Lino Banfi, 57 anni con Lucia: «Lei è malata, ma è come ritrovarsi ogni giorno. Io non mi arrendo», di Vittorio Zincone

L’attore pugliese racconta il legame con la moglie che oggi non lo riconosce più. Dalle fughe d’amore alle difficoltà della malattia neurologica.


Questo articolo fa parte dell’inchiesta di 7 sullo stato delle unioni, che indaga lo stato del matrimonio, della coppia e della famiglia in Italia. Continueremo a raccontare le storie di coppie di lunga data, giovani o mature, tradizionali e non tradizionali. Potete partecipare a questo affresco postando su Instagram la foto di un matrimonio (vostro o altrui) e dicendoci quale è il ricordo più bello di quel momento con l’hashtag #ricordidaunmatrimonio, menzionando l’account di @7corriere

Dietro le lacrime con cui Lino Banfi parla della malattia di sua moglie Lucia c’è una storia lunga sessantasette anni: cinquantasette di matrimonio più dieci di simil-fidanzamento. Una storia italianissima, fatta di povertà e di ambizione, d’amore e di gratitudine. Tutto comincia per le strade di pietra di Canosa, in Puglia. Il giovane Pasquale Zagaria (nome dell’attore all’anagrafe), abbandona il seminario dove studia da prete e gli amici gli suggeriscono una possibile conquista: Lucia. Lui ci prova. Lei inizialmente lo respinge: «Vattinn». Però nasce qualcosa. Seduto nel ristorante di famiglia dove lavorano i suoi due figli, Rosanna e Walter, e una delle nipoti, Virginia che è chef, nel quartiere Prati, a Roma, Banfi srotola il suo Amarcord.

Ogni tanto gli si arrossano gli occhi. Per amore, e pur di fare l’attore, ne ha passate e ne ha fatte passare a Lucia davvero tante. È un film, che sembra ispirato al motto nietzschiano: «Chi ha un perché per vivere può sopportare quasi ogni come». Ecco come Banfi ripercorre le scene iniziali: «A diciassette anni decisi di seguire una compagnia teatrale. Lucia rimase a Canosa. Ogni tanto ci scambiavamo una lettera. Lei mi mandava qualche soldo». Qualche soldo? «Era parrucchiera e io avevo sempre bisogno di quattrini. A Milano facevo una vita miserabile. Dormivo nei treni fermi in stazione coprendomi con un cartone. Mangiavo quel che capitava: per un periodo riuscii a ingannare un macellaio fingendomi nordico per chiedere gli scarti di polmone da dare al gatto. Ma in realtà li mangiavo io. Quando un vicino gli disse che ero pugliese, mi cacciò via dicendomi “torna nella giungla, scimmia”. Mi feci pure togliere le tonsille per poter trascorrere qualche giorno in ospedale con pasti caldi gratis».

Il racconto di Banfi viene interrotto dai questuanti del selfie. Grandi e piccini si avvicinano al tavolo sorridendo. Lui si presta al rito. Poi riprende: «Dopo la leva militare mi trasferii a Roma e cominciai a frequentare i teatri minori. Un po’ di vita. A un certo punto, però, mi resi conto che dovevo prendere una decisione. Avevo avuto qualche avventura nel mondo dello spettacolo, come tutti, ma mai legami, e sapevo che non avrei mai sposato una ballerina, perché volevo bene a Lucia. Quasi mi vergognavo di me stesso perché lei mi aspettava, mi mandava soldi. Quindi tornai a Canosa, le dissi che avevo buone intenzioni, ma che poi lei sarebbe dovuta venire con me a Roma. Accettò. Con mio padre organizzammo una spedizione diplomatica per fare la proposta». Qui il racconto, letto con gli occhi di oggi, si fa tragicomico. Siamo tra il 1961 e il 1962, in un Meridione che assomiglia all’Arabia Saudita. Banfi, accompagnato dal padre e dallo zio, va a parlare di matrimonio con Mastro Michele, il papà di Lucia, che li accoglie piuttosto freddamente: domande sullo stato patrimoniale di Lino e bofonchiamenti. La missione è fallimentare. Mastro Michele fa sapere agli Zagaria che non ha intenzione di dare in sposa sua figlia a uno che vuole fare l’attore. «In seguito mi dissero che voleva ammazzarmi». In paese qualcuno aveva messo in giro la voce che Lino volesse portare Lucia a Roma per farle fare la «puttèn». Lo consideravano un magnaccio.

Banfi con la moglie Lucia

I due innamorati decidono di fuggire. «La fuitina. Scappammo su una macchina presa in affitto. Passai a prendere Lucia e le chiesi: «Hai portat u librett?». E lei: «Non l’ho trovato». «U librett», era il libretto di risparmio a suo nome con dentro un milione di lire. Contavo su quel denaro per cominciare la nostra vita a Roma». Dopo due giorni Lino e Lucia tornano a Canosa. Ora che hanno trascorso una notte insieme il matrimonio è obbligatorio. Non hanno una lira, ma il piano è riuscito. «Dopo un mese ci sposammo. Alle sei di mattina in una sagrestia». La cerimonia? «Durò poco. Eravamo soli. All’uscita promisi a Lucia che, se Dio ci avesse dato tempo e felicità, un giorno avrei festeggiato degnamente il nostro amore. E così è stato. Nel 2012 abbiamo celebrato le nozze d’oro, benedetti da Papa Ratzinger e circondati da amici celebri».

Prima di trasferirsi nella Capitale, Lino e Lucia trascorrono ancora un po’ di tempo a Canosa: «In una piccola casetta, dove mia moglie accoglieva le sue clienti. Ogni tanto la aiutavo pure io con gli shampoo. Nacque Rosanna, la primogenita, ma io non ce la facevo più a stare in questo posto dove per strada mi dicevano: «L’hai rovinat a Lucia, stronz!». Decidemmo di partire. Arrivammo a Roma con un camion con dentro quattro mobili sgangherati». Anche lì, guai. «Soldi in prestito da una banda di zingari strozzini e pacchi di cambiali firmati per aprire un negozio di parrucchiera per Lucia, che tra l’altro andò male. Nostra figlia ebbe pure un inizio di rachitismo perché mangiava poche proteine e poche vitamine. Alla fine mi rivolsi a mio padre per un aiuto». Che tipo di aiuto? «Lui conosceva un parlamentare democristiano di Andria, Onofrio Jannuzzi. Ottenni un colloquio per un posto fisso in banca. E così un pomeriggio salii sulla caldarrosta…». La caldarrosta? «Era il soprannome che Franco Franchi e Ciccio Ingrassia avevano dato alla mia bianchina marrone… La caricai con le locandine degli spettacoli teatrali e andai a bruciare tutto in un campo sulla via Tiburtina. “Fanculo” la recitazione».

Torniamo al lavoro in banca. «Non l’ho mai cominciato. La notte prima del colloquio io e Lucia restammo svegli fino alle tre di notte. Sentendomi rassegnato, lei mi prese la mano e disse: «Non mi va di avere accanto un marito triste con un lavoro che non vuole fare. Continua il tuo percorso d’artista!». Non è stato facile sentirselo dire da una donna che aveva passato tutto quel che aveva passato. Lo sa? Ancora oggi che non sta bene, prima di addormentarsi cerca la mia mano per stringerla. Avrebbe meritato di stare più tranquilla, invece… Il resto è storia nota». La storia nota è quella dell’attore Lino Banfi, ambasciatore Unesco e Unicef, Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al merito della Repubblica italiana, star dell’amatissima fiction Rai Un medico in famiglia, leggendario Allenatore nel pallone, e mattatore della commedia scollacciata anni Settanta e Ottanta, una sequenza infinita di professori, presidi, vigili e commissari che spiano dal buco della serratura e palpeggiano bellissime donne: Edwige Fenech, Nadia Cassini, Barbara Bouchet…

Sua moglie è mai stata gelosa? «No. Mi rispetta e io ho sempre rispettato lei. Ho sempre avuto la sapienza della rinuncia, che nel nostro ambiente non è cosa facile. Lucia si merita tutto». Lo sguardo di Banfi è fisso su una parete dove è appesa una foto che lo ritrae sorridente. Spiega: «Fino a qualche anno fa io e Lucia appena potevamo ce ne andavamo in una casetta che ho preso a Cannes. Il Capodanno, i fuochi d’artificio, eravamo felicissimi. Ora…». Lucia si è ammalata. Alcuni giornali hanno ipotizzato che si tratti di Alzheimer, ma Lino non vuole nemmeno pronunciare quella patologia. Lui, per proteggerla, dice che si tratta di problemi neurologici: «Dimentica un po’ di cose, non ricorda. Ma poi è anche cosciente e presente». Per non lasciarla sola ha appena rinunciato a partecipare a un festival oltreoceano e a girare all’estero il sequel di film di cui è stato protagonista. «Non mi arrendo. La seguono i medici migliori. Voglio arginare la malattia. Le sto provando tutte. E quando posso la faccio ridere. Un po’ di tempo fa mi ha chiesto: «E se un giorno non ti dovessi più riconoscere?». Gli ho risposto stringendola: «Vorrà dire che ci presenteremo di nuovo».

SETTE, 3 maggio 2019 |

 

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