Una politica per la cultura: le persone, i beni, le attività. Il ruolo della città, di Antonello Angioni

Intervento al seminario di formazione: “Comunità, territori e innovazione culturale” (Cagliari, 18 luglio 2019). Seminario/conferenza: presentazione del 14° Rapporto Annuale Federculture “Impresa Cultura” – giovedì 18 luglio 2019 – THotel Cagliari -

 

 

Il mio intervento è incentrato su un tema di carattere generale: “Una politica per la cultura: le persone, i beni, le attività”. Seguiranno alcune riflessioni sul ruolo della città in tale contesto. Il tema non è certo nuovo: era stato Norberto Bobbio, nel 1955, a porre il rapporto fra politica e cultura all’attenzione tanto del mondo intellettuale quanto di quello politico. Bobbio scriveva che la politica della cultura, intesa come politica degli uomini di cultura in difesa delle condizioni di esistenza e di sviluppo della cultura, si contrapponeva alla politica culturale, cioè alla pianificazione della cultura da parte dei politici (che, in quel tempo, veniva attuata, tramite i grandi partiti, in chiave ideologica). Era il tempo dell’aspra contrapposizione tra don Camillo e Peppone!

Da allora sono trascorsi oltre sessant’anni, un’era geologica se si pensa all’accelerazione impressa dalla modernità. Tuttavia, la crisi della politica (da un lato) e la latitanza degli intellettuali (dall’altro) sembrano indicare che la questione, forse archiviata frettolosamente, conserva intatto il suo interesse e merita di essere riaffrontata, in modo critico, attraverso una riflessione sulla prassi politica che porti – almeno questo, a mio avviso, dovrebbe essere il punto d’approdo – ad una rifondazione culturale e etica.

Ci sarebbe innanzitutto da chiedersi cosa rappresentano, nella società di oggi, la “politica” e la “cultura”. Ma facciamo un passo indietro. Secondo una definizione classica (che risale ad Aristotele), la politica è l’arte e la scienza del governare per il bene comune. Nella prassi, purtroppo, si è trasformata in una gestione del potere e in un sistema di privilegi (spesso scandaloso) che hanno determinato, generalmente, la separatezza degli eletti dai bisogni dei cittadini e quindi il progressivo distacco di questi ultimi dalla politica.

Se così è, ripensare la politica implica un ritorno alle radici, verso la riscoperta dell’etimologia stessa del termine che deriva dalla parola greca polis: la città, la comunità degli uomini (prima sede dove la civiltà e la cultura, nelle diverse epoche storiche, si sono espresse). La politica, dunque, intesa come strumento per assicurare una risposta globale ai problemi dell’uomo e della società.

La politica, in altri termini, deve tornare ad essere il diritto-dovere di partecipazione di tutti alla cosa pubblica, all’esercizio attivo e diffuso della cittadinanza, che impone a ciascuno di dedicare una parte del proprio tempo, sottraendolo al lavoro e alla famiglia, per contribuire alla soluzione dei problemi della comunità, attraverso forme di partecipazione attiva nell’ambito di un sistema che preveda la rotazione delle responsabilità, adeguati controlli e la possibilità di revoca degli incarichi.

Quanto al secondo termine di riferimento, la cultura, si è in presenza di un concetto di non semplice definizione e di non univoca portata. La cultura viene generalmente definita, avuto riguardo all’individuo, come l’insieme delle cognizioni intellettuali di cui è dotata una persona mentre, con riferimento ad una comunità, come l’insieme delle manifestazioni della vita materiale, spirituale e sociale di un popolo. Quindi il concetto di cultura, complessivamente inteso, ricomprende abitudini, costumi e pratiche, saperi, regole, norme e divieti, credenze e miti, idee e valori, strategie, che si perpetuano di generazione in generazione. La cultura – secondo una definizione di Gramsci – è anche «mezzo di disciplina interiore, processo formativo della propria personalità, presa di coscienza».

Già da queste definizioni, è evidente lo stretto rapporto tra cultura e società, o meglio tra organizzazione della cultura e vita sociale. E qui si innesta inevitabilmente il ruolo della politica e quindi della città come luogo della politica: città da intendere non solo come “Amministrazione” ma anche come “Comunità” (o meglio insieme di comunità: famiglia, quartiere, chiesa, scuola, impresa), come luogo in cui far sviluppare, soprattutto tra le nuove generazioni, una cultura critica.

É in questo contesto che la cultura deve prestare, con modestia, un aiuto, riempendo il vuoto creato dall’indifferenza e dalla diffidenza nei confronti della politica, avviando un processo continuo, quotidiano, che metta radici profonde. Anche perché è difficile credere all’idea di una società civile, luogo di coltivazione delle “virtù pubbliche”, contrapposta a una società politica, luogo di commercio dei “vizi privati”.

L’obiettivo, quindi, deve essere quello di costruire una politica della cultura che assuma un ruolo e un significato politico, nella direzione del miglioramento delle condizioni di vita di una comunità. Una politica che sia in grado di superare l’improvvisazione per la riflessione, l’elaborazione teorica, la progettazione e l’attuazione, cioè una politica della cultura che delinei una rivoluzione culturale e una palingenesi profonda dell’individuo e della società. Perché – e la storia ce lo insegna – ogni cambiamento sociale è sempre stato preceduto da un intenso cambiamento culturale, di idee.

Compito della cultura politica è anche quello di raccordare il vecchio al nuovo, quello che di vecchio c’è nel nuovo e quello di nuovo che c’è nel vecchio. Scindere i due versanti culturali, la tradizione e l’innovazione, infatti, costituisce sempre un errore strategico: perché la cultura è memoria e la memoria è una potenza aggregante, motivante, mobilitante, in grado di traghettarci verso il futuro.

In questa prospettiva, occorre avere la capacità – e aggiungo il coraggio – di ripensare il significato profondo dell’essere uomo, della vita, dell’amore (intendo delle diverse forme di amore) e della morte. Occorre elaborare una politica della cultura non ideologica (come sistema di valori fissi e precostituiti) ma critica, che s’interroghi davvero intorno al mondo in cui viviamo, alla sua origine e alla sua evoluzione, che si ponga domande fondamentali e cerchi risposte sull’essere e sull’esserci, sull’organizzazione della società, sulla vita e sulla morte, e individui orizzonti in tal senso. Una politica della cultura autentica, critica verso l’ideologia e tutti i fondamentalismi e i dogmatismi, tendente ad una presa di coscienza e capace di interpretare la realtà e i bisogni della società: una politica della cultura che diventi “saper vivere” e sia in grado di agire anche sull’esperienza esistenziale.

Ho parlato della città non solo come “Amministrazione” ma anche come “Comunità”. E qui si innesta il ruolo della scuola, come fattore di promozione culturale e sociale, come luogo di formazione del senso critico delle nuove generazioni e della capacità di scegliere consapevolmente, come spazio di rispetto e di ascolto degli altri. E si innesta anche il ruolo della famiglia (direi – se mi è consentito – delle “famiglie”, termine che non è il plurale di “famiglia”), come luogo fondamentale dell’educazione, come primo contesto in cui, attraverso la comunicazione dialogica, tra le persone, si manifesta la vita materiale e spirituale dell’individuo.

La città, in questo contesto, ha una grande importanza e responsabilità: è il luogo della civiltà, il punto nodale da cui le persone partono alla conquista di nuovi orizzonti. Oggi, come in ogni tempo, la città è alla base di ogni sviluppo umano e culturale, di ogni ipotesi di progresso socio-economico e di crescita civile. É per le strade e le piazze, i palazzi, le scuole e le università, le caserme, le chiese, i negozi e le industrie della città che si costruisce la società e si afferma ogni forma di civiltà. Per questo, la difesa e la conservazione della città e della sua organizzazione complessiva coincidono sempre con la difesa di un’autenticità, di una storia, e rappresenta il presupposto di ogni continuità e progresso civile.

Non c’è dubbio, infatti, che i contesti urbani costituiscano una delle forze primarie della storia dell’umanità. Scriveva Le Corbusier che «la vita della città è un avvenimento continuo che si svolge nei secoli con opere materiali, tracciati e costruzioni, che le conferiscono una propria personalità e da cui emana un po’ alla volta la sua anima». È infatti attraverso un succedersi continuo di opere materiali che la città definisce, nel corso dei secoli, la propria forma e riesce ad esprimere, un po’ alla volta, nel legame col passato, la sua anima presente.

E sulla stessa lunghezza d’onda troviamo un altro grande maestro dell’urbanistica (Lewis Mumford) che interpreta la città come una «sequenza di stratificazioni storiche contrassegnate dal succedersi delle idealità dei suoi abitanti e dal lento ma continuo sovrapporsi delle pietre che formano i suoi edifici». Ora, non vi è dubbio che l’architettura, l’urbanistica e la stessa forma della città riflettano un’ampia gamma di fatti sociali, che va dalle trasformazioni economiche impresse dai ceti emergenti alle aspettative ed ai bisogni delle classi meno abbienti, per giungere alla cultura e al pensiero che l’intera comunità, nel suo complesso, esprime.

E, in effetti, proprio l’ordito urbano, caratterizzato da una serie continua di trame edilizie e stratificazioni storiche, è in grado di offrire un quadro esaustivo – in chiave politica, economica e sociale – di quanto è avvenuto, nel corso dei secoli, tra quelle strade e in quelle case.

Anche Cagliari ovviamente non si sottrae a questa regola. La sua storia, infatti, si specchia tutta nel tessuto urbano e nelle sue progressive trasformazioni. Rivisitando i luoghi e analizzando le costruzioni, è possibile dunque tracciare la storia della città e cogliere i diversi passaggi che ne hanno segnato la formazione nell’incessante scorrere del tempo. Perché sono le pietre che parlano, che raccontano, che testimoniano del tempo e delle circostanze in cui furono squadrate, sovrapposte con malta, rese partecipi della vita civile dell’intera comunità cittadina. Quelle pietre – divenute edifici o spazi urbani grazie alla mano dell’uomo – possono, ad esempio, aiutarci a capire il difficile e talvolta non lineare cammino che ha portato Cagliari a trasformarsi da piccola città feudale e “coloniale” (residenza del conquistatore di turno) in una vera città moderna, dal taglio mercantile, produttiva, di vocazione europea e mediterranea.

É evidente quindi la necessità di salvaguardare tutta la città, non solo nelle sue componenti più alte, monumentali, frammenti di una vicenda storica, ma anche nel suo contesto ambientale, nel paesaggio complessivo che esprime. Non a caso – quanto meno dalla metà del Novecento – la moderna cultura urbanistica ha esteso il concetto di “tutela” dal singolo monumento a tutto il centro antico della città ed esige quindi di considerare «come essenziale e determinante proprio il carattere d’insieme, la stratificazione delle fasi, l’unità complessiva, la continua e composita configurazione edilizia e naturale», come è stato scritto, con grande efficacia espressiva, da Antonio Cederna e Mario Manieri Elia.

Andando a ritroso nel tempo, si ha la conferma del fatto che la città ha da sempre costituito un fenomeno associativo e culturale di notevole importanza nello sviluppo della civiltà. In particolare, nella storia d’Italia, la civitas (intesa sia come “aggregato urbano” che come “comunità di cittadini” stabiliti in un determinato territorio) ha sempre occupato un posto di primo piano al punto che, in epoca risorgimentale, Carlo Cattaneo poté auspicare la nascita del nuovo stato unitario come federazione di autonomie cittadine.

É noto che, dopo l’abbandono dei secoli barbarici, in età medioevale, si verifica il lento rifiorire delle antiche città che – scomparsi i municipia di epoca romana – sopravvivevano (anche sul piano giuridico) come entità distinte dalla campagna circostante per la presenza delle sedi vescovili. Nel contempo, soprattutto a partire dall’XI secolo, si formarono nuovi insediamenti urbani sotto l’impulso di necessità prettamente economiche, come nel caso delle città commerciali (che sorgevano intorno ai principali nodi stradali di traffico), ovvero di natura difensiva.

Quest’ultima situazione diede origine ad agglomerati di case, cinti da fortificazioni, stretti intorno ad un castello o ad un’abbazia, dove la popolazione si concentrava per soddisfare un comune bisogno di difesa contro le incursioni dall’esterno. Tali nuovi insediamenti non tardarono a diventare anche centri di produzione artigianale e di scambi e quindi ad organizzarsi in modo autonomo. Ed è tra quelle mura – sotto la spinta dei nuovi rapporti economici e sociali – che maturarono i grandi fenomeni caratteristici della fine del Medioevo, come il graduale superamento della società feudale e l’avvento dei nuovi ceti borghesi, il passaggio dall’economia terriera a quella mercantile, l’istituzione di nuove forme di democrazia e, più in generale, di esercizio del potere politico mediante sistemi di autogoverno.

In questo contesto, la città ha sempre rappresentato il luogo più avanzato di elaborazione del pensiero. E ciò è accaduto sia nei momenti di massimo splendore (pensiamo al Rinascimento) e sia nei momenti di profonda crisi. Del resto, se la città non fosse diventata, tra il XIX e il XX secolo, la megalopoli industriale e commerciale che oggi conosciamo, se non avesse avuto lo sviluppo che in tale epoca ha avuto, le filosofie dell’angoscia esistenziale e dell’alienazione avrebbero ben poco senso e non sarebbero – come invece sono – l’interpretazione di una condizione oggettiva dell’esistenza umana. Non si spiegherebbe l’esistenzialismo di Kierkegaard, di Heidegger, di Sartre, non si spiegherebbe nemmeno il materialismo marxista, non si spiegherebbero le analisi radicalmente negative di Adorno, Marcuse e tanti altri che puntano il dito su un sistema che si caratterizza per lo spreco delle risorse (si parla di “civiltà dei consumi”) e si traduce, o quanto meno si fenomenizza, nell’ambiente fisico della città, fatto di pietre, per certi aspetti oppressivo e repressivo.

Ma la città – diceva Marsilio Ficino – non è fatta solo di pietre (oggi, forse, avrebbe detto di cemento o addirittura di plastica), è fatta anche e soprattutto di uomini e quindi di idee. Perché sono gli uomini che, con le loro iniziative, ne guidano il destino. E, in fondo, sono state le città a dare impulso a tutte le evoluzioni, in ogni settore: talvolta determinando un brusco mutamento delle forme, delle strutture sociali e dei modi di organizzazione degli uomini; in altri casi attraverso un passaggio graduale, diluito nel tempo, ma non per questo meno significativo. Solo la città, infatti, è in grado di fornire le condizioni materiali per una trasformazione degli assetti esistenti.

La città è un patrimonio di persone e quindi non esprime solo la dimensione di una funzione ma rappresenta, anche e soprattutto, la dimensione dell’esistenza, che è poi ciò che definisce il livello di civiltà di un popolo. Non a caso, città e civiltà sono due parole che hanno la stessa radice. E qui risiede proprio il senso della città come luogo dove le persone vivono e producono beni (materiali e immateriali) aventi un valore culturale: persone e beni che, mutevolmente combinandosi, si traducono in attività aventi anch’esse un’indubbia valenza culturale.

In questa prospettiva, ad esempio, penso che la Città Metropolitana di Cagliari dovrà assumere sempre più un ruolo operativo in quanto rappresenta, già oggi, una porta dell’internazionalizzazione dei territori circostanti, vale a dire uno dei luoghi in cui nasce e si sviluppa – soprattutto attraverso l’Università e i centri della ricerca scientifica e tecnologica avanzata – la conoscenza, la modernità, l’innovazione e la creatività. La città del futuro dovrà essere un milieu di conoscenza (formazione, cultura, ricerca, scienza e tecnologia) integrato col mondo delle professioni e dell’impresa.

In altri termini, questa vasta area che si sviluppa intorno a Cagliari dovrà costituire il motore del progresso sociale e della crescita economica e civile di una parte significativa della Sardegna. Questa realtà – che già oggi presenta solide basi – dovrà essere un moderno contesto a vocazione internazionale, protagonista della vita politica, economica e culturale in Sardegna, nel Mediterraneo e in Europa. In tale ambito, la cultura dovrà assumere sempre più un valore centrale nella vita delle comunità locali. Alla politica – quale espressione più alta della soggettività umana nella storia – il compito di valorizzare le opportunità che provengono dai territori, anche in termini economici, nella consapevolezza che il bene culturale è un bene che produce moneta e può rappresentare il volano (o, quanto meno, uno dei volani) dello sviluppo locale.

 

Antonello Angioni

 

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