I moti angioiani della fine del Settecento in Sardegna interpretati dallo storico di Torralba Sebastiano Pola, di Luciano Carta

Rubrica: ISTORIAS DE SARDIGNA contada dae Luciano Carta. Sa prima.


1. Tra gli interpreti dei moti antifeudali della fine del Settecento in Sardegna, Sebastiani Pola, autore dell’opera I moti delle campagne di Sardegna dal 1793 al 1802, pubblicata nel 1923, occupa sicuramente un posto importante, anche se non sempre e non da tutti tale importanza è stata adeguatamente riconosciuta e il quadro da lui delineato di quella fase cruciale della storia dell’isola abbia fomentato polemiche assai accese soprattutto nel primo dopoguerra[1].

Il motivo di tale polemica, anche a prescindere dalla specificità dell’interpretazione stessa, è da ricondurre al “peccato d’origine” della storiografia sulla cosiddetta “sarda rivoluzione” del secolo XVIII. Quella storiografia è stata segnata, per così dire fin dagli albori, da un suo “peccato di origine”, l’approccio eccessivamente ideologizzato agli eventi che aveva dato luogo a due visioni contrapposte del periodo: da una parte gli storici “di destra”, che hanno denigrato quel moto dio ribellione contro le ingiustizie sociali e il reggimento politico, e, dall’altra gli storici “di sinistra” che ne hanno esaltato e amplificato il significato, individuando in quelle vicende gli albori del riscatto dell’isola dall’oppressione feudale e dal governo coloniale della dinastia sabauda[2]. Di conseguenza, il personaggio che era stato il “capo carismatico” di quei moti, il giudice della Reale Udienza e Alternos Giovanni Maria Angioy, veniva rappresentato ora come la “magagna” che ha infettato il corpo sano della società dell’epoca, il traditore della giusta causa che voleva consegnare la Sardegna alla Francia rivoluzionaria e ai suoi aberranti principi, ora come il cavaliere dell’ideale che, attraverso i “veri dell’Ottantanove”, voleva riscattare l’isola dal giogo del feudalesimo e dall’assolutismo, per avviarla sul sentiero del riscatto sociale e politico nell’alveo dei principi della “grande Rivoluzione”. Corifeo della interpretazione di parte conservatrice era Giuseppe Manno, che aveva delineato la sua visione storiografica alla Storia moderna della Sardegna nel 1842, mentre di quella progressista era Francesco Sulis, docente di diritto e a lungo deputato al Parlamento subalpino e dell’Italia unita, che aveva affidato la sua interpretazione all’agile saggio Dei moti politici dell’isola di Sardegna dal 1793 al 1821 pubblicato nel 1857[3]. Dall’Ottocento e sino al secondo dopoguerra, la storiografia è rimasta prigioniera di questa contrapposta lettura “ideologica” del “moto angioiano” e in essa si inserisce a pieno titolo l’opera del Pola, che è sicuramente da assegnare, quanto a impostazione complessiva, alla storiografia che fa capo al Manno. Diverso è lì approccio al problema degli storici del secondo dopoguerra, sebbene, chi più ci meno, risente delle due classiche impostazioni[4]

Come racconta il Pola nella parte introduttiva, I Moti delle campagne nasceva proprio come risposta ad una recente interpretazione “di sinistra” della “sarda rivoluzione” e dell’operato dell’Angioy, presente nella biografia di Francesco Sulis, l’Anti-Manno per eccellenza, scritta da Lorenzo Bertolucci e uscita nel 1904 per i tipi della Tipografia Valdès[5]. Proprio per contrastare le affermazioni del Bertolucci, secondo cui la rievocazione della “sarda rivoluzione” fatta dal Manno sarebbe «tutta una falsità indegna»[6], egli si accinse a raccogliere una nuova e meticolosa documentazione archivistica e storiografica edita ed inedita, finalizzata a far emergere l’onestà intellettuale e la veridicità sostanziale della narrazione del Manno e, per contro, a confutare l’interpretazione “rivoluzionaria” del moto angioiano dato dal Sulis e dai suoi epigoni. L’opera del Pola si inserisce dunque, sotto il profilo dell’impostazione generale, nell’alveo della storiografia che faceva capo al Manno.

Un altro motivo, più pressante, perché legato alla situazione personale e al tumultuoso primo dopo-guerra, spingeva il Pola a intraprendere la sua rivisitazione dell’epopea angioana. Attorno al 1920 Sebastiano Pola era un sacerdote quasi quarantenne, ex-combattente sul Carso e più volte decorato per meriti di guerra, che aveva aderito con entusiasmo al Movimento degli ex-combattenti, da cui sarebbe nato di lì a poco il Partito Sardo d’Azione. Quel movimento e il nuovo partito, che ponevano alla base della loro ragion d’essere un’accentuata carica di rivolta contro il disinteresse dello Stato per le esigenze delle classi più deboli della società e una robusta rivendicazione politica di autonomia regionale, avevano individuato, nelle vicende della lotta antifeudale di fine Settecento, un momento di svolta della storia della Sardegna e di forte significato patriottico. Essa costituiva una vicenda paradigmatica che ben rappresentava l’opposizione allo Stato accentrato, uno dei capisaldi della piattaforma politica di quel movimento, che aveva tra l’altro adottato come suo inno il noto poema di Francesco Ignazio Mannu, Prucurade ‘e moderare barones sa tirannia, il canto della rivoluzione sarda di fine Settecento, la cosiddetta Marsigliese sarda. Nonostante queste simpatie, derivanti dalla sua esperienza di combattente durante la Grande Guerra, il suo essere sacerdote cattolico aveva orientato il Pola verso il nascente Partito Popolare fondato da don Luigi Sturzo, per cui fu tra i promotori di questo nuovo partito di massa a Sassari[7]. Il popolarismo del Pola era però venato da una forte simpatia per il movimento sardista e per la condizione delle popolazioni rurali. Dopo l’avvento del fascismo, nel 1925, quando il generale Gandolfo, nominato prefetto di Cagliari, favorì la fusione della componente più cospicua del Partito Sardo d’Azione con il Partito Nazionale Fascista, anche il Pola, abbagliato dalla retorica del partito d’ordine e dell’uomo della Provvidenza, nutrì simpatie per il fascismo. Ben presto però, constatato che quel regime negava, con il suo programma politico e la sua azione di governo, le specificità regionali, egli non solo se ne distaccò, ma ne divenne un oppositore. Confinato per questo a Campobasso, collaborò con alcune personalità di spicco dell’antifascismo sardo.

 

2.  Nella visione del Pola, il moto antifeudale capeggiato da Giovanni Maria Angioy, se da un lato costituiva un punto fermo di riferimento che segnava l’alba del riscatto della Sardegna contemporanea, dall’altro esso non andava caricato di specifiche valenze politiche. Infatti, né le popolazioni del Logudoro durante la loro rivolta antifeudale del 1795-17906 né l’Angioy che le aveva incoraggiate e guidate, avevano avuto finalità politiche eversive e tanto meno avevano accarezzato disegni di carattere istituzionale. Si era trattato, al contrario, secondo il Pola, di moti di carattere prettamente economiche. Le popolazioni rurali del Logudoro si erano levate in rivolta esclusivamente per la fame e non per chimerici progetti di rivolgimento politico; a sua volta l’Alternos G. M. Angioy non aveva guidato quella rivolta per attuare il disegno di trasformare del reggimento politico del Regno sardo in una repubblica filo-francese, come avevano sostenuto da opposti fronti sia il Manno che il Sulis, ma semplicemente per rendere giustizia, all’interno degli ordinamenti dello Stato monarchico, alle più che legittime rivendicazioni dei vassalli, desiderosi di scrollarsi di dosso l’anacronistico sistema feudale. Tale valutazione, ovviamente, era riferita all’operato dell’Angioy durante il periodo sardo, essendo per il Pola pacifico che, durante l’esilio francese, l’Angioy avesse veramente accarezzato a lungo il disegno di una seconda descente en Sardaigne di truppe d’occupazione francesi per instaurarvi una “Repubblica sorella”. Pertanto i due momenti della biografia di Angioy andavano considerati come momenti distinti della sua azione politica e non potevano essere al alcun titolo posti in rapporto di continuità. Vi fu stata scissione netta, secondo lo storico torralbese, tra l’Angioy del periodo sardo e l’Angioy del periodo francese[8].

Per quanto l’affresco di quei moti, magistralmente disegnato da Giuseppe Manno nella Storia moderna, risulti essere il più fedele, fondato com’è su documentazione archivistica di prima mano, tuttavia, secondo Il Pola, le interpretazioni contrapposte dei moti antifeudali proprie del Manno e del Sulis e dei rispettivi epigoni nascevano su un terreno comune: il riconoscimento, cioè, della valenza sostanzialmente politica delle vicende della fine del Settecento in Sardegna. Di natura politica furono quegli avvenimenti per il Manno e per tutta a storiografia di indirizzo reazionario o conservatore, perché l’obiettivo dei suoi protagonisti era di rovesciare la monarchia piemontese per instaurare in Sardegna una Repubblica fondata sui principi dell’Ottantanove e in pratica succube della Francia, come le cosiddette “Repubbliche sorelle” del triennio rivoluzionario italiano del 1796-1799. Politici allo stesso modo furono quei moti per il Sulis perché il proposito di Angioy e degli angioiani fu appunto quello, come bene aveva visto il Manno, di trasformare la costituzione politica del Regno sardo in Repubblica. Con la differenza che quel proposito che per il Manno era negativo, deteriore, frutto di ambizione e di fellonia, scaturito dalla personalità proterva di «quella magagna dell’Angioy», era al contrario per il Sulis il lungimirante e generoso disegno di un grande patriota, Giovanni Maria Angioy, che aveva saputo interpretare i tempi nuovi e il progresso politico economico e culturale dell’Europa del secolo dei lumi, verso il quale si era proposto di guidare una lontana periferia del mondo di allora come la Sardegna.

La tesi della valenza puramente economica e non politica dei moti delle campagne costituisce l’aspetto originale e insieme il limite dell’interpretazione del Pola. Egli, infatti, partendo dal presupposto che l’aspetto veramente rilevante di questa fase della storia sarda sia la lotta contro il sistema feudale, scinde questo movimento da quello precedente del triennio rivoluzionario sardo, ossia dal moto nazionale e di unità patriottica innescato dalla vittoriosa difesa dell’isola dall’invasione francese, dalla piattaforma politica unitaria delle «cinque domande», dalla cacciata dei piemontesi e dalle lotte intestine delle opposte parti politiche dell’estate 1795. É su questo presupposto che egli fonda la sua tesi interpretativa di fondo, rendendo distinte e non complementari quelle che potremmo definire la «fase urbana» e la «fase rurale» del triennio rivoluzionario sardo. Ora, se, come gli studi recenti hanno posto in luce, la piattaforma delle «cinque domande» e quanto da essa è derivato, possiede una valenza eminentemente politica, non appare legittimo scindere da detta piattaforma il movimento delle campagne del 1795-96, perché il processo storico è un continuum e non può esservi frattura tra la prima e la seconda fase degli eventi. É in questa cesura del triennio rivoluzionario che appaiono evidenti i limiti dell’ipotesi interpretativa del Pola, sebbene essa sia di notevole originalità d’impostazione e di trattazione.

 

 

3.  L’opera del Pola, molto documentata sebbene spesso sibillina nell’indicazione e nella citazione delle fonti archivistiche e bibliografiche, nella edizione originaria del 1923 consta di due volumi; di essa è stata recentemente riproposta in unico volume una nuova edizione da parte di chi scrive per la casa editrice Ilisso[9]. Secondo la scansione cronologica e la distribuzione della materia, l’opera risulta divisa in  tre parti: la prima tratta dei moti antifeudali in Sardegna dall’estate 1795 al giugno 1796, data della fuga in terraferma dell’Angioy, con cui si chiude il primo volume; la seconda parte, con cui si pare il secondo volume, ripercorre, tra gli anni 1796 e 1800, la feroce repressione contro gli angioiani e le ultime resistente armate contro i feudatari, culminate con la rivolta dei villaggi di Thiesi e Santu Lussurgiu; la terza, infine, segue le traversie degli esuli e rievoca in modo analitico e sofferto l’estremo velleitario tentativo di sollevare la Gallura, tentato dall’ex parroco di Torralba Francesco Sanna Corda e il notaio cagliaritano Francesco Cilloco.

Interamente dedicata allo studio delle condizioni delle popolazioni rurali, in particolare di quelle del Logudoro, l’opera del Pola inizia la narrazione dall’estate 1795, periodo nel quale matura la rivolta delle campagne contro i feudatari. All’origine di quel vasto moto di ribellione, che in pochi mesi si estenderà a tutte le comunità del Logudoro, è lo scisma politico consumato soprattutto ad opera del ceto feudale di Sassari tra luglio e ottobre di quell’anno.

I moti antifeudali nelle campagne del Logudoro, che ebbero notevoli manifestazioni anche nel passato più e meno recente, fu incoraggiato e sostenuto dalle vicende politiche che interessarono l’isola, dall’uccisione di Gerolamo Pitzolo e del marchese della Planargia nel luglio 1795 alla conseguente ribellione delle autorità e dei feudatari del Capo do Sassari, che reclamarono ed ottennero dal governo di Torino di sottrarsi all’obbedienza del legittimo potere viceregio, accusato insieme agli Stamenti di attuare una politica in odore di giacobinismo e filo-francese. Per contrastare questa secessione del Capo settentrionale il viceré e gli Stamenti pensarono di sottrarre ai feudatari sassaresi la forza d’urto delle popolazioni rurali e tra agosto e ottobre 1795 emanarono diverse circolari e pregoni con cui facevano importanti aperture nell’annoso contenzioso tra feudatari e vassalli: si dava, cioè, alle ville infeudate la facoltà di discutere e sanare le vertenze relative ai diritti controversi, ossia al pagamento di quei balzelli illegittimamente esatti, in quanto non compresi negli atti d’infeudazione ed arbitrariamente inseriti dai feudatari tra le proprie competenze fiscali[10]. La sollevazione delle campagne, dunque, incoraggiata da questo esplicito atto di riconoscimento delle angherie feudali da parte del governo viceregio e da parte dei feudatari del Capo meridionale, nasceva sicuramente da una rivendicazione di carattere economico-fiscale, secondo la tesi del Pola, ma assumeva al tempo stesso una valenza politica, se non altro perché era il potere politico a proporsi come garante per dirimere le controversie dei vassalli dei singoli feudi.

Il Pola ritiene, invece, che quei moti abbiano avuto un’origine e una valenza di carattere esclusivamente economico, sebbene non neghi che essi siano stati notevolmente incoraggiati e sostenuti dal governo viceregio nella sua decisa opposizione al separatismo e all’oltranzismo dei feudatari sassaresi.

In appoggio a questa sua convinzione, lo storico di Torralba offre, nel capitolo terzo del primo volume dei Moti delle campagne, uno splendido e realistico affresco del sistema feudale nell’isola, che rappresenta una tra le più documentate descrizioni delle condizioni morali ed economiche dei vassalli di Sardegna e dei mille balzelli cui erano assoggettate le popolazioni delle campagne, appoggiandosi nella sua trattazione ai solidi studi di Enrico Besta e di Ugo Guido Mondolfo[11]. Si rivive nella lettura di questo capitolo la pregnanza e il pathos di quella strofa dell’inno contro i feudatari, che recita: Naschet su Sardu suggettu / a milli cumandamentos, / tributos, e pagamentos / chi faghet a su Segnore / in bestiamen e laore, / in dinari e in natura, / e pagat pro sa pastura, /  e pagat pro laorare[12].

Una volta ricostruito magistralmente l’affresco del sistema feudale in Sardegna, ancora vegeto e robusto in pieno secolo dei lumi, nei capitoli IV e V il Pola esamina le rivolte quasi endemiche avvenute nel passato remoto e recente, concentrando l’attenzione su quelle più vicine nel tempo, che egli descrive come rivolte delle plebi contadine contro una «classe blasonata d’oppressori», responsabili dello «stato di miseria e di abbrutimento» delle popolazioni delle campagne[13]. Tali rivolte hanno interessato nel 1793 le popolazioni dei villaggi di Sorso, Osilo, Ploaghe, Sennori, Sorso, Sedini, Nulvi, Ossi, Tissi, Usini, Ittiri e Uri, tutti del Capo settentrionale. Iniziate come atti di protesta dei vassalli contro l’esosità fiscale dei feudatari, esse si trasformarono «in veri atti di ribellione e in assalti alle proprietà»[14] e furono sempre domate con le armi. Rispetto a quelle più remote, le rivolte antifeudali del 1793 assumono, secondo il Pola, un carattere molto particolare in quanto, alla contrapposizione, fatta spesso in armi, contro gli agenti baronali, si accompagna la rivendicazione «legale» di un controllo dei diplomi di investitura, al fine di verificare, attraverso di essi, insieme la legittimità e l’estensione del numero dei balzelli. In questo modo si caratterizzò, ad esempio, la rivolta del paese di Sennori. «Nei primi di settembre 1793 – scrive il Pola – il villaggio di Sennori, a pochi chilometri da Sassari, si opponeva, armata manu ai ministri di giustizia ed agenti del barone di Sorso, di cui era feudo, impedendo loro di formare l’elenco dei vassalli cui incombeva il llaor di corte e dichiarando che niente più avrebbero pagato fino a che il feudatario non avesse fatto conoscere alla Comunità i diplomi di investitura, da cui doveva risultare quali fossero i diritti feudali»[15]. Nel 1794 altre rivolte antifeudali si verificarono nell’Oristanese, a Quartu S. Elena, Ozieri, Ittiri e Uri. Sebbene in questi moti non si possano individuare elementi di propaganda francese, per quanto qualcuno di essi sia stato capeggiato da cavalieri appartenenti alla piccola nobiltà di campagna, in qualche modo assimilabile ad una nascente borghesia locale, tuttavia essi hanno un importante significato: provano, infatti, che «il feudalesimo rappresenta la rovina economica delle Comunità»; inoltre, i periodi dell’anno in cui si manifestano – i mesi estivi in cui si procede all’esazione dei diritti feudali – e l’area circoscritta – soprattutto nei villaggi del Capo settentrionale – indicano che alla loro origine non sta un disegno politico ma un disagio puramente economico; spesso il moto di ribellione antifeudale «è provocato, più che dal sistema, dall’abuso del sistema»[16]. Una valutazione, quest’ultima, che riecheggia una delle tesi del citato inno di F. I. Mannu, il quale ipotizza che il feudalesimo sardo in origine doveva essere mite; il suo imbarbarimento sarebbe da ricondurre all’ingordigia dei feudatari, spinti anch’essi da una motivazione di carattere economico e non politico[17].

Questa valutazione viene rafforzata anche dal fatto che a denunciare gli abusi non sono solo i poveri vassalli, ma è la stessa massima autorità politica del Regno. Il viceré Balbiano, infatti, in un dispaccio al sovrano del 13 dicembre 1793, scriveva che non poteva essere «indulgente coi feudatari che autorizzavano e permettevano ingiuste vessazioni» perché egli ben conosceva «a quali abusi fossero sottoposti i vassalli e quanto le loro piaghe sanguinassero»[18]. Lo stesso sovrano Vittorio Amedeo III, impressionato dalla virulenza e dalle cause che favorivano le ribellioni delle popolazioni rurali, il 23 dicembre 1793 «emanava un decreto in cui richiamava severamente i feudatari sardi all’osservanza delle leggi antiche e delle disposizioni recenti emanate in favore dei vassalli»[19]. E il ministro Pietro Graneri, qualche settimana prima, «faceva notare al viceré Balbiano che i fatti di Sorso, Sennori, Ploaghe, Sedini ecc. erano altrettante prove nuove del bisogno di frenare in qualche modo e correggere le prepotenze dei feudatari». Preoccupato perché in genere, sebbene si riconoscesse la responsabilità del ceto feudale, tuttavia il governo viceregio reprimeva militarmente le rivolte delle popolazioni, lo stesso Graneri dubitava che l’uso della forza armata fosse il mezzo più idoneo per affrontare il problema, per cui riteneva necessario «tranquillare altrimenti l’opinione dei popoli che, non senza qualche ragione, gridavano contro l’oppressione e gli aggravi[20]. Non è pertanto corretto per il Pola, quando si vogliano correttamente interpretare i moti delle campagne di Sardegna, ricondurli, come ha fatto il Sulis, a motivazioni di carattere politico-ideologico che si richiamino alla Rivoluzione francese.

 

 

4. Non è possibile, in questa sede, ripercorrere analiticamente l’appassionata descrizione dei moti antifeudali, di cui il Pola offre una ricognizione puntuale su tutto il territorio dell’isola, fondamentale per comprendere la portata e la maturità assunta dai moti del 1793-95. Nonostante il carattere puramente economico che il Pola ha voluto attribuirgli, occorre riconoscere che per qualità e quantità essi poggiavano su una consolidata e precisa base rivendicativa.

Nell’autunno 1795 i moti delle campagne non solo furono incoraggiati dai citati provvedimenti viceregi a partire dalla circolare del 10 agosto e dalle aperture dei feudatari del Capo meridionale, ma furono ulteriormente fomentati dalla incessante propaganda antifeudale fatta da soggetti politicizzati attraverso violenti libelli anonimi, come L’Achille della Sarda Liberazione e il Sardo patrizio, divulgati nelle campagne dai rappresentanti della piccola nobiltà feudale, da avvocati e  notai e da numerosi rappresentanti del basso clero, che furono spesso nei villaggi logudoresi punto di riferimento e guida delle popolazioni (si pensi, ad esempio, ai parroci di Bonorva, Torralba e Florinas, e a tutto il clero della «villa antifeudale» di Thiesi)[21]. Nello stesso autunno 1795 venne con buona probabilità verisimiglianza composto anche il noto inno antifeudale di Francesco Ignazio Mannu, Procurade ‘e moderare barones sa tiranìa, che divenne il vero manifesto politico dei contadini e dei pastori sardi, inno che nei contenuti e nella forma si prestava mirabilmente a rappresentare ed esprimere il contenzioso sociale ed economico tra vassalli e feudatari prima della svolta radicale dei moti nel dicembre 1795.

É in questo quadro di un moto di ribellione variegato e maturo che si inserisce il documento più rivoluzionario, pur nella sua parvenza di «legalità», prodotto dal movimento delle campagne del Logudoro nell’autunno 1795: il cosiddetto Atto di sottomissione e soggezione giurato davanti al notaio Francesco Sotgiu dai Consigli comunicativi del feudo di Montemaggiore, appartenente al tristemente noto feudatario Antonio Manca duca dell’Asinara. In esso non si parla più di diritti controversi e di sanatoria degli abusi, ma si rivendica perentoriamente la pura e semplice abolizione del sistema feudale tramite riscatto oneroso da parte delle comunità di Thiesi, Bessude e Cheremule. «Le suddette ville- si legge nell’atto notarile – hanno unanimemente risoluto, e giurato di non riconoscere più alcun Feudatario, e quindi ricorrere prontamente a chi spetta per esser redente pagando al tal effetto quel tanto, che da’ Superiori sarà creduto giusto, e ragionevole»[22]. Si tratta, come riconosce il Pola, di un «atto in sé rivoluzionario, in quanto richiede l’abolizione d’un corpo economico-giuridico esistente»[23], che non si propone alcun rovesciamento politico delle istituzioni monarchiche. Propugna una «rivoluzione legale», dunque, da realizzare alla luce del sole, senza che venga minimamente minacciato o intaccato l’ordinamento statuale esistente. Il feudalesimo, ramo posticcio delle tradizioni della Sardegna introdotto dagli Aragonesi quando ormai esso tramontava in tutta Europa, è come un corpo estraneo che va asportato dall’organismo della società sarda, ma senza ricorrere a rivolgimenti traumatici, attraverso una civile transazione tra feudatari e vassalli. É come se le comunità di villaggio volessero sanare quell’atto violento di usurpazione fatto dai feudatari aragonesi, esse che, prima di quell’improvvido innesto fatto dai dominatori, erano, come scrive il poeta, padrone dei pochi villaggi e del loro territorio: Meda innanti de sos Feudos / existiana sas Biddas, / e issas fini pobiddas de saltos e bidattones, / comente a bois Barones / sa cosa anzena est passada? / Cuddu chi bos l’hat donada / no bos la podiat dare[24].

Nonostante questo vizio originario del sistema feudale, le comunità di villaggio sono disposte a riscattare i loro feudi pur di allontanare la piaga del feudalesimo! Si tratta di effettuare una transazione di carattere squisitamente economico. Da ciò discende, ancora una volta, la conclusione del Pola, che attribuisce al movimento antifeudale, anche nell’ipotesi più estrema, un carattere prettamente economico-sociale e non politico. «Il movimento, dunque, è d’indole puramente economica, e, se vogliamo, sociale, in quanto ogni assetto sociale  poggia su una particolate base economica; il vero fattore politico, rappresentato da tutte le libertà che la rivoluzione francese aveva predicato, invece, non comparisce affatto»[25]. Furono i giacobini Cilloco e Mundula che, nel corso del mese di dicembre 1795, tentarono di colorare quei moti di carattere economico in moti politici; ma in realtà i principi della Rivoluzione francese «tra il popolo sardo non attecchivano»[26].

 

5. É noto che  alla fine di dicembre 1795 le popolazioni rurali logudoresi, guidate da Francesco Cilloco nella veste di Commissario incaricato di far applicare nelle Curie baronali del Capo settentrionale le disposizioni viceregie emanate nei mesi precedenti, e dall’avvocato sassarese Gioacchino Mundula, noto propugnatore delle idee della Rivoluzione francese, conquistarono Sassari, cittadella della reazione, facendo fuggire i feudatari, imprigionando il governatore Santuccio e l’arcivescovo Della Torre e affidando il governo della città ai loro proseliti. Anche in occasione di questo fatto clamoroso, argomenta il Pola, l’esercito contadino seguì il Cilloco e il Mundula non perché fosse stato conquistato alle idee repubblicane, ma semplicemente perché, soprattutto il Cilloco, rappresentava la legalità, violata dalla Reale Governazione e dai feudatari. Non a caso i due capi di quella memorabile impresa, come narrano nella loro relazione al viceré e agli Stamenti, interrogati dopo la resa di Sassari dai due delegati del governatore Santuccio, il giudice Fois e l’avvocato Cascara, incaricati di trattare la resa, sulla ragione per cui avessero mosso contro Sassari con tanta forza di armati, essi «risposero esser Commissari del viceré ed esser venuti in tale qualità a ristabilire a Sassari l’ordine turbato dai faziosi (i Baroni) che avevan cercato di sottrarre la città alla legittima dipendenza della capitale»[27]. I vassalli – anche quelli che tentarono il saccheggio del palazzo del duca dell’Asinara – erano pertanto convinti di agire entro una cornice di legalità. «Il moto – scrive il Pola – …  assumeva un aspetto economico-politico, inquadrato, almeno in apparenza, in una cornice di legalità. I vassalli si erano mossi contro i baroni perché non volevano più pagare i tributi feudali; i baroni erano divenuti i nemici del viceré ed i vassalli, conseguentemente, combattevano per il viceré; era una rivolta armata opposta ad una rivolta senz’armi; era la prova generale, che, per apparente ordine viceregio, si faceva della prossima rivoluzione»[28].

Ma gli intenti del Cilloco e del Mundula, che secondo il Pola strumentalizzavano a fini politici la miseria delle popolazioni rurali, non erano gli stessi del cosiddetto partito dei democratici cagliaritano, i quali, presa coscienza degli esiti radicali del moto antifeudale scatenato dalle timide aperture stamentarie e viceregie, abbandonarono il capo più prestigioso di quel partito, il giudice G. M. Angioy, e iniziarono a tessere la trama per allontanarlo da Cagliari con la prestigiosa dignità di Alternos incaricato di riportare la calma nel Logudoro. E ciò avvenne perché, riflette il Pola, il cosiddetto partito democratico cagliaritano «più che una fisionomia politica in senso democratico-repubblicano, ha una fisionomia di partito locale plasmato d’interessi personali»[29]. Questo giudizio del Pola è solo in parte condivisibile. É vero che per i vari avvocati Cabras e Pintor, Guiso e Musso, per il canonico Sisternes, il giudice Tiragallo ecc., la rivoluzione sarda non poteva andare oltre la piattaforma politica delle «cinque domande» e quella sorta di maquillage politico-economico che auspicava il risanamento degli abusi feudali, non la fine del feudalesimo. Troppo forti erano i legami del ceto avvocatesco con l’amministrazione dei beni dei numerosi feudatari residenti nell’isola e all’estero perché potessero accettare un esito così radicale. E poiché l’Angioy era un convinto fautore non dell’aggiustamento del sistema feudale, ma della sua completa abolizione, sebbene egli propugnasse ciò entro i confini della legalità e del reggimento monarchico, i suoi ex amici gli ammannirono ponti d’oro pur di allontanarlo da Cagliari. Il Pola accoglie, dunque, integralmente la tesi, la cui paternità è stata rivendicata dal canonico Sisternes[30] ed è generalmente condivisa dagli storici, secondo cui l’Angioy fu insignito della dignità di Alternos del Capo settentrionale al fine di allontanarlo da Cagliari, indebolirne il ruolo in seno al governo viceregio e agli Stamenti e disorientare i molti suoi sostenitori della capitale.

Occorre però rendere avvisato il lettore che, se in molti punti le tesi del Pola sono condivisibili, vi è un aspetto, che sottende tutta la narrazione del Moti della campagne, che difficilmente può essere condiviso: il voler ricondurre a motivi di carattere economico, o più generalmente non politico, tutto il triennio rivoluzionario sardo. Non si comprende perché, ad esempio, non possa assurgere a dignità “politica”, ma semplicemente venga vista come il risultato di lotte personali o di fazione, la grande primavera d’idee delle riunioni stamentarie del 1793, da cui scaturì la piattaforma delle «cinque domande», che la più recente storiografia ha riconosciuto come squisitamente “politica” in quanto contiene una decisa rivendicazione di autonomia e manifesta un sincero anelito riformatore. Da un chiaro progetto politico ancora una volta di autonomia e di opposizione al centralismo e al colonialismo piemontese prende le mosse anche cacciata dei piemontesi del 1794 nonché la rivendicazione, insita nelle cruente vicende dell’estate del 1795, del rispetto della «leggi fondamentali del Regno», da cui ha origine la contesa tra contrapposti ed aurorali partiti politici, che avrà come esito due assassinii, dettati da diverse visioni politiche. Non  si possono infine catalogare come non politici, ma semplicemente dettati dalla fame, i moti delle campagne, in cui si coglie chiaramente una sincera aspirazione di riforma sociale e di giustizia fiscale. Quelle che abbiamo brevemente delineato – ma numerose altre se ne potrebbero enumerare – sono tutte vicende che meritano interamente la dignità di azioni politiche, non potendosi condividere con il Pola la concezione  che siano politiche esclusivamente quelle azioni finalizzate a cambiare la forma istituzionale di uno Stato. Questo a noi pare il limite più evidente dei Moti delle campagne, sebbene l’opera resti una tra le più significative della storiografia angioiana, soprattutto se si considera il periodo in cui è stata redatta, i primi decenni del Novecento.

Sincero ammiratore della figura e dell’opera dell’Angioy, che per il movimento sardista  della fine dell’Ottocento e del primo dopoguerra rappresentava il simbolo per eccellenza della rivolta dei diritti della Sardegna contro lo Stato accentratore e dei valori dell’autonomia e della piccola patria regionale, il Pola ne traccia un profilo di uomo illuminato, sincero riformista, acuto interprete delle profonde mutazioni della società del suo tempo, rispettoso della legalità e leale nei confronti della monarchia sabauda e dell’istituto monarchico, almeno durante tutto il periodo in cui egli operò in Sardegna e resse le sorti del Capo settentrionale da febbraio a giugno 1796. Non risponde al vero quanto hanno affermato, da posizioni contrapposte, il Manno e il Sulis, che l’Angioy abbia a lungo dissimulato l’obiettivo del proprio impegno politico e istituzionale e abbia, ad un certo punto, «deposto la maschera» di ligio funzionario devoto alla monarchia, per instaurare in Sardegna una repubblica filo-francese.

 

Non c’era bisogno d’esser un banditore dei principi dell’Ottantanove – osserva il Pola – per capire che il principio di ogni male stava nel sistema feudale, divenuto, ormai, non più mezzo di governo e di amministrazione civile, ma fonte di entrate patrimoniali per gli uni e di miseria e di dolore per gli altri. Era naturale, quindi, che se l’Angioy era, in cuor suo, un repubblicano, si sentisse spinto, naturalmente, ad aprirsi, me se non lo era, dovesse sentire orrore, nella sua onestà, di quello stato di cose. Che si sia mascherato non ci risulta, mentre si spiega benissimo che egli dicesse a coloro, che lo accostavano come fosse necessario porre la scure alle radici della pianta, distruggendo il sistema feudale[31].

É per sua convinzione che il Pola rivaluta integralmente il governo angioiano del Logudoro e accoglie pienamente la tesi, sostenuta da Enrico Costa in un saggio del 1908, sul presunto tentativo dell’Angioy di occupare la piazzaforte di Alghero per farne un caposaldo sicuro in vista di una guerra da muovere contro il governo viceregio. Il disegno di Angioy di abbattere il sistema feudale fu attuato attraverso lo strumento legale di quell’atto giurato inizialmente dai villaggi del feudo di Montemaggiore il 24 novembre 1795, che proponeva l’eversione feudale tramite il riscatto a titolo oneroso delle competenze dei feudatari. Tale giuramento, che a partire dal marzo 1796 sarà denominato Atto di unione e di concordia delle ville desiderose  di scrollarsi di dosso il feudalesimo, costituirà l’atto politico per eccellenza che l’Angioy chiederà di stipulare ai Consigli comunitativi di tutti i villaggi infeudati del Logudoro[32]. Solo quando esso sarà accolto da gran parte del territorio del Capo settentrionale, egli deciderà la marcia verso Cagliari, il 2 giugno 1796. Marcia dell’Angioy che non poteva essere, pertanto, una sedizione militare in qualche modo legata alle vicende politico-militari di Terraferma tra la monarchia sabauda e l’esercito vittorioso della Francia repubblicana guidato da Napoleone Bonaparte; era semplicemente una grande manifestazione legale della determinazione delle campagne, rappresentate dalla emergente piccola borghesia rurale, di superare il sistema feudale. «L’Angioy, quindi, uscendo da Sassari, non doveva avere un programma fisso che in questo: far di tutto per indurre il governo di Cagliari a procedere al riscatto dei feudi: a tal uopo una dimostrazione armata sarebbe stata efficace, e questa si poteva tentare tenendosi dentro i limiti della legalità. Per l’altro egli dové affidarsi alla fortuna»[33].

L’epilogo della presunta marcia armata di Angioy contro Cagliari è noto. I suoi ex compagni nella battaglia autonomistica e antiassolutistica del precedente triennio ne decretarono la rovina politica e personale, perché l’abbattimento del sistema feudale, come si è accennato sopra, non faceva parte del loro orizzonte politico e dei loro interessi personali e di ceto. Su richiesta degli Stamenti il viceré depose dalla carica di Alternos il giudice di Bono e fu posta una taglia sul suo capo. Angioy riuscì a stento a sfuggire alla cattura riparando a Genova e Livorno. Iniziava in quel tragico giugno 1796, che aveva segnato la fine del sogno riformatore delle plebi contadine e dei più illuminati patrioti sardi, l’esilio dell’Angioy e la lunga notte della restaurazione e della repressione per la Sardegna. Riformatore convinto e preveggente, G. M. Angioy aveva solo auspicato «l’abolizione di un sistema tributario, divenuto ormai insopportabile, non tanto per intrinseco difetto, quanto per la malizia degli uomini … E dire che 36 anni dopo re Carlo Alberto aboliva il sistema feudale senza che, perciò, il mondo cascasse, e senza che patria, religione e trono avessero a subirne il menomo dispiacere!»[34].

Con la fuga dell’Angioy si chiude il primo volume dei Moti delle campagne di Sardegna. Ricapitolando il significato di essi, il Pola ribadisce la sua convinzione profonda: tutti gli storici, in primo luogo il Manno e il Sulis, hanno travisato il senso e la portata di quei moti e dell’azione dell’Angioy. Fu un rivoluzionario e un democratico l’Angioy? Per il Pola non fu né l’uno né l’altro. Angioy fu un generoso, una di quelle figure che in tempi normali rimangono nell’ombra e che per circostanze particolari, «in tempi di profondi rivolgimenti, assurgono a grande importanza» e assumono su di sé  compiti che vanno al di là delle loro capacità e inclinazioni; egli fu sostiene il Pola, con un chiaro riferimento all’avvento del fascismo[35], una sorta di uomo della Provvidenza, «uno di quegli uomini i quali, nella storia d’Italia, in ogni tempo, e forse anche nelle circostanze attuali, sono improvvisamente balzati dall’ombra, operando a seconda delle circostanze»[36], privi però di criteri strategici e dell’abilità politica necessaria per trasformare una rivolta spontanea in un movimento politico organizzato. Le incertezze dimostrate dall’Angioy nella marcia verso Cagliari alla testa di una turba informe di sostenitori, sorretta solo dalla rabbia contro i feudatari ma del tutto disorganizzata e priva di un obiettivo politico di ampio respiro, pencolante tra la fedeltà alla monarchia sabauda e agli ordinamenti del Regno sardo e la vaga aspirazione  a un intervento della Francia rivoluzionaria, ormai divenuta alleata del re sabaudo, «dimostra all’evidenza come egli non avesse un piano stabilito e come la marcia [verso Cagliari] fosse uno sconsiderato colpo di testa, di cui l’Angioy non aveva saputo calcolare tutte le conseguenze»[37].

 

6. Abbiamo detto che il secondo volume dei moti delle campagne si divide in due parti:  l’una in cui viene narrata la feroce persecuzione dei tribunali speciali contro i seguaci dell’Angioy e le ribellioni delle campagne, fino a quelle particolarmente tragiche di Thiesi e di Santu Lussurgiu nell’ottobre 1800, l’altra interamente dedicata a delineare l’ultimo tentativo di sollevazione antifeudale e antimonarchica in Gallura, guidato nel giugno 1802 dall’ex parroco di Torralba Francesco Sanna Corda e dall’antico condottiero della conquista di Sassari Francesco Cilloco.

Essendo finalizzato questo contributo e delineare in sintesi il quadro interpretativo offerto dal Pola della fine del Settecento sardo, non ci soffermeremo sulle particolarità degli eventi narrati, dovendosi anche il periodo del quadriennio 1796-1800, cui è, dedicata a la Parte seconda dell’opera, nei canoni interpretativi sin qui esposti circa il carattere economico e non politico dei di quei moti. Solo alle vicende narrate nella Parte terza dell’opera, interamente dedicata al tentativo effettuato, a metà giugno 1802, dai fuorusciti angioiani Francesco Sanna Corda e Francesco Cilloco di sollevare la Gallura, dopo aver occupato manu militari, con un esiguo drappello di uomini, le torri costiere di Longonsardo (oggi S. Teresa di Gallura), di Vignola e dell’Isola Rossa, il Pola attribuiva dignità e valenza politica. Solo quel velleitario tentativo dei due giacobini sardi era espressamente mirato ad instaurare in Sardegna la Repubblica. E per la loro ardita impresa i due giacobini, nonostante la visione politica sostanzialmente conservatrice professata dallo storico di Torralba, vengono da lui considerati alla stregua di eroi ante litteram della lotta per il riscatto della Sardegna. Soprattutto nella descrizione dell’estremo sacrifico del concittadino me ex parroco di Torralba Francesco Sanna Corda Francesco Sanna Corda, egli trova accenti epici e di sincera e profonda ammirazione. Nella valutazione del Pola, infatti, la disperata impresa del Sanna Corda era dettata da un grande ardore ed entusiasmo patriottico, essendosi egli «arrischiato quasi solo, povero cavaliere errante delle nuove idee, ad abbattere la monarchia sabauda, non vedendo i pericoli»[38]. E se il suo entusiasmo e la sua dabbenaggine comportarono la rovina del parroco di Torralba, egli dimostrò grande coraggio e sublime sprezzo della propria vita, cadendo per il suo ideale politico e religioso di giustizia e di eguaglianza, «come un eroe omerico», affrontando da solo, «con l’arme in pugno … 75 armati, cercando la morte»[39]. Era il 19 giugno 1802. «E mi pare – conclude lo storico torralbese – che uomini di questa fede, quali esse siano le idee che li animano, meritino sempre rispetto e ammirazione»[40].

L’opera del Pola è stata variamente giudicata. Tra gli storici contemporanei, soprattutto soprattutto Carlino Sole e Lorenzo Del Piano, nelle loro ricostruzioni degli avvenimenti di fine Settecento, hanno ampiamente utilizzato me condiviso la sua ipotesi interpretativa dei moti antifeudali. Ma è ancor più significativo che Girolamo Sotgiu, storico che ha scritto pagine imperiture sul Settecento e sui moti antifeudali, sicuramente non vicino per mentalità e formazione allo storico e sacerdote di Torralba, nel momento in cui si accingeva, poco prima della morte, a riconsiderare tutto il periodo storico per redigere l’introduzione alla pubblicazione degli atti stamentari, così si esprimesse: «Debbo dire che nel riprendere la riflessione sulle vicende  di quegli anni, stimolato in questo dalla ricognizione per la pubblicazione degli atti stamentari oltre che dagli studi che si sono succeduti dopo la mia ricognizione, senza sottovalutare il fallimento dell’impresa francese come momento d’avvio di processi trasformatori, partirei ora, proprio per una maggiore comprensione di quegli eventi, dai movimenti contadini degli anni Ottanta, e, per dirlo in termini più chiari, dai momenti più alti della crisi della società feudale. Certamente questa crisi va vista nel contesto generale della società sarda, sulla quale la politica di razionalizzazione e modernizzazione dello Stato del Bogino determinarono la rottura di un sistema ormai impossibilitato a crescere. Ma a imprimere il senso della rottura sono in modo preminente i moti delle campagne, così egregiamente, a suo tempo, studiati da Sebastiano Pola»[41].

Un riconoscimento importante, qualora ve ne fosse la necessità, dell’importanza e della validità ancora oggi dell’opera di Sebastiano Pola.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


[1] Cfr. S. Pola, I moti delle campagne di Sardegna dal 1793 al 1802, Sassari, Stamperia della L.I.S., 1923, 2 voll. Per le polemiche sollevate dall’opera del Pola, si vedano soprattutto A. Boi, Giommaria Angioi alla luce di nuovi documenti, Sassari, L.I.S., 1925 e D. Filia, Cause sociali dei moti sardi del 1793-1802, in «Studi Sassaresi», s. II, vol. IV, 1925, pp. 1-38.

[2] All’origine della lettura in negativo della “sarda rivoluzione” sta l’anonima Storia de’ torbidi occorsi nel regno di Sardegna dal 1792 in poi, pubblicata per la prima volta da chi scrive (Cagliari, EdiSar, 1994). Le tesi dell’anonimo settecentesco, noto a Giuseppe Manno, sono state da lui riprese e sviluppate con grande talento letterario e sicuro giudizio di storico: cfr. G. Manno, Storia moderna della Sardegna dal 1773 al 1799, Torino, Favale, 1842, 2 tomi. Di quest’ultima opera sono state curate recentemente due nuove edizioni: cfr. G. Manno, Storia moderna della Sardegna dall’anno 1773 al 1799, a cura di Giuseppe Serri, Cagliari, Sardegna Nuova Editrice, 1972; G. Manno, Storia moderna della Sardegna dal 1773 al 1799, a cura di Antonello Mattone, revisione bibliografica di Tiziana Olivari, Nuoro, Ilisso, 1998. Si sono mossi sulla falsariga del Manno, oltre al Pola, Vittorio Angius, Pasquale Tola, Pietro Martini, Silvio Lippi, Damiano Filia.

[3] Cfr. All’origine della cosiddetta storiografia “di sinistra” sta l’opera di Francesco Sulis, Dei moti politici dell’isola di Sardegna dal 1793 al 1802. Narrazioni storiche, Torino, Tip. Nazionale G. Biancardi, 1857; sulla scia del Sulis sono da inquadrare i contributi Enrico Costa, Raffa Garzia e Antonio Boi

[4] La storiografia sul periodo angioiano dell’ultimo trentennio è assai cospicua. Ricordiamo le opere più importanti, cui si rimanda per una più completa bibliografia: L. Del Piano, Osservazioni e note sulla storiografia angioiana, in «Studi Sardi», vol. XVIII, 1959-60; Idem, Giacobini e massoni in Sardegna fra Settecento e Ottocento, Sassari, Chiarella, 1982; C. Sole, La Sardegna sabauda nel Settecento, Chiarella, Sassari, 1984; G. Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda, Laterza, Roma-Bari, 1984; I. Birocchi, La carta autonomistica della Sardegna tra antico e moderno. Le “leggi fondamentali” nel triennio rivoluzionario (1793-96), Giappichelli, Torino, 1992; G. Ricuperati, Il Settecento, in P. Merlin, G. Rosso, G. Symcox, G. Ricuperati, Il Piemonte sabaudo. Stato e territori in Età moderna, vol. VIII della Storia d’Italia diretta da G. Galasso, U.T.E.T., Torino, 1994; T. Orrù, M Ferrai Cocco Ortu, Dalla guerra all’autogoverno. La Sardegna nel 1793-94: dalla difesa armata contro i francesi alla cacciata dei piemontesi, Condaghes, Cagliari, 1996; F. Francioni, Per una storia segreta della Sardegna fra Settecento e Ottocento, Condaghes, Cagliari, 1996; Idem, Vespro sardo. Dagli esordi della dominazione piemontese all’insurrezione del 28 aprile 1794, Condaghes, Cagliari, 2001; L’attività degli Stamenti nella “Sarda Rivoluzione”, a cura di L. Carta, vol 24° della collana “Acta Curiarum Regni Sardiniae” edita dal Consiglio Regionale della Sardegna, tomi I-IV, EDI.COS, Cagliari, 2000; L. Carta, La “Sarda Rivoluzione”. Studi e ricerche sulla crisi politica della Sardegna tra Settecento e Ottocento, Condaghes, Cagliari, 2001; Parabola di una rivoluzione. Giovanni Maria Angioy tra Sardegna e Piemonte, a cura di A. Lo Faso, prefazione di A. Accardo, saggio introduttivo di L. Carta, Cagliari, Aìsara, 2008; infine il volume di A. Mattone, P. Sanna, Settecento sardo e cultura europea. Lumi, società, istituzioni nella crisi dell’Antico Regime, Milano, Franco Angeli, 2007, che contiene una raccolta di saggi di fondamentale importanza sul periodo.

[5] Cfr. L. Bartolucci, Memorie di Francesco Sulis e della Sardegna al suo tempo, Cagliari, Valdès, 1904.

[6] Ivi, p. XV.

[7] Per la biografia del Pola, nato a Torralba il 29 giugno 1882 e morto a Sassari il 18 marzo 1959, si vedano: R. Bonu, Scrittori sardi nati nel secolo XIX con notizie storiche e letterarie dell’epoca, vol. II, Sassari, Gallizzi, 1961, pp. 881-84; S. Pola junior, La vita e gli scritti di Sebastiano Pola di Torralba educatore e storico, in «Bollettino bibliografico e rassegna archivistica e di studi storici della Sardegna», nuova serie, anno V (1988), fasc. 10, pp. 62-75.

[8] Si veda in proposito L. Carta, Una nuova raccolta documentaria sulla «sarda rivoluzione»: appunti e riflessioni per una più compiuta interpretazione del periodo 1793-1798, in Parabola di una rivoluzione, cit., XIII-LXXXVIII.

[9] Cfr. S. Pola, I moti delle campagne di Sardegna dal 1793 al 1802, a cura di L. Carta, Nuoro, Ilisso, 2009. A questa edizione si riferiscono le indicazioni di pagina presenti in questo contributo.

[10] Cfr. Circolare si Sua Eccellenza il signor viceré marchese don Filippo Vivalda, Cagliari 10 agosto 1795, Cagliari, nella Stamperia Reale;  Pregone di S. E. il signor viceré marchese don Filippo Vivalda a sale unite in spiegazione della Circolare de’ 10 scaduto agosto in data primo settembre 1795, Cagliari, nella Reale Stamperia; Circolare dei tre Stamenti, Cagliari 19 settembre 1795, nella Reale Stamperia, 1795; Circolare dei feudatari e Procuratori generali, Cagliari 25 settembre 1795, nella Reale Stamperia, 1795; Circolare de’ tre Stamenti del Regno di Sardegna diretta a tutti i regnicoli, Cagliari 3 ottobre 1795, nella Reale Stamperia, 1795.

[11] Cfr. S. Pola, I moti delle campagne di Sardegna, cit., pp. 117-140.

[12] Ogni Sardo fin dalla nascita è sottoposto a mille balzelli, contribuzioni obbligatorie che è costretto a corrispondere al signore feudale sotto forma di bestiame e di frumento, in denaro e in natura; paga per il pascolo, come paga per la semina e per il raccolto (F. I. Mannu, Su patriota sardu a sos feudatarios, a cura di L. Carta, cit., p. 127, strofa 8).

[13] Cfr. S. Pola, I moti delle campagne, cit., p. 141.

[14] Ibidem.

[15] Ivi, 147.

[16] Ivi p. 150.

[17] Si legge nella strofa N. 11 del citato inno antifeudale: Sas tassas in su principiu / exigiazis limitadas, dae pustis sunt andadas / ogni die aumentende / a misura chi creschende / sezis andados in fastu / a misura ch’in su gastu / lassezis s’economia (Nei primi tempi esigevate le tasse con misura; poi sono andate aumentando di giorno in giorno, di pari passo al vostro crescere nel lusso, al vostro lasciar andare l’economia in rovina).

[18] S. Pola, I moti delle campagne, cit., p. 150.

[19] Ivi, p. 151.

[20] Ibidem.

[21] Cfr. G. Palmas, Thiesi villa antifeudale, Cagliari, Editrice sarda Fossataro, 1974.

[22] Atto di sottomissione e soggezione per ogni accidente giuratto, e sottoscritto da’ Consigli comunicativi, raddoppiatti, cavalieri, ed altri de’ rispettivi villaggi di Tiesi, Bessude, e Cheremule, in favore di Sua Eccellenza e Reale Udienza dominante in Cagliari, Tiesi 24 novembre 1795, pubblicato in appendice al saggio di L. Berlinguer, Alcuni documenti sul moto antifeudale sardo del 1795-96, in La Sardegna nel Risorgimento. Antologia di saggi storici, a cura del Comitato Sardo per il Centenario dell’Unità, Sassari, Gallizzi, 1962, pp. 123-24.

[23] S. Pola, I moti delle campagne, cit., p. 176.

[24] I paesi esistevano ben prima dei feudi ed essi erano padroni assoluti dei salti e delle vidazzoni: com’è che la proprietà altrui è passata a voi baroni? Chiunque sia che ve l’ha regalata, non ve la poteva dare (F. I. Mannu, Su patriota sardu a sos feudatarios, cit., strofa 9, p. 18.). La vidazzone era costituita dai terreni destinati alla seminagione; il salto comprendeva invece i terreni boscosi in prevalenza adibiti al pascolo.

[25] S. Pola, I moti delle campagne, p. 177.

[26] Ibidem.

[27] Ivi, p. 186.

[28] Ivi, p. 195.

[29] Ivi, p. 198.

[30] Cfr. P. M. Sisternes, Umilissima confidenziale rassegnata dall’infrascritto alla Reale Maestà di Maria Teresa d’Austria Este Regina di Sardegna, in B. Bruno, Un’importante documentazione di storia sarda dal 1792 al 1814, in «Archivio Storico Sardo», vol. XXI, fasc. 1° e 2°, N. s., anno II, Cagliari, 1938.

[31] S. Pola, I moti delle campagne, cit., p. 208. I corsivi sono del Pola.

[32] Cfr. Atto di unione e concordia giurato e sottoscritto dai Consigli communitativi raddoppiati, cavalieri, ecclesiastici, principali delle tre infrascritte ville di Tiesi, Cheremule e Bessude, componenti il dipartimento di Monte Maggiore, Tiesi 27 marzo 1796, in L. Berlinguer, Alcuni documenti sul moto antifeudale sardo del 1795-96, cit., pp. 128-31.

[33] S. Pola, I moti delle campagne, cit., p. 230.

[34] Ivi, p. 238.

[35] Per il riferimento al fascismo si veda soprattutto l’ultimo capitolo del secondo volume del Pola, Conclusioni e raffronti. I moti sardi del XVIII secolo e il movimento sardista del sec. XX, pp. 400-415.

[36] Ivi, p. 264.

[37] Ibidem.

[38] Ivi, p. 389.

[39] Ivi, p. 390.

[40] Ibidem.

[41] L’attività degli Stamenti nella “Sarda Rivoluzione”, a cura di L. Carta, vol. I, Cagliari, Consiglio Regionale della Sardegna, cit., Presentazione, p. 10.

 

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