L’operaio indio: intervista Álvaro García Linera, vicepresidente della Bolivia e cultore di Gramsci, di Marcello Musto
«Sin dalle rivolte degli indigeni oppressi nel mio Paese, ho capito che occorre mettere insieme le lotte del lavoro e quelle identitarie dei popoli. In America Latina…..”.
L’intervista Álvaro García Linera, vicepresidente della Bolivia e cultore di Gramsci, indica un nuovo orizzonte per le forze progressiste. «Sin dalle rivolte degli indigeni oppressi nel mio Paese, ho capito che occorre mettere insieme le lotte del lavoro e quelle identitarie dei popoli. In America Latina la destra può ottenere successi ma non ha un’idea di futuro»
Teorico marxista ed ex guerrigliero, il vicepresidente della Bolivia, Álvaro García Linera, è tra le voci più originali della sinistra latino-americana. Abbiamo conversato con lui sulla situazione delle forze progressiste in quella regione e nel resto del mondo.
Il suo impegno politico è contraddistinto dalla consapevolezza che la gran parte delle organizzazioni comuniste latino-americane, non essendo capaci di parlare alla maggioranza delle classi popolari, erano destinate a una mera funzione testimoniale. In Bolivia, ad esempio, il loro richiamarsi al marxismo-leninismo più schematico ed economicista impedì di riconoscere — e di porre al centro del loro agire politico — la peculiarità della questione indigena. Le popolazioni native furono assimilate a una indistinta massa contadina «piccolo-borghese», priva di potenziale rivoluzionario. Come ha capito che era necessario costruire una sinistra radicalmente differente?
«In Bolivia, gli alimenti erano prodotti dai contadini indigeni, gli edifici e le case erano costruite dagli operai indigeni, le strade venivano pulite dagli indigeni e ad essi l’élite e la classe media affidavano anche la cura dei loro bambini. Ciò nonostante, la sinistra tradizionale sembrava cieca e si occupava solo degli operai della grande industria, senza prestare neanche attenzione alla loro identità etnica. Questi erano importanti per il lavoro nelle miniere, ma costituivano un settore minoritario al confronto dei lavoratori indigeni, discriminati per la loro identità e sfruttati ancora più dei primi. Dalla fine degli anni Settanta, però, la popolazione aymara organizzò delle grandi mobilitazioni, sia contro la dittatura sia contro i governi democratici nati dopo la sua caduta. Lo fecero orgogliosamente con la loro lingua e simbologia, in maniera autonoma — attraverso comunità confederate di campesinos — e proponendo la nascita di una nazione a guida indigena. Fu un momento di rivelazione sociale».
Lei come reagì?
«Io ero studente al liceo e fui colpito da questa insorgenza indigena collettiva. Mi parve chiaro che il discorso della sinistra classica sulle lotte sociali, incentrato soltanto su operai e borghesia, fosse parziale e insostenibile. Esso doveva incorporare la tematica indigena e compiere una riflessione sulla comunità agraria, ovvero sulla proprietà collettiva della terra come base dell’organizzazione sociale. Inoltre, per comprendere le donne e gli uomini che costituivano la maggioranza del Paese, i quali rivendicavano una differente storia e collocazione nel mondo, era necessario approfondire la problematica etnico-nazionale delle popolazioni oppresse. Per fare ciò lo schematismo dei manuali marxisti mi parve insufficiente e mi misi a cercare altri riferimenti, dall’ideologia indianista al Marx che, con gli scritti sulle lotte anticoloniali e sulla comune agraria in Russia, aveva arricchito la sua analisi sulle nazioni oppresse».
Il tema della complessità del soggetto della trasformazione sociale, che ha caratterizzato la sua riflessione e militanza politica, è divenuto, con il passare del tempo, una discussione imprescindibile per tutti i progressisti. Tramontata la prospettiva del proletariato quale unica forza in grado di abbattere il capitalismo e dissoltosi il mito del
l’avanguardia rivoluzionaria, da dove deve ripartire la sinistra?
«Il problema della sinistra tradizionale è stato quello di avere confuso il concetto di “condizione operaia” con una specifica forma storica del lavoro salariato. La prima si è universalizzata ed è divenuta una condizione materiale planetaria. Non è vero che il mondo del lavoro stia scomparendo. In realtà, non ci sono mai stati tanti operai e operaie nel mondo e in ogni Paese. Tuttavia, questa gigantesca operaizzazione planetaria della forza lavoro è avvenuta mentre si dissolvevano le strutture sindacali e politiche esistenti. Così, paradossalmente, in un’epoca nella quale è stato mercantilizzato ogni aspetto della vita umana, pare che tutto si svolga come se non vi fossero più operai».
Come si caratterizzano oggi le lotte sociali?
«La nuova classe operaia non si riunifica prevalentemente attorno alla problematica lavorativa. Non ha ancora la forza organizzativa per poterlo fare e, forse, sarà così per molto tempo ancora. Le mobilitazioni sociali non avvengono più tramite le forme classiche dell’azione operaia centralizzata, ma mediante forme sociali anfibie, nelle quali si mescolano professioni diverse, tematiche trasversali e forme associative flessibili, fluide e mutevoli. Si tratta di nuove forme di azioni collettive poste in essere dai lavoratori, anche se, in molti casi, esse lasciano emergere, più che l’identità lavorativa, altre fisionomie complementari, come quella dei conglomerati territoriali, o dei gruppi nati per rivendicare il diritto alla salute, all’educazione, o ai trasporti. La sinistra, invece di muovere rimproveri a queste lotte perché si sviluppano con modalità diverse dal passato, deve rivolgere attenzione all’ibridazione, all’eterogeneità del sociale. Deve farlo, in primo luogo, per comprendere i conflitti e, poi, per rafforzarli e contribuire ad articolarli con altre lotte a livello locale, nazionale e internazionale. Il soggetto del cambiamento è ancora il “lavoro vivo”: i lavoratori che vendono la loro forza lavoro in modi molteplici. Le forme organizzative, i discorsi e le identità sono, però, molto differenti da ciò che abbiamo conosciuto nel XX secolo».
Lei cita spesso Antonio Gramsci. Quanto è stato importante per l’elaborazione delle sue scelte politiche?
«Gramsci è stato un autore decisivo per lo sviluppo delle mie riflessioni. Ho iniziato a leggerlo che ero molto giovane, quando i suoi testi circolavano tra un colpo di Stato e un altro. Fin da allora, a differenza dei tanti scritti contenenti analisi economicistiche o formulazioni filosofiche incentrate più sull’estetica delle parole che non sulla realtà, Gramsci mi aiutava a maturare uno sguardo differente. Egli parlava di linguaggio, letteratura, educazione, senso comune, ovvero di temi apparentemente secondari, ma che, in realtà, formano la trama reale della quotidianità degli individui, quella che determina le loro percezioni e le inclinazioni politiche collettive. Da quella prima vo l t a , to r no re g o l a r mente a l e g g e re Gramsci ed egli mi rivela sempre cose nuove, in particolare rispetto alla formazione molecolare dello Stato. Sono convinto che il rinnovamento del marxismo nel mondo abbia in Gramsci un pensatore indispensabile».
Negli ultimi quattro anni, in quasi tutto il Sud America sono andati al potere governi che si ispirano a ideologie reazionarie e ripropongono l’agenda economica neoliberista. L’elezione di Jair Bolsonaro in Brasile costituisce l’esempio più eclatante di questo fenomeno. Questa svolta a destra è destinata a durare a lungo?
«Credo che il grande problema della destra mondiale sia quello di essere rimasta senza una narrazione del futuro. Gli Stati che propugnavano la liturgia del libero mercato costruiscono muri contro migranti e merci, come se i loro presidenti fossero moderni signori feudali. Quanti chiedevano privatizzazioni si appellano oggi a quello stesso Stato così tanto vilipeso, affinché li salvi dai loro debiti. Coloro che erano in favore della globalizzazione e parlavano di un mondo finalmente unificato, si appigliano, adesso, al pretesto della “sicurezza continentale”. Viviamo in uno stato di caos planetario e, in questo scenario, è difficile prevedere quale profilo assumeranno le nuove destre latino-americane. Saranno in favore della globalizzazione o protezioniste? Attueranno delle politiche di privatizzazione o misure stataliste? A queste domande non sanno rispondere neanche loro stessi, poiché navigano in un mare di confusione ed esprimono solo vedute di corto respiro. Le destre non rappresentano il futuro al quale la società latino-americana può affidare le sue aspettative di lungo termine. Al contrario, causano l’aumento delle ingiustizie e delle diseguaglianze. L’unico futuro tangibile per le nuove generazioni consiste nell’angustia dell’incertezza».
Che cosa deve fare la sinistra latinoamericana per invertire lo stato delle cose e aprire un nuovo ciclo di partecipazione politica e di emancipazione?
«Ci sono le condizioni affinché si sviluppi una nuova stagione progressista che vada oltre quanto è già stato realizzato nello scorso decennio. In questo contesto molto indefinito, c’è spazio per proposte alternative e per una predisposizione collettiva verso nuovi orizzonti, fondati sulla partecipazione reale delle persone e sul superamento, ecologicamente sostenibile, delle ingiustizie sociali. Il grande compito della sinistra è quello di delineare, superando i limiti e gli errori del socialismo del XX secolo, un nuovo orizzonte fondato sulla soluzione delle questioni concrete che procurano sofferenza alle persone. Servirebbe un “nuovo principio speranza” — a prescindere dal nome che gli daremo — che inalberi l’uguaglianza, la libertà sociale, l’universalità dei diritti e delle capacità quali fondamento dell’autodeterminazione collettiva».
LA LETTURA, 9 giugno 2019