Tra le balie romane c’era la tata. Ma era un maschio, di Livia Capponi.
La nutrice, nutrix, o la mamma, letteralmente «mammella», era una figura molto comune a Roma, tanto che i Romani di età storica ricordavano i nomi della balia di Romolo, Acca, e di quella di Enea, Caieta, da cui prende il nome la città di Gaeta. Presso le famiglie più agiate, ma non solo, la cura dei neonati e dei bambini nella primissima infanzia veniva demandata alle nutrici, quasi tutte di estrazione servile. Perché il fenomeno avesse dimensioni così estese è discusso. Il tema è oggetto della mostra Maternità e allattamento nell’Italia antica, aperta al Museo nazionale etrusco di Villa Giulia a Roma fino al 2 giugno, dove sono state esposte le testimonianze archeologiche dall’Italia etrusca e romana sulle figure che affiancavano la madre nel periodo dal concepimento al raggiungimento dell’età adulta del figlio.
Nel Dialogo sugli oratori, Tacito criticava l’abitudine di affidare i bambini appena nati a una schiava prezzolata, spesso scelta a caso e senza particolari qualità, come un sintomo della decadenza morale dei suoi tempi, mentre sosteneva che presso alcuni popoli barbari, come i Germani, i neonati fossero tutti allevati dalle madri.
Nel suo trattato di ginecologia, Sorano di Efeso (II secolo dopo Cristo) giustificava l’impiego di una balia nel caso che questa fosse più sana e robusta rispetto alla madre naturale, o se avesse latte più abbondante.
Secondo gli studi più recenti, l’uso delle balie non dipendeva tanto, o soltanto, dallo status elevato delle matrone che non volevano piegarsi al duro lavoro di crescere un bambino, ma poteva essere una strategia per contrastare l’elevata mortalità infantile e ridurre i rischi emotivi legati alla probabile perdita del neonato.
Erano affidati a balie, infatti, anche i piccoli schiavi, evidentemente per garantire la loro sopravvivenza nell’interesse economico del padrone. Oltretutto, accadeva spesso, e in tutti gli strati sociali, che le donne morissero di parto. Nel II secolo d.C., il medico Galeno raccomandava, in caso di malattia della puerpera, di chiamare subito una nutrice che allattasse il piccolo e lo accudisse per i primi tre anni, fino al completo svezzamento.
I papiri egiziani ci conservano con immediatezza i contratti di baliatico di epoca romana. In questi testi la nutrice giura di accudire il bambino in casa propria, dietro un pagamento mensile in denaro e la fornitura di alimenti e vestiti: «Prometto di allattare il bambino e di restituirlo svezzato al termine pattuito; durante l’allattamento prometto di non giacere con nessun uomo e di non rimanere incinta per non rovinare il latte; se il neonato morirà, ne prenderò un altro sino a fine contratto, ecc.». I papiri parlano anche di trovatelli abbandonati nelle discariche e poi raccolti da ricchi signori che li affi davano a una balia per farne degli schiavi. I nomi eloquenti spesso li marchiavano a vita come esposti.
Affidare i bambini a schiave per farli allattare era comune tra le antiche matrone. Non perché fossero anaffettive, ma per non legarsi troppo a neonati che spesso morivano in fasce. Talvolta le nutrici erano affiancate da uomini incaricati di badare ai piccoli. Una mostra a Roma esplora la maternità nell’Italia antica
Nell’Italia romana, ma anche nelle province, la nutrice si occupava del bambino non solo appena nato, ma anche successivamente; suo dovere era accudirlo e fornirgli la prima educazione e, nel caso di ragazze, custodirle fino al matrimonio. Le iscrizioni funerarie, ma anche la commedia o il romanzo antico, mostrano che spesso i bambini stabilivano con la nutrice legami di affetto profondo e duraturo.
In altri casi, però, i medici denunciavano l’incapacità di alcune di queste donne. Sorano raccomandava di scegliere una nutrice che dimostrasse attenzione verso il bambino, notando che molte «lasciano il neonato da solo o perfino cadono su di esso in modo pericoloso… trascurano il neonato quando piange e non hanno cura di sistemare la sua posizione quando dorme». Nel suo trattato sulla formazione dell’oratore, Quintiliano (I secolo d.C.), convinto dell’importanza dei primi anni di vita nella crescita cognitiva e morale dell’individuo, si augurava che la nutrice avesse una buona dizione e che potesse essere un modello per chi avrebbe dovuto imparare a parlare da lei. Le nutrici erano tradizionalmente associate all’arte di raccontare storie: per anni erano loro a cullare e a mettere a letto i bambini.
La cura dei figli nel mondo romano non era però appannaggio esclusivo delle donne. Il pastore Faustolo era il nutricius di Romolo e Remo, e le epigrafi funerarie, pur nella loro laconicità, fanno emergere la presenza in tutti i ceti sociali di un folto gruppo di nutritori, educatori e pedagoghi maschi, per lo più di condizione servile, a cui erano affidati non solo bambini ma anche bambine; addirittura un’iscrizione definisce un certo Mussio Crisonico nutritor lactaneus, bambinaio di lattanti. Il termine maschile tata, tratto dal linguaggio infantile, indicava appunto l’uomo che affiancava la nutrice nella primissima infanzia. Nelle epigrafi funerarie spesso tata e mamma compaiono in coppia, insieme ai genitori biologici, a piangere bambini scomparsi prematuramente, oppure sono commemorati dai ragazzi ormai cresciuti.
Forse la diffusione degli educatori era dovuta alla maggiore libertà dei maschi: avevano il compito di accompagnare i ragazzi in occasioni pubbliche anche al di fuori dalle mura domestiche e li difendevano da eventuali molestie.
Nella fase successiva, la custodia, l’intrattenimento e la formazione dei bambini spettavano invece al pedagogo e alla pedagoga, tradizionalmente di origine greca. Nella famiglia romana, dunque, il bambino cresceva a stretto contatto con varie figure, non necessariamente parenti, che collaboravano alla sua cura e da cui era profondamente influenzato. In una favola di Fedro, un agnello confida a un cane di essere più affezionato alla nutrice che alla madre; la favola conclude che «è la bontà, non la necessità, a fare i genitori».
Si è molto discusso se l’uso così esteso di nutrici, educatori e pedagoghi fosse un sintomo di indifferenza dei Romani nei confronti dei figli. Probabilmente esisteva un vasto spettro di atteggiamenti. Se da una parte è plausibile che in una società schiavista fosse normale delegare la cura e l’educazione dei bambini ai domestici, oggi si tende a ritenere che la famiglia romana non fosse anaffettiva come un tempo si credeva. Le reazioni accorate di molti scrittori, da Cicerone a Quintiliano a Frontone, di fronte alla morte dei figli mostrano l’esistenza di solidi legami e di un attaccamento profondo, e l’importanza attribuita all’istruzione dei giovani, anche schiavi, è ampiamente documentata. Spesso erano gravi problemi o l’assenza dei genitori a rendere obbligatorio il sostegno di una nutrice: gli stessi imperatori della dinastia Giulio-Claudia (o, forse, soprattutto loro) passarono di famiglia in famiglia e di casa in casa in seguito alle vicissitudini dei loro parenti biologici.
Da LA LETTURA, 12 MAGGIO 2019