Rifiuti, mobilità, innovazione: Roma è una città ferma (e senza sogni), di Goffredo Buccini

Economia, trasporti, rifiuti: in due dossier tutti i mali della Capitale. Che nella capacità di attrarre imprese e denaro è superata anche da Istanbul. E dove solo il 28% dei suoi cittadini in età lavorativa ha conseguito una laurea. Ma il futuro non è ancora scritto.

 

Cent’anni dopo, la «nonna di Joyce» rischia di restare sola, giù nel seminterrato della storia. In una città buia e senza trasporti, fagocitata da buche e immondizia, insidiata da gabbiani feroci e cinghiali temerari, senza soldi né visione, suona più che mai beffarda l’antica invettiva del grande irlandese contro i romani che campano sulle glorie del passato, «mostrando ai viaggiatori il cadavere della nonna in cantina». Arrivarci, oggi, in cantina.

Con le più centrali stazioni della sua metropolitana chiuse per mesi senza una ragione plausibile agli occhi del mondo, persino Stoccolma e Copenaghen scavalcano sul mercato turistico una Roma che sta trasfigurando la grande bellezza dei suoi tesori millenari in grande amarezza quotidiana: quella che, malmostosa, accompagna ogni mattina i romani «prigionieri senza diritti di cittadinanza», pendolari disperati in una metropoli slabbrata e condannata a battere in Europa soltanto Atene sui tassi di crescita del Pil.

Quel mugugno da bus che non arriva, quell’improperio da posto di lavoro fuori portata trovano adesso un perché in due studi sistematici in possesso del Corriere, due ricerche imparziali che fotografano la vita agra della capitale d’Italia e spiegano il paradosso di una leadership rovesciata: la maglia nera tra le grandi città proprio a quella che, in fondo, le ha tutte ispirate con la sua grandezza. Non solo dunque il morbo delle periferie, con le bombe sociali del quadrante sud-est come Casal Bruciato, Torre Maura o Tor Sapienza, ma i vicoli del centro storico degradati, i quartieri residenziali in declino e, infine, la paralisi che avviluppa e isola tre milioni di residenti in un unico, angoscioso Caso Roma. Eppure il futuro si gioca su questi tavoli. Entro 30 anni, secondo l’Onu, l’87% della vita si svolgerà nei centri urbani. Uno stratega della geopolitica come l’indiano Parag Khanna immagina la «rinascita delle città-stato» quale soluzione ai problemi di dimensione dell’autorità e della rappresentanza. Le città competeranno sempre più in attrattività, parola chiave del domani «che si traduce non soltanto in più beni e servizi ma anche in più richiamo di risorse umane e finanziarie, sviluppo più equilibrato del territorio, migliori condizioni di vita»: tutto questo spiega il Cresme, nel suo rapporto «Roma 2040 per una nuova civitas».

Il centro studi romano ha così misurato la competitività della capitale d’Italia nel contesto europeo, su un ventaglio di 274 aree metropolitane e su uno più ristretto di 44 città con più di un milione e mezzo di abitanti, basandosi su sei parametri, uno generale (diciamo riassuntivo) e cinque specifici: capacità innovativa, turismo, mercato abitativo, demografia, sviluppo economico. Il risultato, pur prevedibile, è sconcertante: Roma è quasi sempre in coda alle graduatorie, vecchia, immiserita, senza inventiva. E persino dove fa ovviamente eccezione, come nel turismo, non svetta, è solo decima su 44, guardata dall’alto da Barcellona e Madrid, Parigi e Londra ma anche dalle grandi città scandinave. Nella classifica generale di competitività, guidata da una Londra ovviamente pre-Brexit e poi da Monaco e Stoccolma, Roma è 34 esima sulle 44 maggiori (10 gradini sotto Milano, che si conferma nostra sola area metropolitana in grado di gareggiare, sia pure con qualche fatica, nel continente).

«Roma non è banale, è straordinaria», dice Amedeo Schiattarella, presidente laziale dell’Inarch, l’istituto nazionale di architettura committente del Cresme: «E quindi si è sempre assegnata un compito nel mondo, da capitale del cristianesimo a capitale universale della cultura. Poi s’è persa la capacità di sognare». Testimone privilegiato di mezzo secolo di progetti, cantonate e miraggi della politica capitolina, Schiattarella traccia un confine: «Argan, Petroselli e Rutelli avevano l’ambizione di recuperare una dimensione di capitale internazionale; anche Veltroni ha continuato a inseguire il sogno e, benché nel secondo mandato avesse perso un po’ di continuità, ci sentivamo città del mondo. Poi, una sorta di… realismo politico, che ormai contraddistingue le nostre attività, ha portato gli amministratori a concentrarsi più su problemi spiccioli che sul senso della città nella storia». E però non vuole buttarla in politica l’architetto, sarebbe facile ma controproducente anche per la ricerca del Cresme: «Partendo da questi dati, cerchiamo soluzioni insieme. Vogliamo un confronto super partes che discenda dal grande amore per Roma». Ed è onesto ammettere che il limite dei dieci anni a ritroso, pur sanzionando i sindaci più controversi della storia recente (Raggi, Marino e Alemanno) non spiega certo un gap che tocca progetti, infrastrutture, rapporti normativi col governo centrale, bilanci allegri; come vedremo, inoltre, lo scollamento tra evoluzione urbana e trasporto pubblico, fonte di tanti guai, risale a oltre mezzo secolo fa. Non bastano tre capri espiatori a spiegare il disastro nazionale di una capitale fallita. Per il presidente dei costruttori, Nicolò Rebecchini, c’è un problema di governance: «Dagli inizi del 2000 a oggi, i contributi statali a Roma sono diminuiti del 75%. Così non si ripartirà mai».

Se la capacità di innovazione è la porta d’accesso del millennio appena iniziato, Roma insomma non ha ancora trovato la serratura. E’ quart’ultima sulle 44 città maggiori (ma preceduta da Milano di appena sei posizioni, a dimostrare come questo ritardo sia purtroppo un denominatore comune italiano). La classifica generale è corretta in meglio da due voci, il turismo e le potenzialità del mercato immobiliare (i prezzi, crollati nell’ultimo decennio, ne fanno possibile terra di espansione anche per molte società che dovessero lasciare Londra dopo la Brexit e la collocano al 64 esimo posto quanto a opportunità di mercato). Nonostante ciò, Roma è 168 esima sul campione totale delle 274 città, assai al di sotto della linea mediana europea, tirata giù da economia e demografia, oltre che dall’allergia al nuovo. La città avrà presto i capelli sempre più grigi: su uno scenario trentennale l’indice di crescita è negativo, con un meno 6,1 per cento, e Roma è 199 esima su 274, «una delle realtà meno brillanti dal punto di vista demografico». L’economia è la vera croce. Certo non solo romana ma nazionale. E tuttavia la capitale rappresenta in pieno la drammaticità del quadro italiano in Europa. Nella crescita del prodotto interno lordo è penultima sulle 44 big (solo Atene sta peggio) e 264 esima sul campione più largo delle 274, con tassi pesanti di (non) sviluppo tra il 2012 e il 2016. Alta la disoccupazione (al 40% quella giovanile), Roma è 222 esima su 274. Solo il 28 per cento dei romani in età lavorativa ha una laurea (la città è 231 esima) ed è questo forse il fardello più gravoso per le chance di innovazione. Lo sguardo del Cresme si allarga ancora e lo studio dà anche conto di indici mondiali e di classifiche in cui talvolta Roma neppure compare: valga per tutti il Gpci (Global power city index) che, elaborato a Tokio, valuta le prime 44 città del mondo secondo il loro grado di magnetismo, ovvero capacità di attrarre persone, danaro e imprese: la capitale è assente in una classifica dove la prima italiana è Milano, 31 esima, e che vede in testa Londra (sempre pre-Brexit, ovviamente) poi New York, Tokio, Parigi. A misurare la retrocessione basta la classifica più ristretta delle 16 città europee di questo indice, da cui pure Roma è esclusa: tiene dentro Milano in terzultima piazza e si conclude con… Istanbul, evidentemente più giovane, mobile e magnetica.

Il Cresme prova anche a suggerire qualche ricetta e identifica sei aree di intervento: igiene e decoro, rifiuti, manutenzioni, visione strategica, processo decisionale amministrativo, mobilità. «Basterebbe incidere su un paio di questi punti e la città ripartirebbe: sono convinto che per Roma possa aprirsi un’età felice se solo lo vogliamo», sostiene con un certo ottimismo Lorenzo Bellicini, direttore del Cresme e regista di questo studio. Sembrano due le infezioni da curare più in fretta. La brutta farsa dei rifiuti affossa ciclicamente Roma sui media internazionali, attirandole scherno globale: la città è ultima tra le 28 capitali europee nella gestione della spazzatura e non riesce a chiudere il ciclo di smaltimento, continuando ad aggrapparsi a un irrealistico obiettivo di raccolta differenziata. Da un punto di vista di immagine è il danno più grave, Virginia Raggi ci ha perso la faccia. Ma è la mobilità impossibile l’handicap più insidioso, perché di più lungo periodo e di più profondo effetto: sequestra sogni e bisogni di un’intera comunità e rallenta il settore turistico, scoraggiando persino i visitatori più motivati. E qui, se Roma è collocata dal Cresme a un tredicesimo posto sul ventaglio ristretto delle 44 città, il raffronto per lei più devastante viene dal secondo studio che anticipiamo sul Corriere, frutto di cinque anni di ricerca sui trasporti: un dossier che la pone in comparazione con le metropoli europee sue omologhe e descrive gli effetti di esclusione sociale derivanti da un ritardo forse incolmabile.

Si chiama «Roma in movimento» (con un ossimoro irridente e probabilmente involontario) il volume del dipartimento di Architettura e Progetto della Sapienza che, firmato dai professori Lucina Caravaggi e Orazio Carpenzano, è in uscita per Quodlibet. Mentre l’Onu stabilisce tra gli obiettivi del millennio di implementare trasporti pubblici sicuri e sostenibili entro il 2030, la capitale d’Italia è il fanalino di coda quanto a infrastrutture ferroviarie e metropolitane. Roma conta 3 linee di metro e 73 stazioni per complessivi 59 chilometri. Londra 12 linee, 422 stazioni, 433 chilometri. Parigi 16 linee, 302 stazioni, 219 chilometri. Berlino 25 linee, 306 stazioni, 402 chilometri. Una distanza siderale. L’Italia postunitaria e persino l’Italia fascista avevano accompagnato lo sviluppo urbanistico con quello delle infrastrutture su rotaia. Il divorzio avviene nel secondo dopoguerra con il «sacco» della città e la sbornia per l’auto, lo iato s’allarga negli anni Sessanta e Settanta per farsi poi assai profondo dalla metà degli anni Novanta a oggi, con la crescita disorganizzata dei quartieri popolari attorno e oltre il Raccordo e la chiusura delle tramvie a vantaggio dell’asfalto. Una tendenza pericolosa per il tessuto urbano, come dimostra l’incrocio dei dati sulla criticità idrogeologica: i nubifragi dell’autunno 2017 e 2018 che hanno messo Roma in ginocchio dicono che la città costruita negli anni ‘50 è meno sicura di quella storica (suoli impermeabilizzati ed edifici sovradimensionati nei grandi piani di edilizia economica e popolare stravolgono i sistemi di drenaggio). Ma i trasporti impossibili hanno soprattutto una grave ricaduta sociale, perché revocano in dubbio il diritto di cittadinanza dei romani: specie di alcuni. Il tempo medio di percorrenza con un mezzo pubblico va dai 18 ai 30 minuti in centro ma può impennarsi tra i 69 e gli 80 minuti andando verso Pomezia a sud o verso la Romanina a est. Il seme della rivolta sta su un bus, il Raccordo è la trincea della rabbia. Lucina Caravaggi spiega che «i nuovi prigionieri urbani sono i soggetti più fragili e privi di un mezzo di spostamento, esclusi dalle opportunità della città… in particolare anziani, malati cronici, donne, bambini, oltre a coloro che non possono permettersi i costi dell’auto».

Le cause? «Il vuoto di progetti porta alla mancanza di fondi e viceversa. Con un’aggravante: dopo vari episodi di malgoverno s’è diffusa l’idea sbagliata di una città non migliorabile e ognuno ha teso a farsi una nicchia». Parole diverse ma analisi coincidenti con quelle di Schiattarella: sogno smarrito, visione perduta. I professori della Sapienza pensano che una rete di pontili leggeri possa ricucire un giorno quartieri strappati e riconnettere cittadini imprigionati, magari dando nuova vita alla «cura del ferro» che Rutelli tentò da sindaco. Funzioni o meno, il bello dei pontili sta soprattutto nel loro messaggio simbolico. Bauman credeva ci potessimo salvare solo prendendoci per mano, in quanto esseri umani. I pontili sono in fondo lunghe mani che s’intrecciano dentro la città, a rammendare anche lo strappo tra chi governa e chi è governato, tra chi ha e chi non ha: che sarà pure finanziario o urbanistico, sociale o antropologico ma, a Roma più che altrove, è soprattutto emotivo e sentimentale.

Il corriere della sera, 30 giugno 2019

 

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