IL POTENTE E IL BANDITO, L’ALLEANZA FATALE

Il quotidiano sassarese ha rievocato una delle vicende che impressionarono i Sardi dell’immediato secondo dopoguerra: lì’agguato e l’assassini  del cavaiiere Vincenzo Arangino, di Aritzo e di suo figlio Antonello, la famiglia più ricca della Sardegna, si diceva.

Il “castello” degli Arangino ad Aritzo.

Il pomeriggio del 15 gennaio del 1950 faceva freddo. La notte prima un vento pungente aveva seminato di neve i boschi di castagni e di noccioli addormentati. Ma poi, all’alba, quel vento si era improvvisamente portato via le nubi grigie e tristi, lasciando un cielo terso e luminoso. Era domenica. Ma per il cavalier Vincenzo Arangino, uno dei più ricchi proprietari terrieri della Sardegna, forse il più ricco, era un giorno come tutti gli altri. Per lui la domenica era infatti il giorno dedicato a fare i conti con il signor Tore di Tonara, suo uomo di fiducia nella gestione delle centinaia di ettari che Arangino possedeva a Monte e Susu. Ma forse sarebbe più giusto dire che tutto il monte era suo.

Alle cinque, incombe la sera. Il cavaliere decide di tornare a casa, ad Aritzo. Con lui c’è il suo unico figlio Antonello. Ventotto anni, avvocato come il padre, anche se i due non hanno mai esercitato la professione. È proprio Antonello che si mette alla guida dell’auto. All’ultimo momento danno un passaggio a due giovani: Tonino Pili e l’impiegato delle poste Bruno Marcheselli.

La macchina degli Arangino procede lentamente lungo la strada tortuosa che si incunea nel bosco. Dopo sei chilometri, all’uscita di uno stretto tornante, si trovano davanti quattro uomini con i moschetti spianati. Hanno il volto coperto da rozzi cappucci di panno bianco che li fanno sembrare degli spaventapasseri. Vincenzo Arangino si accorge che c’è un quinto uomo appollaiato su una roccia. Capisce immediatamente che è lui il capo.

Pili e Marcheselli escono subito dall’auto con le mani alzate. Sono terrorizzati. Antonello Arangino, invece, è riluttante. Grida, insulta, ma alla fine, davanti alle canne dei fucili puntate contro di lui, esce.

Don Vincenzo invece no. Sta seduto nell’auto. Forse ha già capito che quella non è una rapina e cerca di rimandare il suo appuntamento con la morte. Ma quegli ‘spaventapasseri’ non hanno rispetto per la sua età e per il suo ruolo di uomo potente. ”Istuppa!” (esci) grida con tono minaccioso l’uomo sulla roccia.

E don Vincenzo si arrende. Scende lentamente dall’auto e si mette a fianco del figlio. Pili e Marcheselli sono costretti a voltarsi e ad allontanarsi di qualche metro. Antonello, che fino a quel momento non aveva smesso di parlare, cerca addirittura di aggredire uno dei banditi. “Cosa volete, cosa volete?” urla.

Il vecchio Arangino lo ferma. “Lascia Antonello!” dice piano, con voce rassegnata. Come dire: è tutto inutile. Perché lui sa, ha già capito che quella non è una rapina, ma è un’esecuzione. E infatti l’uomo sulla roccia ordina secco: “Ispara!”. Antonello Arangino, colpito da una moschettata all’occhio, cade a terra con un gemito. La voce del capo dei banditi ferisce ancora il silenzio immobile della valle: “Commo s’atteru!” (adesso l’altro). Pochi secondi in cui il tempo sembra fermarsi e poi l’urlo rabbioso dei fucili annuncia l’esecuzione di una sentenza senza appello, dopo un processo che non c’è mai stato.

Il cavalier Vincenzo cade a terra, a fianco al suo unico figlio. Lo crivellano di colpi, dopo averlo condannato a un ultimo momento di infinito dolore: vedere il sangue del suo Antonello e sentirne il respiro corto che insegue disperatamente la vita che fugge.

In quella domenica gelida di gennaio la potente stirpe degli Arangino si estingue. Poi i banditi ordinano a Pili e Marcheselli di andare via. Ma piano, senza correre. E loro obbediscono, come due automi. Sempre con le mani alzate. Ma superato il tornante, cominciano a correre, terrorizzati, fino a quando non sentono il loro respiro spezzarsi.

Quando i carabinieri arrivano sul luogo dell’eccidio, Vincenzo Arangino è morto. Antonello, invece, agonizza e il motore dell’auto, nonostante una fucilata dei banditi al radiatore, continua a brontolare come una sfinita nenia di morte.

L’ipotesi della rapina viene subito archiviata. Secondo la testimonianza di Pili e Marcheselli, infatti, i banditi non hanno chiesto nulla. Non hanno frugato sui corpi dei due morti: tra la maglietta e la camicia del vecchio Arangino, sarà trovato l’indomani un grosso brillante. E allora? Allora l’unica pista possibile è quella della vendetta.

Le prime dichiarazioni rilasciate dalla questura di Cagliari ipotizzano già un colpevole: “Le tracce degli assassini sono state seguite per trenta chilometri e si perdono in direzione di Orgosolo”.

Il nome non viene fatto esplicitamente, ma è evidente che, quando si parla di Orgosolo, è impossibile non pensare al terribile Giovanni Battista Liandru. Un bandito temutissimo che, in quei giorni di gennaio del 1950, il giornalista e fotografo Federico Patellani così descrive: ”Nome dolcissimo nell’antichità, perché chi lo portava era il mitico eroe che per amore attraversò a nuoto per nove sere di fila l’Ellesponto, oggi in Sardegna Leandro vuol dire ferocia e terrore”.

La notizia della strage provocò un’emozione enorme. Scosse perfino i lontani palazzi della politica a Cagliari e a Roma.

Perché Vincenzo Arangino aveva da sempre solidi legami con il potere. Era stato podestà di Aritzo durante il fascismo e faceva parte del Direttorio federale di Nuoro del Pnf.

Alla fine della guerra si era prontamente riciclato, entrando nella Democrazia cristiana. E poi quell’uomo, temuto e non amato dalla sua gente, era il più ricco latifondista della Sardegna. Di più: l’ultimo feudatario.

Una condizione sociale che volle affermare platealmente quando ricostruì la sua casa nel 1917 in Corso Umberto I. Ne fece un palazzotto in stile neogotico, realizzato in scisto e decorato con ferro battuto, con tanto di torre e mura merlate. Ad Aritzo tutti lo chiamavano ‘Il castello’.

Vincenzo Arangino era un uomo ricchissimo. Possedeva quasi ottomila ettari di terreno: boschi e pascoli immensi, valutati allora due miliardi e mezzo di lire. Era l’eredità lasciatagli dal padre Antonio che, alla fine dell’Ottocento, approfittando dell’esosità del fisco sabaudo che aveva mandato in rovina ampi strati della popolazione, aveva comprato migliaia di ettari per poche lire.

Il Cavaliere aveva poi accresciuto il proprio patrimonio con le ‘neviere’, le miniere della neve. Negli stretti canaloni di Funtana Cungiada, Genna ‘e Crobu e Sa Serra la neve veniva coperta con paglia e felci per essere preservata e poi venduta in tutta l’isola, per la conservazione degli alimenti nella stagione estiva. La neve, come il sale, era monopolio dello Stato e il suo commercio veniva ceduto in concessione dalla Corona Sabauda. Per oltre mezzo secolo la concessione fu rilasciata a una società composta da quattro ‘printzipales’ di Aritzo: Giovassanto Fancello, Giovanni Maria Vargiu, Michele Vincenzo Devilla e, appunto, Vincenzo Arangino.

Il cavaliere era un uomo duro e spietato. Dal padre aveva ereditato la prepotenza e le sottili arti della diplomazia. Aveva infatti tessuto una fitta tela di rapporti con la nobiltà, la politica e l’industria di Cagliari e Sassari. Nel suo cupo palazzotto di Corso Umberto I ospitava per la villeggiatura estiva i potenti di tutta l’isola. Conoscenze e amicizie che poi lui sfruttava per accumulare ricchezze. Nel 1929 ospitò addirittura il principe Umberto di Savoia e la principessa Maria Josè.

Ma Vincenzo Arangino nella sua Aritzo non era amato. Si mormorava che prestasse denaro a usura e che si fosse impossessato dell’intero Monte e Susu recintandolo e cacciando via un gruppo di piccoli proprietari terrieri.

In paese poi nessuno aveva dimenticato come avesse portato via 40 maiali a un porcaro di Fonni, un tale Cualbu, dopo una dura battaglia giudiziaria. Ad Aritzo infatti si diceva: “Ci sono due giustizie: una per i ricchi e una per i poveri”.

Don Vincenzo sapeva di avere molti nemici e si sentiva in pericolo. Ricevette anche alcune minacce di morte che lo inquietarono molto. Per questo cercò un contatto con uno dei più carismatici fuorilegge del tempo, il ‘bandito poeta’ di Fonni Bachisio Falconi. Condannato a 30 anni di carcere con l’accusa di avere ucciso il carabiniere di Thiesi Giuseppe Ferrandu a Sa Itria, evase nel 1943 dalla colonia penale di Tramariglio, vicino ad Alghero, e tornò sulle montagne della Barbagia. La sua banda era la più temuta insieme a quella dell’orgolese Liandru.

Il signore di Aritzo inviò così un uomo di fiducia a Fonni. L’uomo parlò con la moglie di Bachis, Anna Murrocu, riferendole la richiesta di Arangino. L’incontro tra il bandito e il signore di Aritzo avvenne una settimana dopo, nelle campagne tra Desulo e Fonni.

Arangino raccontò a Falconi lo scontro che si era creato tra lui e alcuni signorotti locali, che miravano ad impossessarsi delle sue ricchezze e del suo potere. Gli riferì anche delle minacce di morte che aveva ricevuto. Il cavaliere chiese insomma al bandito di intervenire per fermare i suoi nemici. In cambio, don Vincenzo promise che avrebbe esercitato tutta la sua influenza per ottenere la revisione del processo di Sa Itria.

Bachisio Falconi accettò e mantenne fede alla parola data: in poco tempo, risolse il problema, facendo valere tutto il suo cupo carisma di fuorilegge. I signorotti, spaventati, fecero un passo indietro e promisero che non avrebbero più interferito negli affari della famiglia Arangino.

Cessarono di colpo anche le minacce di morte.

Tra i due nacque un rapporto di amicizia.

Il bandito, diventato una sorta di protettore del feudatario, cominciò a frequentare la casa degli Arangino, dove veniva ospitato per giorni insieme alla moglie Anna.

A un certo punto, don Vincenzo offrì a Bachis un’alternativa alla dura vita del latitante, in attesa della riapertura del processo che avrebbe dovuto dimostrare la sua innocenza nei fatti di Sa Itria. Gli propose di emigrare in un paese lontano, in Argentina. Fu perfino organizzata la fuga in ogni dettaglio: Falconi sarebbe dovuto partire da Aritzo con un elicottero che l’avrebbe trasportato direttamente fino all’aeroporto di Roma. Qui, con documenti falsi, avrebbe preso il volo per Buenos Aires. La moglie e i figli l’avrebbero raggiunto in un secondo momento.

Tutto sarebbe stato possibile grazie alle conoscenze e alle risorse di Arangino. Il bandito rifiutò.

Forse i due non ne erano consapevoli, ma il loro sodalizio impossibile aveva legato strettamente le loro vite e i loro destini. Il feudatario e il pastore, l’uomo di potere e il bandito: erano due mondi antitetici tenuti insieme dal cemento della necessità. Tutti e due avevano infatti bisogno l’uno dell’altro. Uno per conservare il proprio potere, l’altro per coltivare una speranza di redenzione. Ma sicuramente temevano che la caduta dell’uno avrebbe significato ineluttabilmente la caduta dell’altro.

E infatti fu così.

La sera del 4 dicembre 1949 si conclusero l’epopea e la vita di Bachisio Falconi. Nel comunicato stampa redatto dalle forze dell’ordine si legge che “in regione Canìo, in territorio di Fonni, alcuni militari dell’arma dei carabinieri hanno sostenuto un violento conflitto a fuoco durato circa mezz’ora con tre malviventi, uno dei quali rimaneva ucciso e identificato per il pericolosissimo bandito Bachis Falconi fu Giovanni di anni 43 da Fonni”.

Ma tutti sapevano che le cose non erano andate così.

Il nuovo maresciallo dei carabinieri di Fonni, Angelo Manca, era consapevole che per catturare Falconi non sarebbe bastato un esercito e che l’unico modo per mettere fine alla latitanza del ‘bandito poeta’ era quello di recidere i legami con coloro che lo coprivano. Primi fra tutti alcuni possidenti che acquistavano le mandrie e le greggi che Bachis rubava.

Manca quindi convocò in caserma questi possidenti e brutalmente disse loro:”Siete complici di un latitante, se non interrompete i vostri affari con Falconi, vi mando al confino». Il gruppo di signorotti, invece di abbandonare il bandito al proprio destino, decise di ucciderlo. Sentivano che era diventato troppo ingombrante, troppo pericoloso per i loro affari.

Ma il maresciallo Manca, che era un galantuomo, venne a sapere da un confidente il complotto dei possidenti. Chiese allora un incontro a Falconi. Solo loro due, faccia a faccia.

E il bandito accettò. “Presentati in caserma – disse il carabiniere in quel colloquio notturno in aperta campagna – e io ti salvo la vita, perché non immagini cosa sta per accadere!”. E qui il bandito commise un atto di presunzione. Rifiutò l’offerta del maresciallo, perché si sentiva protetto dalle sue amicizie importanti.

Fu trovato il sicario, un tale Porcu, che era stato processato per un duplice omicidio avvenuto a Sassari. Porcu conquistò prima la fiducia del bandito e una notte, dopo una cena in una casa di Fonni, uccise Falconi con un colpo di pistola alla nuca, intascando così la taglia di un milione e duecentomila lire. Poi, la messinscena del conflitto a fuoco con i carabinieri.

Poco più di un mese dopo, il 15 gennaio 1950, Vincenzo Arangino e il figlio muoiono nell’agguato di Tonara: la caduta del bandito aveva dunque trascinato il feudatario all’inferno.

Ma chi aveva ucciso il signore di Aritzo? Per gli investigatori del tempo, dopo la morte di Falconi, l’altro grande bandito della Barbagia, Liandru, si sarebbe presentato dal cavaliere e gli avrebbe offerto la sua protezione in cambio di una consistente somma di denaro.

Il rifiuto di Arangino avrebbe provocato la violenta reazione del latitante orgolese. Ma questo teorema non è stato mai provato.

In quei primi mesi del 1950 cominciarono a circolare voci che si diffondevano come una nebbia insinuante e velenosa. Secondo una di queste, Arangino avrebbe rotto con Falconi e contribuito alla sua uccisione, subendo poi la vendetta della sua banda. Secondo un’altra, gli uomini di Bachis avrebbero chiesto un tributo al feudatario, sostituendosi al loro capo. Il rifiuto sarebbe stato la ragione della strage. C’è infine un fronte investigativo che non è mai stato esplorato abbastanza.

Ed è quello che porta ai signorotti nemici di Don Vincenzo, quelli tenuti a bada da Falconi. Senza la protezione del latitante di Fonni, potrebbero aver infatti portato a termine il loro progetto di morte. Sta di fatto che nessuno verificò nelle mani di chi era finita l’immensa fortuna del ‘signore di Aritzo’.

Da  LA NUOVA SARDEGNA, 18 LUGLIO 2019

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