata nella fantasia, molto facile all’intelligenza, regolata la ragione”; gli abitanti sono “puntigliosi, pronti e fervidi nell’ira a vendicar le ingiurie”, ma generosi con i pentiti, oltremodo ospitali e “devotissimi al Sovrano” per quanto amanti della propria libertà, per cui sono molto avverso ad arruolarsi nei corpi delle milizie regolari e a “vestir la livrea del Re”. Molto circostanziata è la descrizione della vita pastirale negli stazzi della Gallura, delle fierezza dei suoi abitanti, della bellezza delle “vaghe pastorelle ornate con grande semplicità, della laboriosità delle donne “che van filando per via e nelle contrade, mentre portano sulla testa il peso delle cose da vendere”. Descrive inoltre le abitudini alimentari, le fogge del vestire, le feste campestri, i diversi dialetti, le usanze, tra cui quelle molto suggestive delle nozze, la lavorazione della lana o carminatoio (lu graminatogjiu), festa pastorale “che vide pure il Re Carlo Alberto nel 1829. Sottolinea la solidarietà sociale (la ponitura, per cui i pastori senza gregge perché privatine per furto o per disgrazia ne vengono nuovamente dotati attraverso una gara di solidarietà tra gli abitanti delle cussorgie); illustra le “curie silvestri”, una sorta di tribunale pastorale affidato al giudizio dei pastori anziani, e “le paci”, toccanti cerimonie con l’intervento degli anziani e del sacerdote per comporre gravi inimicizie tra opposte fazioni. Depreca infine i frequenti furti di bestiame finalizzati al commercio di contrabbando ad opera di pastori galluresi, che “non solo nuoce alle finanze, ma pure alla private proprietà, giacché troppo spesso avviene che si esporti molto bestiame rubato nella stessa Gallura e nei dipartimenti di Montacuto e di Anglona”.
Una descrizione questa, molto dettagliata, che appare per certi versi mitizzata e tendente ad accreditare un’immagine di questo territorio, e con esso della Sardegna in generale, dove l’uomo primitivo (i pastori dei monti di Arzachena che ancora vivono nelle caverne), convive con gli abitatori delle capanne (i “rozzi abituri” degli stazzi galluresi) come nei primi stadi della civiltà, con “la più avanzata civiltà” dei ricchi pastori dei villaggi che hanno imparato la coltivazione dei campi, e con la vita agiata degli abitanti della cittadine di Tempio, dove possono ammirarsi “case di bell’aspetto e ben fornite, contrade pulite, selciate e lastricate, il vestire nelle alte classi così come nelle città primarie, il vitto abbondante e buono, molta gentilezza nel tratto, gran numero di persone illuminate dotte di più lingue e distinte degli onori accademici, spettacoli e grande amore a’ medesimi, e principalmente agli scenici”. “Dopo non pochi giorni di viaggio per questa terra – conclude l’Angius – può un saggio osservatore con verità affermare di aver viaggiato per li diversi periodi dello stato umano, senza però aver veduto gli estremi che sono la vita selvaggia e l’alta civiltà”.
Nel 1841 vennero pubblicati gli articoli relativi alle province di Iglesias, Isili e Lanusei, inseriti i primi due nel volume 8° e l’altro nel volume 9° del Dizionario. La descrizione della provincia d’Iglesias, che nell’area sulcitana presenta caratteristiche simili a quelle della Gallura, ed è suddivisa in regione settentrionale e regione meridionale, occupa voci: alla regione settentrionale sono dedicate le voci Colostrai e Gippi superiore, antichi dipartimenti feudali; alla regione meridionale, “l’antica terra de’ sulcitani”, compresa nei tre distretti del Cixerri, del Sulcis e delle isole di S. Antioco, S. Pietro e isole minori, l’articolo Iglesias provincia. Fanno parte del Colostrai, antico dipartimento del giudicato d’Arborea, i 6 comuni di Arbus, Gonnosfanadiga, Guspini, Pabillonis, San Gavino e Sardara per complessive, nel 1837, “circa sedicimila anime distribuite in tremila cento famiglie”; l’antico dipartimento del Gippi superiore comprende il solo paese di Villacidro con il suo territorio, che nel 1840 constava di 2990 abitanti. La parte meridionale della provincia di Iglesias nel 1838 annoverava 13.615 abitanti nel Cixerri, che comprendeva oltre al capoluogo, i comuni di Gonnesa, Portoscuso, Fluminimaggiore, Domusnovas, Musei, Villamassargia; 8027 abitanti nel “Sulci proprio”, come lo denomina l’Angius; 2365 nel “Sulci meridionale” coincidente con il comune e il territorio di Teulada; infine 7064m abitanti, secondo i dati del 1839, nel “sulci occidentale”, comprendente le due isole di S. Antioco e di S. Pietro. Nel complesso la vasta provincia iglesiente, che si estendeva nella fascia costiera da Capo Pecora a Capo Teulada, annoverava attorno al 1840 poco più di 60.000 abitanti.
Dotata di grandi potenzialità economiche, la provincia iglesiente si distingue in primo luogo per la cospicua ricchezza di risorse minerarie, presenti sia nelle montagne del Guspinese e dell’Arburese sia nei territori di Iglesias, Fluminimaggiore, Villamassargia, Domusnovas, Barbusi e Capo Teulada. I minerali, minutamente enumerati dall’Angius, il quale non omette di sottolineare come le miniere siano state sfruttate fin dalla più remota antichità, sono la galena, da cui si estrae il piombo, la barite, i materiali ferrosi in genere, i marmi. Si tratta di risorse, sottolinea l’Angius, riprendendo le ricerche e gli studi fatti dal Belly e dal generale Lamarmora, che non vengono ancora adeguatamente sfruttate. Solo qualche decennio più tardi, come auspicava l’Angius, diversi imprenditori locali e stranieri avrebbero iniziato la valorizzazione delle miniere dell’Iglesiente, dando inizio alla prima industrializzazione mineraria dell’isola, che avrebbe visto nascere agli inizi del Novecento il movimento operaio e socialista.
La provincia è anche ricca di acque e di territori a vocazione agricola e pastorale a un tempo. “Le valli, in cui scorrono [le acque] – scrive l’Angius – sono pittoresche, le sponde floride e beate dell’armonia di infiniti usignoli, le colline coperte di olivi e olivastri, divise in molti predii, e sparse di abituri pastorali”. Ed è proprio questa diffusione di coloni sparsi nel territorio del Sulcis cje attrae maggiormente l’attenzione dell’Angius. Come nelle cussorgie e negli stazzi della Gallura, nel Sulcis a partire dalla seconda metà del Settecento, pastori ed agricoltori hanno iniziato a popolare le campagne, edificando i caratteristici casali e cascine che gli abitanti del luogo, i maureddini, “dicono furriadorgius, cioè luoghi dove ritornano dai pascoli o dalle opere agrarie per riposarsi e ripararsi dalle inclemenze della stagione”. Dalla riunione di varie cascine presso una chiesa officiata da un cappellano hanno avuto origine i boddèus o oddèus, piccoli e grandi aggregati di contadini e di pastori, cje si avviano a diventare veri e propri comuni. “I boddèus – scrive l’Angius – crescono moltiplicandosi le famiglie, e se ne vedono alcuni che si potrebbero annoverare tra i comuni, e meriterebbero avere un paroco e un Consiglio”. L’Angius enumera e censisce i numerosissimi boddèus. Si tratta di Tului, Suergiu che consta di “venti furriadorgius tra grandi e piccoli”, Santadi, Nugis che è “uno dei più belli siti del Sulcis, di una grande amenità e di una meravigliosa fecondità”, Masainas “al levante di Portobutis”, Narcao “uno de’ maggiori boddèus”, VIllaperuccio che “può esser considerato un piccol villaggio”, Villarius, Palmas, Barbusi, Flumentepido costituito da “circa 20 furriadorgius” nel cui territorio “trovansi molte cose dell’antichità romana e vedonsi le rovine d’un antico monistero di benedettini”, Piscinas rinomato per “due copiosissime fonti termali”, Mazzaccara, Terraseu, Perdagius, Pesus, Sirai, Armas, Coderra, Giba, Garamatta, Piolanus, Sirri, Santa Giuliana, Mardeu, Margani, Villascruba, Cannas, Corenò, Tracasi, Ulmus. “I nominati boddèus – secondo l’Angius – potrebbero divenir paesi, e principalmente dovrebbesi ristabilire il popolo in Flumentepido, in Barbusi, in Sirai, in Perdagius, in Piscinas, e in Porto Buttis”. Un rapido sguardo ai comuni dell’attuale provincia di Carbonia-Iglesias ci rivela che gli auspici dello studioso cagliaritano si sono nel tempo realizzati: gli antichi furriadorgius e boddèus di Giba, Masainas, Narcao, Nuxis, Perdaxius, Piscinas, San Giovanni Suergiu, Santadi e Villaperuccio sono diventati comuni autonomi, alcuni con popolazione cospicua.
Questa per certi aspetti prodigiosa e promettente opera di colonizzazione spontanea di un territorio nel passato deserto e disabitato offre all’Angius, qui come in numerosi altri luoghi del Dizionario, l’occasione per esaltare e celebrare l’opera di colonizzazione e di modernizzazione dell’isola, che dopo la secolare incuria del governo aragonese e spagnolo, sotto la dinastia sabauda si avvia a passi sicuri sulla strada del progresso civile, economico e culturale. “Sino dopo i due terzi del secolo scroso era nelle amplissime regioni del Sulcis il silenzio del deserto. Gli Ecclesiensi uscivano nel tempo della seminazione e della messe, e fatti i lavori tornavano in città, ed ivi languivano tutto il tempo nell’ozio. Anche i pastori poiché era cessata l’opera del lanificio se ne ritornavano nel paese lasciando alla custodia delle greggi e degli armenti i figli o i servi. Le conseguenze di questa disoccupazione si possono ben intendere. In quei tristi tempi un gran disordine regnava nella regione sulcitana, i maurelli erano famosi per le fazioni, per le vendette, per i ladronecci, per gli assassinamenti, e si riguardavano come anime feroci e indomabili. Tuttavolta la influenza del provvido governo de’ re di Sardegna poteva reprimere gli audaci, e contenere a un tempo quelli che erano disposto a fare i bravacci, e formava gli animi a costumi più miti”.
Questa vocazione colonizzatrice e orientata al progresso dei sudditi, che i sovrani sabaudi avevano esercitato in modo eminente nelle due isole pressoché disabitate di S. Antioco e di S. Pietro. Come ricorda lungamente l’Angius, l’isola di S. Pietro fu popolata dagli abitanti di origine genovese dell’isola di Tabarca, vicino alle coste africane, che Carlo Emanuele III sottrasse alle angherie dei barbareschi offrendo loro nel 1838 ospitalità in quell’isola dove fondarono Carloforte; nel 1771 un nuovo contingente di Tabarchini fu ospitato nella costa settentrionale di S. Antioco dove fondò la cittadina di Calasetta. Gli abitanti di origine genovese delle due isole, oltre a rendere produttive quelle terre nei settori più diversi della pastorizia, dell’agricoltura e del commercio, hanno anche ripristinato, con cospicui vantaggi economici, l’allestimento delle tonnare e la pesca del tonno già praticata in epoca spagnola. Alla mattanza dei tonni, in cui “i Carolini sono abilissimi”, l’Angius dedica una lunga e minuziosa descrizione, che si legge ancora oggi con partecipazione. Frutto di una non comune capacità evocativa, quel racconto rappresenta una delle più felici pagine letterarie dell’autore. La mattanza dei tonni è uno spettacolo così vivo, così vario, così bello, scrive l’Angius riprendendo una felice espressione di Francesco Gemelli, “che pareggia, se non sorpassa i più bei colpi d’occhio de’ teatri, e che generalmente stimasi degna d’un Re, meritevole d’un apposito viaggio”.
La provincia “mediterranea” di Isili è, tra le 11 della Sardegna della prima metà dell’Ottocento, la più continentale, non avendo nessuno sbocco al mare: un vera e propria enclave tra i territori provinciali. Essa comprende 50 comuni, suddivisi in 7 distretti; l’intendente provinciale risiede però a Mandas, mentre ad Isili risiede il prefetto, che amministra la giustizia coadiuvato da quattro assessori, due avvocati fiscali, un avvocato dei poveri per i non abboenti e due procuratori; gli altri uffici giudiziari decentrati sono dislocati in 9 mandamenti retti da un giudice coadiuvato da due segretari[40]. Il territorio, in prevalenza montagnoso, si estende dalla Bassa e Alta Marmilla e dagli altipiani della Giara di Gestori a Ovest, alla Trexenta a Sud, alla Barbagia di Seulo e all’altopinao del Flumendosa fino a Ussassai a Est, alla regione compresa tra Laconi e Sant’Antonio Ruinas a Nord, per un totale di 556 miglia quadrate. Ricca di acque e dotata di un clima generalmente mite, la provincia ospita nei 50 comuni, secondo i dati del 1840, una popolazione di 46.365 abitanti con una densità di 87,75 abitanti per miglio quadrato.
Redatto attorno al 1841, nel primo periodo di permanenza dell’Angius a Torino, come può agevolmente desumersi da alcuni riferimenti interni, l’articolo sulla provincia isilese, uno tra i pià succinti ma al tempo stesso tra i meglio redatti, sembra rispondere ad un’esigenza di maggiore chiarezza espositiva dei dati, di confronto con fenomeni caratteristici della società moderna che non avevano finora fatto capolino nella riflessione dell’Angius; a fronte di ciò sta inoltre la difesa incondizionata della dignità dei Sardi contro certa altezzosità piemontese e la consueta forte sottolineatura del ruolo progressivo della monarchia sabauda nei confronti dell’isola. “Sotto i re di Sardegna – scrive l’Angius dopo aver descritto l’integrità morale e l’industriosità degli abitanti della provincia – i popoli sardi, e per la saviezza del governo e per lo zelo de’ parochi sono venuti in tanta moralità, che sia mirabile a chi conosca quali furono gli antichi costumi: non pertanto molti rinnovano in disonore delle viventi generazioni quelle accuse, che forse furono contro quelle che già mancarono”. Ciò va ribadito, sottolinea l’Angius, perché la Sardegna, pur nella sua arretratezza e nella sua povertà. È portatrice di valori sani di solidarietà che non è possibile riscontrare in società più evolute, nelle quali è purtroppo presente il fenomeno che egli definisce del “pauperismo”, E come esempio adduce la situazione della provincia isilese, dove, per quanto la famiglie povere possano statisticamente apparire in numero eccessivo rispetto a quelle possidenti, tuttavia “la vera indigenza” è un fenomeno molto circoscritto. “Né gli indigenti – egli precisa – sono in quelle calamitosissime condizioni, che si possono immaginerai nell’idea del pauperismo di altri paesi: già che nella Sardegna è facilissimo il vitto così per l poco valore degli articoli di prima necessità, come per il sentimento di umanità, per cui sono compassionevoli i cuori. È un bello spettacolo per le anime virtuose, che vorrebbero vedere tutto gli uomini riguardarsi fraternamente e comunicare gli uni cogli altri le cose necessarie, l’osservare nelle selve i pastori dare, non pregati, latte, ricotta, carni e pane, quanto sia sufficiente per vivere, ed a’ poveri che si presentano all’ovile, e a’ banditi che non sono provveduti dalle loro case, e non fare mal viso a nessuno per risparmiare, a avere maggior guadagno da una maggior quantità di formaggio”.
Di particolare rilevanza sono in questo articolo le considerazioni sull’istruzione e sulla alfabetizzazione delle popolazioni rurali. Convinto asseotre del ruolo propulsivo dell’istruzione nel processo di modernizzazione della Sardegna, egli denuncia come, a circa 18 anni dall’istituzione nel 1823 dell’istruzione elementare obbligatoria, questa non abbia potuto raggiungere gli effetti desiderati perché i maestri, spesso incapaci, operavano inoltre senza un adeguato controllo da parte di una struttura centralizzata e soprattutto non esisteva ancora una scuola deputata alla formazione degli insegnanti. Proprio in quel periodo, per volontà del governo, tre confratelli dell’Angius, tra cui il futuro vescovo della diocesi d’Ogliastra Michele Tosse, erano stati inviati a Milano per una missione di studio sulla formazione dei docenti. A questa missione di studio l’Angius attribuiva giustamente una grande importanza: essa infatti diede luogo all’istituzione in Sardegna delle Scuole di Metodica e dei provveditori agli studi nelle diverse province incaricati di presiedere al funzionamento della scuole. “Però le cose tra poco miglioreranno: si stabiliranno nel regno tre scuole di metodica, dove da que’ scolopi, che il Governo spesò per molti mesi a osservare la pratica dela scuole primarie in Lombardia, saranno iniziati nel magistero puerili giovani a ciò idonei; e quindi per una più attenta sorveglianza sopra i maestri, non più la istruzione patirà le molte interruzioni che furono nell’insegnamento in molti comuni”. Tale istituzione è necessaria ma non sufficiente, ammonisce l’Angius, la cui originaria vocazione di educatore emerge spessissimo nelle voci del Dizionario. Rimaneva infatti del tutto fuori da questi propositi l’educazione delle fanciulle, ancora frodata alla intraprendenza di qualche parroco e di qualche nobildonna, ma ancora non presa in considerazione dal potere pubblico.
Altro aspetto significativo di questo importante articolo sulla provincia di Isili sono le considerazioni che l’Angius svolge in relazione alla sanità pubblica. In una popolazione di circa 50.000 abitanti, egli documenta nella parte statistica, sono presenti solo 8 medici (in pratica uno per distretto!), 17 chirurghi, 9 farmacisti, 47 ostetriche e ben 79 flebotomi! Una situazione che esige interventi energici da parte del governo perché le gravi deficienze nel settore sanitario si riflettono tragicamente sulla rarefazione demografica; solo una energica e convinta politica di promozione della sanità pubblica, che vigili in primo luogo sulla vaccinazione contro il vaiolo, sulla bonifica igienica dei centri abitati e sull’allontanamento della periferie degli stessi dei letamai, sulla costruzione dei cimiteri, farà sì che “riempirassi di abitatori la terra sarda”. Soprattutto occorrerà liberarsi dalla piaga sociale dei flebotomi attraverso l’incoraggiamento allo studio delle scienze mediche. “Sarà un vantaggio o un danno la scarsezza de’ medici? E’ sono così pochi perché pochi si applicano a conoscer bene quello che usano dire scienza medica, nella quale non pertanto sono desiderati principi stabili, e metodi costanti. Non sono né pure i chirurghi quanti esser dovrebbero, e non bene situate le farmacie. I flebotomi non si possono tenere nella loro sfera, e non solo invadono la provincia de’ chirurghi e de’ medici, ma quanto più ignoranti, tanto più sono presuntuosi; e con impudentissima ingiuria usurpando l’altrui diritto, e con certa pernicie degli imprudenti, a’ quali pare ridondanza di dottrina la loro dottrina, prescrivono per mali interni, esercitano l’operatoria, praticano l’ostetricia, e osano talvolta arrischiarsi nelle manovre dell’alta chirurgia. I professori barbitonsori quando vorran restare nel loro grado?”.
Com’era accaduto negli articoli precedentemente esaminati sulla Gallura, il Sulcis e Isili provincia, anche in quello, lungo e articolato, dedicato alla provincia di Lanusei, Vittorio Angius introduce nella narrazione lunghe parentesi letterarie, quasi che egli volesse rendere appetibile da parte del pubblico torinese e continentale in genere la descrizione della Sardegna rimarcando gli aspetti di una natura selvaggia e di una popolazione primitiva che certo non mancavano alle diverse località della Sardegna: egli accentua, cioè, l’aspetto giornalistico del suo lavoro di divulgazione letteraria. Del resto questa scrittura più adatta al coinvolgimento di un pubblico attratto più dall’esotico che non dalla paziente analisi dei dati statistici, egli l’avrebbe coltivata nei primi anni del suo soggiorno a Torino, prima con la collaborazione al giornale settimanale “Il Dagherrotipo” e successivamente con la direzione del “Liceo”, giornali nei quali sarebbero apparsi alcuni contributi narrativi non sempre ben riusciti[41].
Nella voce Lanusei provincia questo intento dell’autore è presente sia nel paragrafo intitolato Rozzezza antica, dove, indulgendo in modo forse eccessivo al gusto tutto romantico dell’orrido, descrive gli abitanti dell’Ogliastra come gente fiera e primitiva, sia nel paragrafo dedicato alla Festa campestre di san Priamo in Muravera, dove descrive lungamente dal vivo e in modo giornalisticamente accattivante e arguto le fasi di una classica festa religiosa rurale nella Sardegna del primo ottocento, con il concorso di migliaia di partecipanti, l’ardia e la corsa del palio da parte di valorosi fantini, i balli accompagnati dalle launeddas o dal canto, le gare dei poeti vernacoli improvvisatori, i lautissimi pranzi, il fragore degli spari e del lancio dei razzi. Queste descrizioni sullo stato primitivo della Sardegna offrono inoltre l’occasione, come abbiamo già visto altrove, per magnificare l’opera civilizzatrice portata dal “paterno reggimento de’ Reali di Savoja”, agli occhi dell’Angius veri rigeneratori della Sardegna.
Insieme alla restaurazione della diocesi, all’istituzione della scuola primaria, all’abrogazione della giurisdizione feudale e al riordinamento dell’amministrazione della giustizia con l’editto del 27 luglio 1838, i sovrani sabaudi hanno fatto sentire i benefici effetti del loro governo “massimamente dopo che istituivasi l’amministrazione provinciale” nell’Ogliastra. In virtù dell’editto del 1821, la provincia di Lanusei razionalizzava la gestione della cosa pubblica e avvicinava allo Stato una popolazione oggettivamente isolata per le condizioni del suo territorio, costituito da una fascia costiera di non facile approdo, e da una zona collinare e montuosa, al confine con il massiccio del Gennargentu, in cui le comunicazioni erano oltremodo difficoltose per l’assenza pressoché assoluta di viabilità. Contrariamente a quanto si crede, secondo l’Angius la provincia di Ogliastra, come più comunemente viene chiamata la provincia di Lanusei, deve il suo nome non al grande numero di olivastri che crescono nel suo territorio, ma al nome di Agugliastra con cui veniva denominato uno degli antichi dipartimento del giudicato di Cagliari, cui la regione era appartenuta per secoli. Il nome Agugliastra, precisa l’Angius, “venne al paese da un enorme scoglio piramidale, che sorge presso la spiaggia alta, un po’ sotto il levante di Balnei, fuor della curva del golfo. Fu usato da’ naviganti che notarono questa rupe, come distintiva della costa, e però trovasi negli antichi portolani: finalmente passò nel parlare degli isolani, che lo scambiarono col nome comune a più luoghi di Ogliastra”.
La nuova provincia, che occupa le regioni del Sarrabus, dei Salti di Quirra e dell’Ogliastra propriamente detta, è costituita da 26 comuni distribuiti in 4 distretti[42], mentre per l’amministrazione della giustizia è divisa in 4 mandamenti: di Lanusei, dove risiede il prefetto e un tribunale che funga da corte d’assise, di Lanusei, di Jerzu e di Muravera. La superficie è di 660 miglia quadrete e la popolazione raggiunge, secondo i dati del 1840, i 27.abitanti.
Le osservazioni sulla provincia ogliastrina, come Angius rivela, sono frutto di un viaggio compiuto attorno al 1833 di cui conserva “un cartolario di viaggio” fitto di appunti. Il territorio dell’Ogliastra risulta essere all’Angius “una delle più fertili e metallifere province della Sardegna”. Di questa per certi versi inaspettata ricchezza e non ancora adeguatamente sfruttata ricchezza mineralogica viene data un’analitica descrizione basata sul 2° volume del Voyage en Sardaigne di Alberto Lamarmora: si tratta di giacimenti ricchi di rame, piombo e zinco nei territori di Talana, di “ferro ossidulato legnatico” nel territorio di Arzana, per la cui fusione fu impiantata una fonderia nel 1767. Questo giacimento, rileva l’Angius, che dalle analisi effettuate a Genova risultò dare un prodotto da 51 a 61 per cento “di ferro superiore a quello d’Elba”, può facilmente essere immesso nel circuito commerciale dei paesi del Mediterraneo in quanto “dalla miniera al porto di Tortolì non sono che tre ore di viaggio, e si può facilmente far il trasporto per il continuo pendio”.
Ricchissimo d’acqua e di pascoli, il territorio si presta prevalentemente alla pastorizia, mentre le colture ortive e le e le piante da frutto sono particolarmente indicate nella fascia collinare e costiera. Le zone costiere e di pianura, occupate dalle tuerras o benazzus, ossia da acquitrini e zone paludose, attendono un’opera di risanamento idraulico; in tali lavori, suggerisce l’Angius, potrebbero essere utilizzati i “servi pubblici”, ossia i galeotti, ai quali si può ricorrere “quando nell’inverno non sono occupati in fatiche di maggior utilità; in questo modo, oltre a realizzare un’opera di di vitale importanza qual è sicuramente il “risanamento di questa provincia nelle sue maremme”, essi “coi loro sudori soddisfano alla società delle offese, che le inferirono violando le leggi”.
Di particolare gravità è in questa provincia il problema sanitario. Su 26 paesi sono presenti solo 5 medici, 14 ostetriche, pochissime farmacie e 33 flebotomi: come dire che la sanità è interamente affidata ai barbieri o “chirurghi barbitonsori” come sprezzantemente abbiamo visto li definisce l’Angius. Tra le malattie dominanti, oltre alle solite “febbri intermittenti e perniciose” e alle non meglio specificate “infiammazioni addominali”, l’Angius annovera anche la clorosi, la quale deriverebbe, egli scrive, “dal guadamento del fiume per le menstruate e lo starvi a lavare”!
Ciononostante anche nella prima metà dell’Ottocento gli abitanti della zone montagnose della provincia d’Ogliastra si contraddistinguevano per la lor longevità: “Ne’ paesi di montagna sono molti, che vivono ad una lunga età nel decimosesto o decimosettimo lustro, e sono attualmente non pochi che hanno trapassato questo termine, ed inoltrano al secolo, il quale nell’articolo Arzana notava superato da Domenica Contu, alla quale, son già otto anni da che fu pubblicata quella descrizione[43], si eran fissati 103 anni, nel qual tempo non era ancora nel suoi volto cancellata del tutto l’antica bellezza, nello spirito menomata la potenza, negli organi ottuso il senso, fuorché in rispetto alla vista, e nelle membra mancato il vigore per la fatica. L’antica donna vedea intorno 83 discendenti, carissima corona, e udia vagire i figli delle figlie de’ suoi bisnipoti”. Le diligenti rilevazioni dell’Angius di circa due secoli fa anticipano le odierne ricerche sulla longevità di quelle popolazioni.
Le popolazioni dei paesi di montagna non hanno potuto profittare dei benefici che altrove ha arrecato l’istituzione delle scuole primarie, sebbene sotto il profilo delle capacità intellettuali gli ogliastrini siano “di un’ottima materia, come gli orgolesi” e inseriti: inseriti in un ambiente adatto i giovani hanno dimostrato di essere di essere dotati di quella “docilità e pieghevolezza che riconoscesi nel carattere nazionale” e sono tali da “potersi maneggiare e formare nel modo che si voglia”. Ha influito in maniera decisiva alla mancata scolarizzazione dei fanciulli – nel 1839 risultavano alfebatizzati solo 280 e vi erano 24 maestri – insieme all’ignoranza delle famiglie, i cattivi metodi pedagogici, basati più che sul rispetto degli allievi, sull’eccessivo rigore degli insegnanti e soprattutto sull’uso della sferza. Nei confronti di questi metodi in quest’articolo l’Angius riprende la vecchia polemica contro tali metodi educativi. Non si era ancora spenta in lui, ex prefetto delle Scuole Pie di Sassari e di Cagliari, nei primi anni del soggiorno torinese, l’avversione nei confronti dei superiori dell’ordine religioso in cui era ancora incardinato – Angius otterrà la secolarizzazione solo nel 1844 – che nel 1837 l’avevano costretto ad abbandonare gli incarichi di dirigenza nelle scuole di Cagliari. “Il concorso [dei fanciulli nelle scuole primarie della provincia di Lanusei] – egli scrive – è stato poco numeroso, perché i padri non si curavano di mandarli, e perché i figli prendeano orrore ai precettori, i quali, non ostante che per volontà sovrana siano state proibite le battiture, continuano non pertanto a battere, e quando son di mal umore, e cadono nell’impazienza, spiegano una feroce brutalità percuotendo quei teneri, come userebbero governando bestie da soma, talvolta con effusione di sangue, e con lesione di qualche membro. Questa barbarie ricorda quei tempi non lontani dalla nostra memoria, quando la maggior fatica de’ maestri era flagellare i loro discepolo, e questi, o i loro padri, erano costrtetti a reprimere l’impeto de’ furiosi con i modi più terribili”.
6. Le province di Nuoro, Ozieri e Sassari tra vecchio e nuovo nel clima delle riforme e della “fusione perfetta” con gli stati di terraferma.
Come abbiamo osservato sopra e come ci rivela l’epistolario con il canonico Giovanni Spano, nei primi anni della sua permanenza a Torino Vittorio Angius, impegnato a redigere le voci sarde del Dizionario geografico storico, continuò a chiedere agli amici isolani, soprattutto sacerdoti, la compilazione dei Quesiti statistici e a sollecitare notizie particolareggiate su diversi contesti territoriali dell’isola. In una lettera del 1842, ad esempio, egli comunicava di aver affidato al magistrato Francesco Maria Serra un centinaio di Quesiti statistici, che poi l’amico Giovanni Spano si sarebbe curato di far pervenire ai sacerdoti ed amici sparsi per l’isola, raccomandando che “questione pro questione procedende pongan rispostas riccas et plenas de beridade”[44]. Questa ennesima richiesta di collaborazione non ottenne i risultati sperati se in diverse occasioni egli lamentò la mancanza delle risposte dei quesiti relativi ai paesi e regioni compresi nella lettera M e successive. “Bido sa difficultade – egli scrive nell’agosto 1842 – de poder haer notitias promediatione puru de cuddos amigos chi hant medas relations et amigos ind’ognia incuntrada dessi regnu. Non ti infades, amigu, insta, insiste, punghe, repunghe, excita: forsis pro sa molestia hant a fagher sos mandrones majales su chi recusant faghere pro prinzipiu pius generosu, pro charidade patria”[45]. E in altra lettera del settembre 1843, facendo eco allo Spano il quale lamentava l’incuria degli amici cui aveva raccomandato la raccolta di vocaboli per il suo dizionario del sardo logudorese cui stava lavorando[46], Angius ricordava le inadempienze da parte di Giorgio Asproni e di Giovanni Siotto Pintor che gli avevano promesso di fornirgli notizie su Nuoro e sulla sua provincia: “Eo credia qui tantos amigos preiteros qui has ti haerent factu servitiu: ma has rasone, ipsos non sunt gente de applicare sa mente a sas cosas qui non llos toccat, comente est su tractadu de decimis, dess’incungia et de certas ateras cosas qui su cagliare est cosa bella. Si ti significare sas promissas de Asproni; et pustis … O miserabiles mandrones! Mancu male qui Juanne Siotto mi avvisait de haermi procuradas notitias de Nuoro!”[47]. Per fortuna, in assenza di dati più recenti, egli poteva attingere ai numerosi appunti da lui presi durante le lunghe peregrinazioni nell’isola fino al 1839. “Has rajone – aveva scritto allo Spano nel settembre 1842 – a taxare sa mandronia dessos porcos de sa terra nostra, qui epicureizant lassande qui fattat quie hat voluntade e forzas ìet tempus de facher. Eo illu iscu bene, qui si no essere essidu a peregrinare e patire como no ia a tenner che pagos e imperfettissimos materiales. Non ostante custu, insta ancora, fredda, persuade los; forsis qualqui unu s’hat a ischidare dae tantu letargiu. Isto in custa hora regogliende meteriales prodare un’historia de Arboerea ìde simile fattura assa de su Logudoro, e bido chi mi mancat meda, et chi sos amigos oristanesos non si curant qui siat illustrada sa patria ipsoro e vivificada sa gloria dessos arboresos. Si tue has cognizione de qualqui patriotu bonu impignadu a mi favorire, si chi benit a essere su matessi, que serbire assa patria; punghe cum qualqui paraula su Rettore de Paulilatinu, qui mi hat fattu bonas promissas”[48].
Questa mancanza di dati recenti e il ricorso a tutti i materiali da lui raccolti nei taccuini di viaggio appare evidente nell’articolo Nuoro provincia, redatta, come si desume da alcuni cenni interni, tra la fine del 1843 e i primi mesi del 1834, sebbene l’anno di stampa dell’intero volume rubricato Noasca-Nurri, rechi la data del 1833, che è da riferire alla stampa del primo fascicolo.
Estesa su una superficie “non minore di miglia quadrate 1144”, la provincia di Nuoro comprende 42 comuni distribuiti nei 7 distretti di Nuoro, Bitti, Bono, Fonni, Galtellì, Orani e Posada[49]. La provincia comprende, dunque, paesi appartenenti a circoscrizioni feudali diverse e alle tre diocesi di Nuoro-Galtellì, Alghero e Ozieri. E ai dati della sola diocesi di Nuoro del periodo 1826-1835, in cui ricadevano i distretti del capoluogo, parte di quello di Bitti, Fonni, Galtellì e Posada, l’Angius fa riferimento per sottolineare il sensibile incremento demografico verificatosi nella provincia a partire dall’istituzione della provincia nel1821; la statistica è però incompleta in quanto mancano i dati relativi ai paesi appartenenti alle diocesi di Alghero e Ozieri. Il dato complessivo della provincia per il 1843 è di 54.842 abitanti. Una popolazione che appare in incremento, nota l’Angius, sebbene la quantificazione, come si è detto, si fondi sui soli dati della diocesi di Nuoro; un dato che è suscettibile di ulteriore incremento se si procede sulla strada già intrapresa di risanamento sanitario dei centri abitati, dell’introduzione di nuove colture, della realizzazione di strutture viarie e del superamento di quelle “feroci inimicizie, nel furor delle quali spargevasi tanto sangue e dovea tutti i complicati [oggi diremmo ‘implicati’] ne’ delitti uscire dalla società a’ salti, dove si inselvatichivano”. Attorno al 1843, secondo l’Angius, il fenomeno del banditismo appare molto diminuito rispetto al recente passato. “Attualmente i delitti che si notano in questa provincia sono molti omicidi, cinque o sei per anno, che è un nulla in confronto di quel che era in altri tempi; ed i furti di bestiame e più del rude che del domito, che però sono immensamente minori di quanti già furono. Le grassazioni, un tempo frequentissime, ora si commettono ben di rado anche dagli orgolesi, che in siffatti delitti, come negli abigeati, erano spesso nominati. Diminuiti a tanto i delitti è proporzionatamente diminuito il numero dei banditi, i quali solevano comunemente uscire da Orgosolo, Dorgali, Siniscola e Lodé”. Ciò a dimostrazione che la modificazione del regime di vita e l’attuazione delle riforme contribuiscono in modo decisivo al superamento del disagio sociale.
Del resto gli abitanti della provincia nuorese sono in genere di indole buona, fatte salve le eccezioni. È quanto l’Angius ebbe modo di osservare direttamente durante il viaggio compiuto nella provincia nel 1838, in cui annotò in modo analitico l’indole della gran parte degli abitanti dei paesi. Secondo questa graduatoria del tutto soggettiva, i nuoresi sono “laboriosi, docili, pacifici, timidi della giustizia”, sebbene poco rispettosi della proprietà altrui; gli orunesi sono stati ingiustamente catalogati come “poltroni, ladri, vendicativi, giocatori e beoni” attribuendo a tutti le caratteristiche di pochi; i bittesi sono “uomini non molto aperti, sensibili delle ingiurie e memori delle medesime, ma di gran generosità verso il nemico pentito”; gli orotellesi “hanno poca sofferenza delle ingiurie, e alcuni non amano che il mio sia diverso dal tuo”; gli oroseini sono “generalmente pacifici” e amanti del lucro “che facilmente ricavano dal commercio co’ battelli napoletani, genovesi e della Maddalena”; Non hanno invece “una granbella riputazione, notati generalmente di vendicativi e rapaci” gli abitanti della baronia di Siniscola; “un po’ amanti del bello far niente e del vino” sono i gavoesi, che hannoperò “donne laboriosissime, che fan fruttificare i loro orti particolari”; coraggiosi, intelligenti, attivi, amanti del lucro e parsimoniosi sono i fonnesi; infine gli orgolesi, che “sono un popolo assai sfavorevolmente conosciuto per lo spirito di vendetta, per le rapine e per l’animosità che spiegano i banditi contro i militari” e “in fatti di furti altri non sono superiori agli orgolesi in astuzia ed audacia”, tuttavia essi, “considerati nella miglior parte sono uomini d’intelligenza, cortesissimi nell’ospitalità, delicati in certi aspetti d’onore e religiosi”.
L’Angius è però fiducioso che in tempi rapidi “saranno abolite le vestigie dell’antica barbarie” soprattutto se si proseguirà soprattutto sulla strada, che è già quasi impercettibilmente in atto, dell’incremento dell’agricoltura rispetto alla pastorizia brada, che ha sempre costituito l’elemento che ha inciso maggiormente sull’arretratezza dell’isola. Un dato questo che l’Angius analizza a lungo, con l’aiuto delle statistiche fornite dai monti di soccorso, plaudendo ad iniziative innovative come la costituzione nell’agosto 1843 di un Comitato agricolo er l’ammodernamento delle colture promosso dal parroco i Orune Francesco Angelo Satta Musio, con la progressiva attuazione dell’editto delle chiudende dopo un grave momento di crisi verificatosi negli anni 1832-33. Considerate le inveterate tradizioni e le caratteristiche del territorio, l’incremento dell’agricoltura a danno della pastorizia costituisce l’impresa più difficile: progressi sono lenti, ma già nel 1843 l’Angius poteva asserire che il sorpasso degli agricoltori sui pastori era già avvenuto e lo annota con soddisfazione dopo aver fatto un analitico confronto, paese per paese, dei progressi fatti dall’agricoltura e dei dati sulla pastorizia nei primi decenni dell’Ottocento. “Resta però che in complesso – scrive l’Angius con soddisfazione al termine della sua analisi – che in complesso sia verissima l’asserzione della predominanza delle cose agrarie, perché in somma i pastori in questa provincia sono 7745, gli agricoltori 8915, come vedesi nella tabella delle parziali di ciascun paese”.
Quanto si è osservato sopra sulla carenza di dati statistici aggiornati in possesso dell’Angius per le voci del Dizionario redatte dopo il suo arrivo a Torino, vale in particolare per la provincia di Ozieri, alla cui descrizione fisico-geografica e demografica sono dedicate poco più di tre pagine, mentre la parte restante, com’era accaduto per la provincia di Nuoro, è dedicata a minute e tediose narrazioni storiche. Della provincia ozierese l’Angius indica in pratica solamente la superficie, che è di 462 miglia quadrate: non indica invece la suddivisione per distretti e i dati sulla popolazione. La suddivisione amministrativa e fiscale può in parte essere desunta dalla voce Sassari, sebbene il dato sia riferito ad una fase politica nella quale maturavano indirizzi nuovi per l’organizzazione dello Stato, nella quale, dopo le riforme del 1848, la Sardegna veniva suddivisa nelle tre grandi Divisioni di Cagliari, Sassari e Nuoro, all’interno delle quali sussisteranno fino all’Unità d’Italia le provincie così come furono delineate nel 1821. Dalla voce Sassari divisione può desumersi che la provincia di Ozieri, la più piccola, constava di 13 comuni ed era suddivisa nei tre distretti di Ozieri (6 comuni), di Buddusò (3 comuni) e di Oschiri (4 comuni). Per i dati sulla popolazione riferiti riferiti al 1840, lo stesso Angius rimanda all’articolo sull’antico dipartimento feudale del Montacuto, che nel medioevo comprendeva 9 comuni nel giudicati di Gallura e 8 nel giudicato del Logudoro. Sulla base di questi dati, la popolazione complessiva della provincia si calcola, tolti i comuni di Bitti, Gorofai e Orune, che come abbiamo visto sono compresi nella provincia di Nuoro, e aggiunti Ardara e Mores, attorno al 1840 era di circa 26.000 abitanti.
Regione a prevalente vocazione pastorale, anche la provincia ozierese aveva visto un aumento consistente dell’agricoltura. Caratteristica specifica, asserisce l’Angius nell’articolo Montacuto, è la prevalenza della coltura dell’orzo su quella del grano perché “generalmente i montacutesi mangiano il pane di orzo”. Inoltre anche in questa provincia, dopo una vivace opposizione “contro i diritti dell’assoluta proprietà”, per cui, nella prima fase di applicazione dell’editto delle chiudende “si pretese restare inviolabile l’antica comunanza delle terre”, le chiusure di grandi e piccoli proprietari sono notevolmente aumentate. A metà degli Anni Quaranta dell’Ottocento – i volumi del Dizionario in cui sono inseriti gli articoli Montacuto e Ozieri provincia sono stati pubblicati rispettivamente nel 1843 e nel 1845 – “sono in tanto numero i piccoli [proprietari], che (sola esclusa la città di Ozieri) sia vero il dire non esservi famiglia che non abbia il suo predietto”.
L’articolo Sassari provincia viene pubblicato nel 1849 nel volume 19° del Dizionario. Sebbene lo scenario politico-amministrativo sia mutato a seguito dei processi di razionalizzazione della struttura dello Stato conseguita alla “fusione perfetta”, alla promulgazione dello Statuto albertino e all’istituzione del Parlamento elettivo, l’architettura amministrativa relativamente alle circoscrizioni provinciali rimane immutata: solo che ora le circoscrizioni provinciali sono ricomprese in un insieme più ampio costituito dalle tre Divisioni di Cagliari, Sassari e Nuoro, preludio alla centralizzazione statale che maturerà con il completamento dell’Unità nazionale, quando l’antico Regnum Sardiniae verrà ridotto alle sole due province di Cagliari e di Sassari.
In applicazione della legge 12 agosto 1848, entrata in vigore nell’ottobre successivo, dopo la soppressione della carica di vicerè e della Regia Segreteria di Stato e di Guerra, in Sardegna vengono create tre ampie circoscrizioni amministrative, decimate Divisioni di Cagliari, Sassari ne Nuoro, all’interno della quali sono raggruppate le preesistenti 11 province o intendenze. Alla Divisione di Sassari vengono attribuite le quattro vecchie province di Sassari, Alghero, Tempio e Ozieri, ciascuna delle quali conserva ai fini fiscali l’assetto attribuito nella riforma del 1821. A capo della Divisione sta un intendente generale residente a Sassari, coadiuvato dai due organi di nuova istituzione, il Consiglio di credenza e il Consiglio divisionale.
La provincia di Sassari risulta divisa in 3 distretti: Sassari con 7 comuni, Codronginaus con 10 e Nulvi con 8. Secondo i dati del censimento del 1846, la provincia sassarese consta di 65.732 abitanti, a fronte dei 53.937 della provincia di Alghero, dei 24.070 di quella di Ozieri e dei 22.673 di quella di Tempio. Gli abitanti della Divisione di Sassari sono 146.053, su un totale di 574.102 abitanti di tutta l’isola.
Estesa su una superficie di 680 miglia quadrate, la provincia sassarese comprende nei suoi distretti 28 comuni, annoverando fra questi, precisa l’Angius, “le famiglie sparse nella Nurra, come ne formassero uno, e i casali dell’Asinara, come se ne componessero un altro”[50]. Pur essendo prevalentemente pianeggiante, scrive Angius, la provincia è dotata di una notevole ricchezza di risorse minerarie, in particolare nella disabitata regione della Nurra, dove sono presenti il piombo, lo zinco e il ferro, e nei territori di Osilo e dell’Anglona ricchi di trachite e di selce. Lambito a Nord-Ovest, a Nord e a Nord-Est dal mare, il territorio è ricchissimo di prodotti della pesca, in particolare nell’ampio golfo dell’Asinara, mentre nelle zone montuose della Nurra e dell’Anglona sono presenti numerosi boschi, in cui abbondano le querce da sughero, che vengono sfruttate commercialmente “da quando si vide il lucro che produssero i rovereti di Putifigari”. Purtroppo la “barbarie pastorale”, nota ancora una volta l’Angius, ha notevolmente contribuito a impoverire la superficie dei bischi; “nell’agosto 1839 – egli ricorda – per più di 15 giorni arsero 17 selve della Nurra con sì vasto incendio, che incenerì innumerevoli grossi alberi ghiandiferi e dannosissimi olivastri, e distrusse una superba vegetazione, la quale pochi anni prima lo scrittore non potea spesso traversare a cavallo”. .
La vocazione prevalente della provincia è però quella agricola e pastorale. L’agricoltura è sviluppata soprattutto nei territori di Sassari, “la città più agricola della Sardegna”, e di Sorso, mentre la pastorizia viene esercitata soprattutto nella Nurra, nell’Anglona e nelle Romangia, a sud della capitale. È però da sottolineare in questa provincia un fenomeno del tutto nuovo rispetto al resto dell’isola, che sembra coronare con successo la politica di riforma dei sovrani sabaudi avviata fin dalla seconda metà del Settecento: la progressiva trasformazione della pastorizia brada in pastorizia stanziale e la parziale conversione, come si era osservato per la provincia di Nuoro, del ceto pastorale in agricoltori”. “La pastorizia – scrive l’Angius – vedesi ormai molto ristretta, perché anche nelle regioni deserte, quali sono le nurresi, i pastori fissi badano meno al bestiame, che a guadagnar dal frutto dei terreni, che ebbero conceduti intorno al loro casale. Quindi decrescerà anche più rapidamente, perché i pascoli liberi saranno ristretti per l’ampliazione della vera proprietà”.
Il commercio, infine, assai fiorente soprattutto nella città di Sassari dove convergono in gran parte le risorse eccedenti del territorio, è assai facilitato dalla “Grande strada centrale [la Carlo Felice] che traversa da sirocco a maestro con gran vantaggio dei popoli che vi restan vicini”.
7. Tradizioni popolari e storia nel Dizionario: mito ed epopea della “nazione sarda”.
La pur ampia carrellata sin qui effettuata, intesa a dare un’idea della situazione della Sardegna tra il 1830 e il 1850 dal punto di vista geografico, statistico e commerciale, non esaurisce la ricchezza di dati e di notizie presenti nel Dizionario, soprattutto sotto il profilo demo-antropologico ed etnologico. Gli usi, i costumi, gli aspetti significativi della storia materiale delle popolazioni, delle credenze, delle superstizioni, delle leggende, della religiosità, vi sono rappresentati e descritti in modo analitico e spesso coinvolgente. È forse questo l’aspetto che genera maggiore sorpresa e gradimento: il lettore comune e lo studioso di antropologia e di tradizioni popolari possono trovare nel Dizionario una fonte esauriente e ricca di curiosità, di conoscenze e di informazioni di facile acquisizione e di immediata fruizione, che ricalcano la letteratura di viaggio di cui è ricca l’editoria ottocentesca ad opera di viaggiatori italiani e stranieri[51]. Ciò che emerge da questo aspetto del Dizionario come dalla letteratura di viaggio è l’arcaicità dei costumi e degli usi della Sardegna, la primitività e fierezza dei suoi abitanti, la verginità e selvatichezza dell’ambiente, il mistero dei luoghi inesplorati, la varietà e ricchezza delle tradizioni e delle feste popolari. Si tratta nell’insieme di un caleidoscopio etno-antropologico su cui non è opportuno soffermarsi, lasciando intera al lettore la sorpresa e l’avventura del viaggio di scoperta attraverso le singole voci dedicate ai comuni e alle regioni storico-geografiche, che non tradisce le aspettative.
Resta da vedere qual è il ruolo che assume la storia all’interno del Dizionario. Sotto il profilo quantitativo, la narrazione storica ha un ruolo che non è esagerato definire preponderante nell’economia generale dell’opera. Nelle voci dedicate ai singoli comuni, ma soprattutto in quelle dedicate ai Giudicati, alle città e alle antiche circoscrizioni feudali, la narrazione storica è oltremodo estesa, fino ad essere addirittura defatigante per il lettore a causa dell’eccessiva erudizione, monotona per l’impostazione annalistica che la caratterizza, in cui al di là della cronologia e della semplice narrazione cronachistica degli avvenimenti non si intravvede un’idea interpretativa, un giudizio che dia forma e senso alla narrazione stessa. Basta scorrere a tal proposito le parti storiche delle voci Cagliari, Sassari, Iglesias, Oristano, Lanusei, Giudicati, Gallura, e soprattutto Logudoro, che è in larga misura una monografia storica[52].
In generale le narrazioni storiche dell’Angius non sono originali: esse si basano fondamentalmente, com’egli costantemente ricorda, sulla Storia di Sardegna di Giuseppe Manno, nei confronti del quale egli nutre un’autentica venerazione, e in parte sulle opere del Fara, che egli conosceva molto bene per averne curato l’edizione, sebbene spesso questo autore venga chiosato e integrato o corretto dall’Angius[53]. Meticoloso raccoglitore di memorie storiche negli archivi isolani e torinesi, a lui si deve tuttavia il merito, molto prima della pubblicazione del Codex diplomaticus di Pasquale Tola nella collana Historiae Patriae Monumenta nel 1861 e nel 1868[54], di aver fatto conoscere numerosi documenti inediti della storia dell’isola o mediante trascrizione integrale, come per le pergamene relative a donazioni dei giudici conservate nell’Archivio arcivescovile di Cagliari, o mediante regesto, come per gli atti dei Parlamenti sardi. Egli infatti è stato il primo e il solo tra i cultori di storia della Sardegna ad aver fatto conoscere nella loro esatta sequenza cronologica una fonte di eccezionale valore storico quali sono gli atti dei Parlamenti sardi dal 1355 fino al triennio rivoluzionario sardo del 1793-1796 dopo le edizioni parziali dei secoli XVI e XVII ad opera del Bellit, dell’Arquer e del Dexart[55]; poiché quest’ultima raccolta si fermava al 1641, le successive deliberazioni stamentarie venivano rese pubbliche per la prima volta dall’Angius. Ancora per diverso tempo, fino a quando non sarà terminata la pubblicazione integrale degli atti dei Parlamenti sardi voluta dalla Regione autonoma della Sardegna[56], l’Angius rimarrà l’unica fonte cui lo studioso può attingere informazioni su questo materia.
Nella valutazione dell’opera storica dell’Angius, interamente affidata al Dizionario, è necessario distinguere, relativamente alla storia della Sardegna dalle origini al periodo giudicale, tra quanto egli ha pubblicato prima del 1850, cioè prima che egli venisse a conoscenza delle false Carte d’Arborea, e quanto ha scritto e pubblicato dopo quella data. Infatti, le voci relative ai periodi indicati, contenute nei volumi dal 1° al 18° sono da considerare storicamente attendibili, per quanto in gran parte frutto di un diligente lavoro di compilazione effettuato sull’opera del Manno (si tratta dei lemmi compresi tra la lettera A e la voce Sardara), mentre quanto è stato da lui pubblicato dopo il 1850, in particolare nella voce Sardegna, è privo di attendibilità in quanto interamente inficiato dalla adesione incondizionata dell’Angius alle notizie riportate nelle false Carte d’Arborea[57]. Diverso è invece il discorso sulla parte moderna della storia sarda dal secolo XVI al 1848: questa parte, attendibile nei contenuti, lo è di meno sotto il profilo dell’interpretazione,
È proprio sotto il profilo dell’interpretzione e del metodo che l’intera produzione storica dell’Angius manifesta i suoi limiti più pesanti. Tutta la narrazione soggiace fondamentalmente a due categorie interpretative: l’una, d’ispirazione romantica, risponde all’esigenza di affermare nel percorso storico una ‘specificità’ del popolo sardo, un suo ‘genio’ consistente nella fierezza, nell’amore per la libertà e nella opposizione ad ogni genere di tirannia, nel coraggio, nell’aver a pieno titolo partecipato allo sviluppo della civiltà dei popoli nell’arte, nelle lettere e nella legislazione; l’altra, di carattere politico, o forse sarebbe più appropriato dire propagandistico, intesa ad affermare che il governo della monarchia sabauda è quello che ha avviato la Sardegna sulla strada della redenzione politica, sociale ed economica, mentre la dominazione aragonese e spagnola, ma in generale tutte le dominazioni, cartaginese romana bizantina e pisano-genovese, oltre ad essere state vessatorie e tiranniche, sono state all’origine dei mali della Sardegna. La ‘specificità’ della “nazione sarda”, il carattere del popolo sardo a partire dall’età dei nuragici – i “nuritetti” come li chiama l’Angius – sino ad oggi rimasto immutato nei secoli: da questa idea aprioristica nasce quella che è stata giustamente definita la “ossessione nazionalistica” [58]. Ne consegue “la continua e compiaciuta mitizzazione delle vicende isolane, nell’affanno di ricostruire gli avvenimenti del passato in modo conforme a modelli culturali e politici precostituiti”[59]. In altri termini, una storiografia così concepita, che opera costantemente una idealizzazione del passato, non fa altro che mitizzare il passato stesso: il fatto storico trascorre ineluttabilmente nel mito, la storia cede il passo all’epica.
A ben vedere, l’obiettivo cui tendeva il discorso storico, che l’Angius ha perseguito con determinazione e convinzione, è stato quello di rappresentare un’epopea del popolo sardo, che trova il suo culmine nel periodo giudicale, in particolare nella figura dell’eroina arborense Eleonora.
Abbiamo già accennato al fatto che l’Angius, già nell’orazione in onore di Eleonora, nel 1835, aveva delineato con chiarezza il mito storiografico di un’età aurea che la civiltà sarda avrebbe vissuto nel periodo giudicale; una civiltà di cui la regina arborense Eleonora è il simbolo, sia come campione della resistenza contro la dominazione straniera, sia come matura espressione di una saggia legislazione espressa nella Carta de Logu[60]. Questo disegno, delineato nell’orazione in onore di Eleonora e narrato nelle voci del Dizionario relative ai Giudicati e al Logudoro, apparse entrambe nel 1841, avrebbe dovuto trovare la sua compiuta espressione appunto in un’ampia epopea del popolo sardo, alla quale egli poneva mano attorno al 1842, di cui dava notizia all’amico Spano nel settembre 1843. Secondo il disegno dell’Autore, nell’opera, che diventerà il cosiddetto romanzo storico Leonora d’Arborea, originariamente scritta dall’Angius in lingua sarda e successivamente per ragioni editoriali tradotta in italiano, la civiltà sarda del periodo giudicale, impersonata da Eleonora, doveva essere rappresentata in tutti i suoi aspetti, sociale, politico, letterario, artistico, linguistico, di costume. “In custa epopea subra s’impresa storica de Leonora – scriveva l’Angius allo Spano – si presentat totu e quantu appartenit a sa Sardinia, et sunt totu referidos sos costumenes et usos nostros, aberindesi su poema in Monteleone (casteddu), de inde passande in Ardari, in Gallura, in Terranova, in Posada, in sos saltos de Montenieddu, torrande in Ardari, e inde procedende in su Goceanu in su Marghine in sa Planargia in Arborea, pustis in Parte Barigadu (Fordongianus) in Parte Useddus, in Sardara, Sellori, Sigerro e Sulchis, et terminande in sos cuccuros de Caralis”[61]. E in una successiva lettera in data 19 aprile 1844, allo Spano che gli chiedeva notizie dell’opera epica su Eleonora, l’Angius rispondeva: “Ista isectende sa Leonora? Hapas patientia ancora unu pagu, qua so tribaliande a’ sa traduzione italiana. Custa finida subitu hapo a pubblicare su programma, et pustis has a legere su solenne pastissu qui hapo factu pro celebrare sa eroina sarda et impare representare sa natione in omni respectu, de modu chi non restet che pagu a ischire de’ sa natione nostra facta qui si siat sa lectura de’ su interu poema”[62].
Il programma di associazione per la pubblicazione del poema-romanzo Leonora venne diffuso nel luglio 1844. Soffermandosi sul carattere di “epopea nazionale” dell’opera, l’Angius scriveva: “[L’Autore] non intese a porre in migliore luce di gloria questa donna straordinaria, che è stata ed è, quant’è merito, onorata, prima per quanto di essa nell’Italia, nella Francia e nella Spagna parlò la fama in su la fine del secolo XIV, poi per quanto dopo il Manno ne scrissero altri storici: più tosto operava nel principal pensiero di rappresentare il popol sardo nel vero suo essere ed aspetto, e in tutta la sua esistenza, dando del medesimo una nozione in tutte le parti sincera e possibilmente intera, e però proponendo il meglio che sia nell’antichità monumentale, nella storia politica e religiosa, e nelle tradizioni di vario genere che si continuarono fino a noi; disegnando il carattere fisico e morale di tutte le tribù in generale e in particolare; notando le antiche istituzioni politiche, le arti, le usanze lasciate e persistenti, e sottoponendo allo sguardo tutte le varie regioni di quella terra”[63].
Quello che poi verrà impropriamente chiamato il romanzo storico Leonora d’Arborea, sarrà pubblicato solo nel 1847[64]. Non è questa la sede per addentrarsi nell’esame di questa pubblicazione dalle flebilissime qualità letterarie, che del resto ricalcano le caratteristiche generali dell’opera dell’Angius. Vale però la pena ribadire che questo lavoro dell’Angius, risponde meglio di qualunque altro a quello che è stato l’obiettivo generale della sua lunga attività di appassionato cultore degli studi sulla Sardegna: lasciare un monumento alto e significativo della civiltà della sua patria.
L’altro aspetto dell’opera storica dell’Angius, l’intento celebrativo della monarchia sabauda, è stato più volte messo in evidenza in questa Prefazione nell’esposizione degli aspetti corografico-statistici, perché sia opportuno insistervi ulteriormente. È però importante può essere importante capire, per una delineazione più completa della personalità dell’Angius, che cosa stia dietro quell’aspetto, che può apparire a tratti poco dignitoso, quasi frutto, diremmo col Manzoni, “di servo encomio”, di bassa adulazione. Eppure, a ripercorrere la vicenda biografica dell’Angius, non si può certo dire che quell’aderenza così marcata alla casa regnante abbia ottenuto gratificazioni di sorta. È vero semmai il contrario! Dalla monarchia sabauda egli ebbe nel corso della sua vita solo un assegno annuale di 450 lire per la collaborazione al Dizionario. Nulla più. Morì solo, povero e dimenticato; il suo funerale fu fatto a spese del Comune di Torino. Dietro quell’insistita celebrazione della monarchia sabauda stava una radicata convinzione: non esiste un reggimento politico che sia superiore all’istituto monarchico e solo un regime politico monarchico di tipo paternalistico, in cui il monarca si piega con sollecitudine a sollevare le sofferenze e a risolvere i problemi dei sudditi, è in grado, secondo l’Angius, di risolvere i problemi della società.
È sufficiente, a questo proposito, esaminare brevemente la narrazione storica che l’Angius dedica nella voce Logudoro, scritta nel 1841, alle vicende della fine del Settecento sardo e allo sfortunato tentativo di abolizione del feudalesimo da parte di Giovanni Maria Angioy. Abbiamo sottolineato più volte in questa prefazione che per l’Angius il sistema feudale costituiva la vera cancrena della società sarda del suo tempo ed egli ha costantemente auspicato l’abolizione di questo anacronistico sistema; quando ciò è concretamente avvenuto tra la fine degli Anni Trenta e i primi Anni Quaranta dell’Ottocento, egli ha salutato Carlo Alberto, il sovrano che fu artefice di questa riforma, come rigeneratore della Sardergna; a conclusione dell’articolo sul Logudoro egli scriverà: “dal regno di Carlo Alberto comincerà [per la Sarderna] l’epoca della felicità”. Anche il movimento antifeudale guidato dai “patrioti” sardi di fine Settecento e dall’Angioy ebbe come suo principale obiettivo l’abolizione del sistema feudale. Nonostante ciò l’Angius, profondamente convinto della giustezza delle rivendicazioni antifeudali da parte delle popolazioni della Sardegna, non approva l’operato dell’Angioy, anzi dà di lui un giudizio durissimo. Secondo l’Angius G. M. Angioy, che pure sosteneva una causa giusta, era da condannare perché corrotto dalle “pervertitrici dottrine del tempo”, ossia perché corrotto dalle massime giacobine e democratiche della Rivoluzione francese. Ancor prima del Manno, la cui Storia moderna della Sardegna uscirà nel 1842, l’Angius nella voce Logudoro, che è dell’anno precedente, accusa l’Angioy di aver capeggiato il movimento antifeudale con l’obiettivo finale, a lungo dissimulato, di creare in Sardegna uno Stato repubblicano modellato sulla Francia rivoluzionaria. Sebbene l’Angioy nel 1793 avesse contribuito alla vittoria dei sardi contro l’invasione francese, “depravato poscia nello spirito amò le novità politiche, che tutti i buoni abominavano, inspirò ne’ popolani massime sovversive, concitò alle sedizioni, favorì l’anarchia, e potente per le sue aderenze e per la popolarità opprimeva il magistrato, e perseguitava gli amici dell’ordine e i devoti del Re”.
Partecipe del dibattito fortemente polemico sulle vicende del 1793-96 a cui negli anni Quaranta dell’Ottocento aderirono da posizioni conservatrici numerosi intellettuali del periodo, con la sua interpretazione l’Angius anticipava il giudizio pesantemente negativo che l’anno successivo avrebbe espresso il Manno nella Storia moderna, giusdizio che diverrà poi, considerata l’autorevolezza dell’autore, il canone di interpretazione degli intellettuali e dei politici di parte conservatrice e moderata[65]. Da conservatore convinto Vittorio Angius affronterà la battaglia parlamentare nei circa quattro anni della sua attività di deputato al Parlamento subalpino, spessissimo critico nei confronti del governo per la lentezza e le dilazioni dei provvedimenti atti a favorire lo sviluppo della Sardegna, preciso e documentato perfino negli aspetti tecnico-scientifici dei provvedimenti perché singolarmente aggiornato sugli sviluppi della scienza e della tecnica nei settori più diversi[66], ma sempre pronto nella difesa dei valori fondamentali della dottrina cattolica, della morale e del governo del re. È in questa fede indiscussa nel reggimento monarchico che possiamo trovare la motivazione profonda di quell’inno al re, modellato sull’inno nazionale inglese, che è stato a lungo l’inno del Regno Sardo, quel Cunservet Deus su Re, che egli scrisse nel 1844[67].
In questa dimensione di convinto conservatore, aperto però alle istanze e alle conquiste della modernità nel campo scientifico e sincero fautore del progresso, deve essere considerata questa importante e benemerita figura dell’Ottocento sardo, personaggio di sicuro livello culturale nel quale, come ha scritto Girolamo Sotgiu che quindici anni orsono aveva voluto rinverdirne il ricordo, “al conservatorismo si intrecciava uno spirito progressista”[68], sorretto per l’intero arco della sua esistenza da un amore grande e indefettibile per la Sardegna.
[1] Cfr. il giornale torinese “L’Opinione” n. 124 del 5 maggio 1857, citato in G. Casalis, Dizionario geografico storico statistico commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sardegna (di seguito citato Dizionario), vol. 28°, Appendice, Torino 1856, p. 537. Non verranno richiamate in nota le citazioni dalle voci del Dizionario inserite in questa Prefazione.
[2] Il vol. 18°, che contiene la voce Sardegna, si articola infatti in quattro tomi; sono dedicati alla Sardegna i tomi 18bis, 18ter e 18quater. A questi 3 tomi sulla Sardegna l’Angius ne aggiungeva un quarto, che pubblicò a sue spese nel 1859, di cui si dirà meglio in seguito.
[3] P. Camosso, Premessa al vol. 27° del Dizionario.
[4] G. P. Romagnani, Storiografia e politica culturale nel Piemonte di Carlo Alberto, Torino, 1985, p. 305. A questo testo si rimanda per una approfondita trattazione dell’argomento che qui viene succintamente esposto.
[5] Ivi, p. 306.
[6] G. Casalis, Il compilatore a chi legge, in Dizionario, cit. , p. 11.
[7] Cfr. G. Manno, Storia di Sardegna, Torino, tomo 1° (1825), tomi 2° e 3° (1826), tomo 4° (1827); di questa prima edizione dell’opera ha realizzato una ristampa anastatica Arnaldo Forni Editore nel 1980. Le indicazioni di pagina relative a quest’opera, inserite nell’apparato di note di questa edizione delle voci sarde del Dizionario, sono desunte dalla recente edizione inserita ai nn. 4-6 della collana “Bibliotheca Sarda” della ILISSO Edizioni: cfr. G. Manno, Storia di Sardegna, a cura di A. Mattone, revisione bibliografica di T. Olivari, voll. 1-3, Nuoro, 1996. Su Giuseppe Manno (Alghero 1786- Torino 1868), oltre che alla Prefazione di A. Mattone all’edizione della Storia di Sardegna sopra citata, si rimanda a A. Accardo, Giuseppe Manno storico della Sardegna tra Illuminismo e Romanticismo, in ID., La nascita del mito della nazione sarda, Cagliari, 1996, pp. 25-74 e alla bibliografia citata nei due contributi.
[8] G. Casalis, Il compilatore a chi legge, in Dizionario, cit., p. 11.
[9] Ibidem
[10] Ivi, p. 13.
[11] Ibidem. Sull’erudito cagliaritano Ludovico Baille (Cagliari, 1764 – 1839) non esiste a tutt’oggi uno studio; per le notizie biografiche si rimanda a P. Martini, Catalogo della biblioteca sarda del cav. Lodovico Baille preceduto dalle memorie intorno alla di lui vita, Cagliari, 1844.
[12] G. Casalis, Il compilatore a chi legge, in Dizionario, cit., p. 14.
[13] Secondo le consuetudini dell’epoca, il Dizionario di Casalis-Angius si pubblicò per fascicoli, che poi venivano rilegati al termine dei singoli volumi. Per comodità del lettore indichiamo di seguito la sequenza cronologica di pubblicazione dei singoli volumi. Vol. 1° (1833) Abbadia – Azzara; vol. 2° (1834) Baceno – Buttogno; vol. 3° (1836), Cabella – Casale provincia; vol. 4° (1837) Casale città – Chieri; vol. 5° (1839) Chiesa Nuova – Cuzago; vol. 6° (1840) Dagnento – Furtei; vol. 7° (1840) Gabiano – Genova; vol. 8° (1841) Genuri – Keremule; vol. 9° (1841) La Balma – Luzzano; vol. 10° (1842) Macello – Mondovì; vol. 11° (1843) Mondrone – Nizza; vol. 12° (1843) Nasca – Nurri; vol. 13° (1845) Obbiano – Oyale; vol. 14° (1846) Pabillonis – Piemonte; vol. 15° (1847) Pierlaz – Putifigari; vol. 16° (1847) Quadrate – Rutori; vol. 17° (1848) Sabbia – Saluzzo (la voce Sagama si trova al termine di questo vol. alle pp. 872-75); vol. 18° (1849) Salza – Sardara; vol. 18bis (1851) Sardegna; vol. 18ter (1853) Sardegna; vol. 18quater (1856) Sardegna; vol. 19° (1849) Sardières – Serrenti; vol. 20° (1850) Serrières – Torgnon; vol. 21° (1851) Torino provincia – Torino città (parte); vol. 22° (1852) Torino città; vol. 23° (1853) Tornaco – Verboux; vol. 24° (1853) Vercelli; vol. 25° (1854) Verd – Vintebbio; vol. 26° (1854) Vinzaglio – Zurzana; vol. 27° (1855) Appendice, Abai – Buttogno; vol. 28° (1856) Appendice, Cadarafagno – Zerbolò.
[14] P. Martini, Vita e scritti del conte Alberto Ferrero della Marmora, Cagliari, 1863, p. 38.
[15] G. Spano, Cenni biografici del conte Alberto Ferrero della Marmora ritratti da scritture autografe, Cagliari, 1867, p. 48.
[16] G. Sotgiu, Vittorio Angius e i suoi tempi, Fondazione “G. Siotto”, Cagliari, s. d. (ma 2001), p. 42.
[17] Tra queste recenti edizioni ricordiamo quelle anastatiche dell’editore Arnaldo Forni di Bologna, che ha riprodotto la voce Sardegna e quelle relative alle regioni storico-geografiche della Sardegna e di alcune importanti città, e quella effettuata dalle quattro Amministrazioni provinciali di Cagliari, Sassari, Nuoro e Oristano, che hanno riprodotto le voci relative ai Comuni delle rispettive province; infine, la recentissima riedizione integrale di tutta l’opera realizzata dal quotidiano “L’Unione sarda”.
[18] Occorre però riconoscere la lodevole eccezione di Francesco Loddo Canepa, che nel 1926 ne tracciava un esauriente e fondamentale profilo biografico, inserito tra i ‘medaglioni’ di illustri sardi editi dalla Fondazione “Il Nuraghe”. Cfr. F. Loddo Canepa, Vittorio Angius. Collezione uomini illustri di Sardegna, III, Cagliari, 1926. Non ci sentiremmo però di condividere la perorazione finale del Loddo Canepa, che vede strumentalmente nell’Angius un improbabile precursore del programma di presunte riforme del governo fascista. “La sua attività di storico, – scrive Loddo Canepa – di letterato, di educatore e di parlamentare, che nel suo complesso ha un valore notevolissimo, fu inspirata al nobile concetto di una Sardegna rinnovellata, degna della grande madre Italia, gareggiante per pensiero, prosperità, ricchezza, con le prime regioni della penisola. Rievocare la modesta figura di questo instancabile lavoratore, ingiustamente tenuta finora nell’oblio, additarlo ai sardi nel momento storico in cui il Governo Nazionale dà, dopo tanta aspettazione, una poderosa spinta al radicale rinnovamento, traducendo in pratica quel grandioso programma di riforme, che fu in cima al pensiero degli illustri isolani del secolo XVIII [sic! recte XIX], è un atto di giustizia e di doverosa riconoscenza” (F. Loddo Canepa, Vittorio Angius, cit., p. 69).
[19] Cfr. B. J. Anedda, Vittorio Angius politico, Milano, 1969; L. Carta, Vittorio Angius. Opere poetiche e orazioni latine, in “Archivio satdo del movimento operaio contadino e autonomistico”, N. 35/37, Cagliari, 1991, pp. 109-175; Idem, Lettere di Vittorio Angius a Giovanni Spano (1840-1860), ivi, pp. 293-343; A. Accardo, Il mito della nazione sarda: Vittorio Angius, in Idem, La nascita del mito della nazione sarda, Cagliari, 1996, pp. 75-110; G. Sotgiu, Vittorio Angius e i suoi tempi, cit, pp. 41-101; S. Pira, Vittorio Angius e il “Dizionario” che svela la Sardegna, in La Sardegna paese per paese [presentazione della recente riedizione delle voci del Dizionario Angius/Casalis promossa da “L’Unione sarda”], vol. 1°, Cagliari, 2004, pp. 9-23.
[20] Ricordiamo tra questi Stanislao Stefanini, professore di eloquenza latina; Giovanni Battista Garau, docente di Fisica sperimentale all’Università cagliaritana; Benedetto Porcu, autore di una dissertazione sull’aerostato dei fratelli Montgolfier; Giovanni Muscas, professore universitario di Matematica e Geometria; Angelo Conquedda, docente di fisica sperimentale e autore di una bizzarra dissertazione sugli abitanti degli altri pianeti; Tommaso Napoli, singolare figura di erudito, geografo e giornalista, al quale si deve la realizzazione della prima carta geografica della Sardegna condotta secondo criteri moderni. Per tutti si rimanda al volume di F. Colli Vignarelli, Gli scolopi in Sardegna, Cagliari, 1982.
[21] L’elogio dell’Azuni ci è noto attraverso una parziale edizione fatta da V. Finzi, Domenico Alberrto Azuni elogiato da Vittorio Angius, in “Archivio Storico Sardo”, vol. II, 1906. Sull’Azuni è fondamentale il saggio di L. Berlinguer, Domenico Alberto Azuni giurista e politico (1749-1827). Un contributo bio-bibliografico, Milano, 1966.
[22] Le orazioni in lode del Sotgia Serra e del Vico non ci sono state conservate; le altre due sono state pubblicate dallo stesso Angius: l’elogio del Fara funge da introduzione alla riedizione delle sue opere storiche e geografiche curate dall’Angius: De laudibus J. Francisci Farae oratio, in J. F. Fara, De chorographia Sardiniae libri duo etc. ex recensione Victorii Angius, Cagliari, 1838; l’elogio di Eleonora d’Arborea fu pubblicato in opuscolo a parte con una dedica allo storico Giuseppe Manno: cfr. V. Angius, De laudibus Leonorae Arborensium reginae oratio, Cagliari,1839.
[23] L. Berlinguer, op. cit., pp. 143-44.
[24] La rivista “Biblioteca sarda”, interamente redatta dall’Angius, fu pubblicata a Cagliari presso la Tipografia Monteverde in fascicoli mensili di 40 pagine dall’ottobre 1839 al settembre 1839. Ogni fascicolo era in genere diviso in tre parti, dedicati rispettivamente alla Storia, alle Scienze Arti e Mestieri e alla Letteratura.
[25] V. Angius, De laudibus J. F. Farae, cit., p. 120.
[26] Su questo aspetto ci sia consentito rimandare a L. Carta, Il mito storiografico di Eleonora d’Arborea in Vittorio Angius, in Intellettuali e società in Sardegna tra Restaurazione e Unità d’Italia, a cura di G. Sotgiu, A. Accardo, L. Carta, Oristano, 1991, vol. I, pp. 173-202.
[27] Cfr. V. Angius, Leonora d’Arborea o Scene sarde degli ultimi lustri del secolo XIV, vol. I [il solo pubblicato], Torino, 1847.
[28] G. Casalis, Il compilatore a chi legge, cit., p. 14.
[29] A onor del vero non tutti gli articoli sulla Sardegna sono stati scritti dall’Angius: egli rifiutò la paternità degli articoli contenuti nel vol. XXV, da Villacidro a Vollanovatulo, nonché le integrazioni presenti nel volume 27°; inoltre le voci Villamassargia, Villaputzu, Villasalto, Villasor, Villaspeciosa, Villaurbana sono lavori di saggio non definitivi. Scrive l’Angius in vivace polemica con gli editori nel vol. 18quater: “Qui è necessità che mi spieghi coi lettori, i quali sapendo dalla prefazione che tutti gli articolo relativi alla Sardegna, compresi in questo Dizionario Geografico Statistico Storico ecc. dei R. Stati, dovevano essere miei, potranno credere che miei sieno anche gli ultimi, a cominciare da Villacidro, i quali ora io li debbo rifiutare in massima parte perché non miei. Trovandomi a villeggiare nell’autunno del 1854 fui creduto annojato della lunghissima collaborazione, e perché si volea accelerare la pubblicazione del Vol. XXV e avere riguardo a non disturbarmi nelle mie ricreazioni con richiedermi se volessi continuare, si supplì con altrui scrittura agli articoli che io aveva preparati e tenea pronti in casa ad ogni richiesta, come dimostrai al ritorno dalla villeggiatura. Gli articoli che io rifiuto sono i seguenti: Villacidro, detta erroneamente Villa-Isidoro (Vol. XXV, pag. 374), della quale erasi data un’ampia descrizione sotto la lettera C, vocabolo Cidro; Villagrande Strisaili (pag. 417); Villagreca (ibid.), dove sono indicati i rapporti amministrativi senza curare gli altri capi, che secondo il Programma dell’Opera (da me in tutti gli articoli tenuto sott’occhio) dovevano essere considerati; Villamar (pag. 419), di cui si era già data la compita descrizione sotto l’M, voc. Mara-Arbarè (Vol. X, pagg. 125-26-27-28); Villanova-Forru (Vol. XXV, pag. 437); Villanova Franca (pag. 438), dove si leggono pochissime nozioni statistiche e si omette il resto; Villanova Monteleone (pag. 455), luogo e territorio degno di una larga descrizione; Villanova-Monte Santo (pag. 456) e Villanova S. Antonio (ibid.) che non più sussistono, e delle quali io non avrei tenuto conto, per non accrescer l’Opera di circa duemila articoli inutili, volendo notare in articoli particolari tutti i paesi spopolati della Sardegna, dei quali però in luogo conveniente non lasciai di dare cenno; come avrei dovuto fare più di altri seimila articoli se avessi voluto notare tutti i particolari della geografia in ordine alfabetico con gran moltiplicazione di pagine e noja dei lettori, che vedrebbero molte fastidiose ripetizioni; Villanova-Truschedu (pag. 459); Villanova-Tullo (ibid.). In quanto poi a Villamassargia (pag. 419), Villa-Puzzu (pag. 460), Villa-Saltu (pag. 465), Villa-Sorris (pag. 469), Villa-Speciosa (pag. 470), Villa-Urbana (pag. 483) io non li rinnego riconoscendoli mio lavoro, ma un lavoro di saggio che feci e mandai al signor Marzorati nel 1832, quando mi assunsi l’incarico di descrivere tutti i luoghi della Sardegna, la quale mancava affatto di una descrizione geografico-statisticha e aveva poche storie particolari e inesatte; il qual lavoro ho dovuto poi rifare, quando ben esaminato il programma, ho riconosciuta la necessità di viaggiar nell’Isola con tutta attenzione, come feci viaggiando ogni anno ne’ mesi, che mi restavano liberi dalle mie occupazioni scolastiche e dalla direzione del Ginnasio delle Scuole Pie di Sassari, poi di quello di Cagliari. Gli articoli sopra i suddetti luoghi sono in mani degli Editori, ed essi li pubblicheranno dove meglio lor sembri, o in fine di questa Descrizione generale della Sardegna, o nell’Appendice che si va pubblicando. A proposito di quest’appendice devo pur rifiutare tutti gli articoletti relativi alla Sardegna, che, non so come, vi furono introdotti e che generalmente sono o ripetizioni di cose già dette da me, o nozioni false e sempre mendose. Io son rimasto stupito in leggere siffatti articoletti, ed avrei riso di cuore, come rideranno i sardi, in leggendo i più solenni strafalcioni, se non avessi temuto di sinistri giudizi su di me dalla parte delle persone intelligenti. Noto p. e. Abba, capo della Sardegna, fu già signoria dei Manca, dove ciascuno intenderà un capo geografico, mentre è una fonte (Vedi Cabuabbas); Acqua rosa, punta che si aderge nel territorio di Terralba, mentre quel territorio è una pianura sabbiosa; Alternos, casale presso la chiesa di s. Efeso nel territorio di Pula, mentre è il nome del consigliere municipale, che va in Pula e soleva avere dai Vicerè podestà pel governo del luogo per tempo della festa. E basti questo cenno”(V. Angius, in G. Casalis, Dizionario, voce Sardegna, vol. 18quater, Torino, 1856, p. 6, nota 1. Per completezza precisiamo infine che gli Editori non pubblicarono gli articoli definitivi forniti dall’Angius sulle località sopra enumerate in nessuno dei due volumi di Appendice.
[30] Ivi, p. 15.
[31] I tre tomi della voce Sardegna, il cui sottotitolo originale è Geografia, storia e statistica dell’isola di Sardegna, usciti rispettivamente nel 1851, 1853 e 1856, trattano di Geografia e flora, Fauna e clima, Storia dalle origini al 1676, Storia dei feudi; nella parte storica è anche inserita una grammatica del sardo intitolata Sardegna linguistica. Cenni sulla lingua de’ Sardi scritta e parlata. Tre anni dopo la conclusione della pubblicazione del Dizionario, l’Angius pubblicava a sue spese un volume in cui riprendeva la narrazione storica e delle riunione degli Stamenti dal 1676 al 1848 il cui titolo è il seguente: Complemento della descrizione complessiva della Sardegna compresa nei volumi XVIII2, XVIII3, XVIII4 del Dizionario geografico-storico-statistico ecc. degli Stati di S. M. il re di Sardegna compilato dal prof. Vittorio Angius di Cagliari autore di tutti gli articoli relativi alla Sardegna nel predetto Dizionario, Torino, 1859.
[32] Oltre ad Alghero facevano parte della provincia i comuni di Bessude, Bonnannaro, Bonorva, Borutta, Cheremule, Cossoine, Giave, Mara, Olmedo, Padria, Pozzomaggiore, Putifigari, Rebeccu, Romana, Thiesi, Torralba, Semestene, Villanova Monteleone.
[33] Diamo di seguito i comuni compresi nei distretti facenti parte della provincia di Buschi, segnando in maiuscoletto i rispettivi capoluoghi di distretto: Busachi, Allai, Ardauli, Bidonì, Fordongianus, Nughedu San Niccolò, Neoneli, Sorradile, Ula Tirso, Villanova Truschedu; Ales, Assolo, Banari-Usellus, Cèpara, Curcuris, Escovedu, Figus, Gonnosnò, Mogorella, Masullas, Morgongiori, Pau, Pompu, Simala, Siri, Usellus, Ogliastra-Usellus; Ghilarza, Aidomaggiore, Abbasanta, Boroneddu, Domusnovas-Canales, Corbello, Paulilatino, Sedilo, Soddì, Tadasuni, Zuri; Meana, Aritzo, Atzàra, Belvì, Ortueri, Samugheo; Oristano, Cabras, Massama, Nuraxinieddu, Ollastra Simaxis, Palmas, Siamanna, Siamaggiore, San Vero Congiu, Santa Giusta, Siapiccìa, Silì, Solanas, Villaurbana, Simaxis; Tonara, Austis, Desulo, Sorgono, Teti, Tiana; Tramatza, Baratili-Milis, Bauladu, Donnigala, Milis, Narbolia, Nurachi, Riola, San Vero Milis, Solarussa, Zeddiani, Zerfaliu; Uras, Marrubiu, Terralba, San Niccolò d’Arcidano.
[34] I 62 comuni della provincia di Cagliari erano distribuiti in 9 distretti i cui capoluoghi erano, oltre la capitale, Domusdemaria con giurisdizione su 5 comuni, Pauli-pirri su 7, Sanluri su 8, Senorbì su 13, Serramanna su 6, Siliqua su 6, Sinnai su 5, Ussana su 11.
[35] Angius enumera 218 specie di uccelli conosciute a Cagliari indicando la triplice denominazione italiana, latina e vernacola, avvalendosi, egli scrive, “delle note favoritemi dal signor Gaetano Cara preparatore di Zoologia nel Regio Museo della Università degli studi”.
[36] I 26 comuni della provincia di Cuglieri suddivisi nei rispettivi distretti sono i seguenti: Cuglieri, Scano Montiferro, Sennariolo; Bosa, Flussìo, Mogomadas, Modolo Montresta, Sagama, Sindia, Suni, Tresnuraghes, Tinnura; Bortigali, Birori, Borore, Dualchi, Lei, Macomer, Mulargia, Noragugume, Silanus; Santu Lussurgiu, Bonarcado, Seneghe.
[37] Angius chiama cussorgia un aggregato di diverse famiglie di pastori; con il termine stazzo indica l’abitazione di ciascuna famiglia di pastori. Così, ad esempio, nel territorio di Tempio egli censisce 39 cussorgie e 592 stazzi.
[38] “che contiene l’articolo sulla Gallura, e ha meritato gli elogi del barone Manno, e generalmente è lodato come fatto scrupolosamente, e interessante” (cfr. lettera di V. Angius a G. Spano del 28-29 settembre 1840, in L. Carta, Lettere di Vittorio Angius a Giovanni Spano (1840-1860), cit., p. 316 e p. 317 nota 1.
[39] Ivi, pp. 316-17: “Mi rincresce che mi manchino due articoli, uno su Genuri e l’altro su Gorofai e le chiedo di farmi la cortesia di parlare al dottor Matzeu se è a Cagliari oppure di scrivergli, o di raccomandare l’una e l’altra cosa a Pisano. Può darsi che a seguito di questo suo intervento tenga fede alla parola datami di farmeli avere in autunno. Io avevo racconmadato ciò a Radicati, e al padre De Gioannis; ma dov’è la fraternità, dove l’amore patrio? Tutti vantano questo bel sentimento ma non fanno niente, ed io, povero me, che ho faticato notte e giorno, proprio io passo per uno che non conosce la sua patria, e tutti mi danno addosso, perfino gli amici”.
[40] I comuni della provincia di Isili, enumerati per distretto, sono i seguenti: Isili, Escolca, Gesturi, Gergei, Serri, Villanovatulo; Barumini, Baradili, Las Plassas, Lunamatrona, Siddi, Setzu, Tuili, Turri, Ussaramanna; Forru (oggi Collinas), Baressa, Gonnoscodina, Genuri, Gonnostramatza, Mogoro, Sardara, Sini, Villanovaforru; Laconi, Asuni, Genoni, Nuragus, Nurallao, Nureci, Ruinas, Senis, Sant’Antonio Ruinas; Mandas, Donigala, Gesico, Goni, Seurgus, Villanovafranca; Orroli, Armungia, Ballao, Nurri, Villasalto; Sadali, Escalaplano, Esterzili, Gadoni, Seui, Ussassai.
[41] Sul “Dagherrotipo, sotto lo pseudonimo di Angelo Nino, l’Angius pubblicò nel 1842 le seguenti novelle: L’uomo di prima impressione, Il buon-tono, La famiglia rovinata dal lusso, Il fattore, Il duello del cane, Storia francese del medio evo nel 1371, Il giocatore, Fiosé e Setarisak. Con lo steso pseudonimo nel 1843 sarebbero uscite sul “Liceo” le novelle: Orientalismo, Tan-Chi o la fedele cinese, Personalità bizzarre e singolarità morali.
[42] I 26 comuni della provincia di Lanusei con i relativi distretti sono i seguenti: Lanusei, Arzana, Elini, Gairo, Ilbono, Osini, Tortolì, Villagrande; Barisardo, Jerzu, Loceri, Tertenia, Ulassai; Villputzu, Muravera, Foghesu, San Vito; Triei, Baunei, Ardali, Girasole, Lotzorai, Donnigala, Taluna, Urzulei, Villanova Strisaili.
[43] Da qui possiamo dedurre, come si è detto sopra, che il viaggio dell’Angius nell’Ogliastra avvenne attorno al 1833, il volume contenente l’articolo Lanusei provincia essendo stato pubblicato nel 1841.
[44] “procedendo quesito per quesito, diano delle risposte complete e veritiere” (lettera di V. Angius a G. Spano del 28 febbraio 1842, in L. Carta, Lettere di Vittorio Angius a Giovanni Spano (1840-1860), cit., pp. 324-25).
[45] Ivi, pp. 326-27, lettera di V. Angius a G. Spano del 29 agosto 1842. “Mi rendo conto della difficoltà di avere notizie anche attraverso quegli amici che hanno molte conoscenze e amici in ogni parte della Sardegna. Non perdere la pazienza, amico, chiedi, insisti, stimola e ristimola, non stancarti di chiedere: forse per levarti di torno quei maiali poltroni faranno ciò che non vogliono fare per un motivo più nobile, quale è l’amor di patria”.
[46] Lo Spano inizierà la pubblicazione del suo vocabolario nel 1851 e la concluderà nel 1856: vedilo ora nelle due edizioni dell’editrice ILISSO: cfr. G. Spano, Vocabolariu sardu italianu e Vocabolario italiano-sardo, 4 volumi, Nuoro, 1998, in 4 volumi e l’edizione in 2 volumi, Nuoro, 2005.
[47] Lettera di V. Angius a G. Spano del 19 settembre 1843, in L. Carta, cit., pp. 335 e 337. “Io credevo che i tanti amici preti che hai ti avrebbero dato una mano; ma hai ragione, non sono persone che si danno da fare per le cose che non li toccano, come è invece il Trattato sulle decime, il raccolto e altre cose che è meglio tacere. Se io ti ricordassi le promesse di Asproni; e poi … O miserabili poltroni! Meno male che Giovanni Siotto Pintor mi aveva detto di avermi procurato notizie su Nuoro!”.
[48] Lettera di V. Angius a G. Spano del 28 settembre 1842, ivi, pp. 328-29. “Hai ragione veramente di biasimare la poltronite dei porci della nostra terra; essi se la spassano lasciando che lavori chi ha volontà e forze e tempo di lavorare. Lo so bene io, che se non me ne fossi andato in giro per la Sardegna fra mille disagi, adesso non avrei che pochi e difettosissimi materiali. Nonostante questo, insisti ancora, parla, cerca di convincerli: forse qualcuno si sveglierà da così lungo letargo. In questo periodo sto raccogliendo materiali per scrivere una storia di Arborea sul genere di quella del Logudoro, e mi rendo conto che mi manca molto, e che gli amici oristanesi se ne infischiano che sia nobilitata la loro patria ed esaltata la gloria degli arborensi. Se conosci qualche connazionale volenteroso impegnalo a darmi una mano, che sarebbe la stessa cosa che servire la patria; sprona con qualche buona parola il parroco di Paulilatino, che mi aveva fatto delle promesse”.
[49] Diamo di seguito i 42 comuni facenti parte della provincia di Nuoro: Nuoro, Lollove, Oliena; Bitti, Gorofai, Onanì, Lula, Nule, Osidda, Orune; Bono, Esporlatu, Benetutti, Bottidda, Bultei, Burgos, Illorai, Esporlatu, Bolotana; Fonni, Gavoi, Lodine, Mamoiada, Ollolai, Olzai, Orgosolo, Ovodda; Galtellì, Dorgali, Orosei, Onifai, Irgoli, Loculi; Orani, Oniferi, Orotelli, Ottana, Sarule; Posada, Siniscola, Torpé, Lodé.
[50] I 28 comuni della provincia di Sassari in ordine alfabetico, come riportati dall’Angius, sono i seguenti: Sassari, Asinara, Nurra, Banari, Bessude, Bulzi, Cargieghe, Castelsardo, Chiaramonti, Codrongianos, Florinas, Ittiri, Laerru, Martis, Muros, Nulvi, Osilo, Ossi, Perfugas, Ploaghe, Porto Torres, Sedini, Sennori, Siligo, Sorso, Tissi, Uri, Usini.
[51] Altre al Voyage del Lamarmora, ricordiano le opere, coeve al Dizionario, di A. C. P. Valery, Voyage en Corse, à l’île d’Elbe et en Sardaigne, Paris-Bruxelles, 1837-38, in due volumi, di cui il secondo dedicato alla Sardegna, traduzione italiana a cura di F. Sala, Milano, 1842; J. W. Tindale, The Island of Sardinia, 3 volumi, Londra, 1849, ora in traduzione italiana curata per le edizioni ILISSO da L. Artizzu, Nuoro, 2002, in due volumi; tra le opere di italiani ricordiamo B. Luciano, Cenni sulla Sardegna ovvero usi e costumi amministrazione industria e prodotti dell’isola, Torino, 1843; A. Bresciani, Dei costumi dell’isola di Sardegna comparati cogli antichissimi popoli orientali, Napoli, 1850, ora anche nelle edizioni ILISSO a cura di B. Caltagirone, Nuoro, 2001.
[52] La voce Logudoro, di complessive 346 pagine, fu pubblicata anche come monografia a sè con il titolo Cronografia del Logudoro dal 1294 al 1841 preceduta dalla descrizione deglo antichi dipartimenti del regno, Torino, 1842.
[53] Cfr. J. F. Farae, De chorografia Sardiniae libri duo; de rebus sardois libri quatuor, ex recensione Victorii Angius addita oratione de laudibus auctoris, Carali, 1838, 3 volumi.
[54] Cfr. P. Tola, Historiae Patriae Minumenta edita iussu regis Caroli Alberti. Codex diplomaticus Sardiniae, tomus I, Taurini, 1861; tomus II, Taurini, 1868; di quest’opera fu pubblicata una piccola parte nel 1845, interrotta alla pagina 128, poi riprodotta nel primo tomo del Codex alle pp. 1-103 ( cfr. P. Tola, Codice diplomatico di Sardegna con altri documenti storici, Torino 1845).
[55] Cfr. F. Bellit, Capitols de Cort del Stament militar de Sardenya, Caller, 1572; P. G. Arquer, Capitols de Cort, del Stament militar de Sardenya ara novament restampats y de nou añadits ab molao diligencia y curiositat reunits, Caller, 1591; I. Dexart, Capitula sive acta curiarum regni Sardiniae, sub Coronae Aragonensium imperio concordi trium Brachiorum aut solius militaris voto exorata, Calari, 1641; quest’ultima compilazione era ordinata per argomento e non cronologicamente.
[56] Nella collana Acta Curiarum Regni Sardiniae sono stati pubblicati sinora i Parlamenti del 1355, 1421-52, 1495-1511, 1553-54, 1592-1598, 1614, 1631-32, 1698-99, 1793-96.
[57] Per le complesse problematiche relative a questo clamoroso falso si veda il fondamentale volume collettaneo Le Carte d’Arborea. Falsi e falsari nella Sardegna del XIX secolo, a cura di L. Marrocu, Cagliari, 1997, in particolare il saggio di A. Mattone, Le Carte d’Arborea nella storiografia europea dell’Ottocento, ivi, pp. 25-152.
[58] A. Accardo, La nascita del mito della nazione sarda, cit., p. 75.
[59] Ivi, p. 81.
[60] Sulla Carta de Logu si veda il recente volume collettaneo La Carta de Logu d’Arborea nella storia del diritto medioevale e moderno, a cura di I. Birocchi e A. Mattone, Bari, 2004.
[61] Lettera di V. Angius a G. Spano del 19 settembre 1843, in L. Carta, Lettere di Vittorio Angius a Giovanno Spano, cit., p. 336. “In questa epopea sull’impresa storica di Eleonora si illustra tutto quanto concerne la Sardegna, e vengono presentati tutti gli usi e i costumi nostri, prendendo le mosse il poema dal castello di Monteleone, da lì proseguendo per Ardara, la Gallura, Olbia, Posada, per la regione boscosa di Montenieddu, indi facendo nuovamente tappa ad Ardara per procedere verso il Goceano, il Marghine, la Planargia, l’Oristanese e ancora nel territorio di Fordongianus, di Usellus, di Sardara, di Sanluri, del Cixerri e del Sulcis, e concludersi nei colli di Cagliari”.
[62] Lettere di V. Angius a G. Spano del 19 aprile 1844, ivi, p. 337. “Sei in attesa della mia Leonora? Abbi ancora un po’ di pazienza perché sto lavorando alla traduzione italiana. Appena la terminerò pubblicherò il programma d’associazione e poi potrai leggere il solenne pasticcio che ho fatto per celebrare l’eorina sarda e al tempo stesso rappresentare la nazione sarda in ogni suo aspetto, così che una volta completata la lettura dell’interro poema, resti ben poco da sapere sulla Sardegna”.
[63] Programma d’associazione. Leonora regina d’Arborea di Vittorio Angius opera dedicata a S. M. il re di Sardegna, Torino 10 luglio 1844, p. 2. In realtà il sovrano non accolse la richiesta di dedica fatta dall’Angius.
[64] V. Angius, Leonora d’Arborea, cit.
[65] Si veda, su questo dibattito, A. Accardo, La nascita del mito della nazione sarda, cit., pp. 92-109.
[66] Si veda su questi aspetti dell’attività dell’Angius parlamentare la monografia di B. J. Anedda, Vittorio Angius politico, cit.; relativamente al problema dei trasporti, qualche anno dopo egli si occupò con competenza del problema dei voli aerostatici: cfr. V. Angius, L’automa aerio o sviluppo della soluzione del problema sulla direzione degli aerostati, Torino, 1855; Idem, Nuovi studi sul problema aerostatico. Appendice sull’automa aerio pubblicato nel 1855, Torino, 1857. Recentemente quest’opera dell’Angius è stata ristampata nella collana “Biblioteca della Scienza Italiana” dell’editore Giunti: cfr. Vittorio Angius, Almerigo da Schio. La scienza aerostatica, a cura di Vittorio Marchis, Firenze, 1998.
[67] Cfr. Hymnu sardu nazionale “Conservet Deus su Re”, parole del prof. Vittorio Angius, Musica del maestro Gonella, senza luogo e data [ma Torino, 1844]; l’inno venne pubblicato anche da “L’Indicatore sardo”, n. 34, Cagliari, 1844.