IL MIO FUTURO E’ NELLA MIA AFRICA, di Alessandra Muglia
Il tour Le tappe effettuate dalla carovana Redemption Song in Senegal per scoraggiare le partenze dei migranti. Otto ex migranti attraversano il Senegal per convincere i loro connazionali a non partire. La carovana percorre tremila chilometri in sette giorni, batte città e villaggi e ripete: non rischiate la vita, il sogno è qui. Ecco com’è andata….
Salgono sul pick up bianco indossando tutti una maglietta bianca con la scritta in francese: «Mi rifiuto di rischiare la mia vita, il mio futuro è nel mio Paese». Il motto di un singolare tour del Senegal. In viaggio non ci sono turisti, ma ex migranti. Sei uomini e due donne tornati nel proprio Paese e ora alle prese con una nuova sfida: percorrere tremila chilometri in sette giorni per cercare di cambiare la testa di molti connazionali, dissuaderli dal prendere la via del mare o del deserto per raggiungere l’Europa, smontare il mito dell’Occidente. «Per scoraggiare le partenze non c’è cosa più efficace del vedere gli altri che tornano e ce la fanno» sostiene Karounga Camara, ideatore di questa carovana. Rientrato in Senegal nel 2015 dopo sette anni a Milano, ha fondato con altri due soci una start up che ha introdotto nel mercato dell’ex colonia francese semilavorati per panettieri: «Siamo partiti mettendo una quota di duemila euro ciascuno, ora siamo in attivo», dice con orgoglio. Qui lo chiamano «coach Karou»: due anni fa ha fondato a Thiès, la sua città, la rete Ndari (dal proverbio in wolof Wiri wiri, diari ndari, cioè «prima o poi tornerai a casa tua»), un’associazione di migranti di ritorno che supporta chi vuole avviare un’attività nel proprio Paese. Formazione, servizi di contabilità, consulenze legali e, soprattutto, un appoggio per l’accesso al credito. Ndari fa da garante e tiene contatti con Ong che sostengono lo sviluppo dell’imprenditorialità, come Lvia, partner in questo progetto.
L’idea della carovana è nata da una chiacchierata con Paolo Dieci, il presidente della rete di Ong Link 2007, tra i cooperanti che l’anno scorso hanno perso la vita nel disastro aereo in Etiopia: «Per
scoraggiare le partenze verso l’Europa — riferisce Camara — ci chiese di collaborare per un concerto a Dakar con Tiken Jah Fakoly», star ivoriana del reggae che in Pourquoi nous fuyons racconta le disillusioni a cui vanno incontro i migranti. «Chi combatterà al nostro posto? Tu cerchi l’oro ma l’oro è sotto i tuoi piedi» canta. La maggior parte dei senegalesi pronti a partire però non vive nella capitale, meglio andarli a raggiungere dove stanno. Con una carovana itinerante. L’hanno chiamata Redemption Song, come l’inno alla libertà di Bob Marley che in epoca post-coloniale invitava a emanciparsi dal complesso di inferiorità verso l’Occidente. Una lezione valida ancora oggi: «Per farcela in Africa dobbiamo smettere di essere negativi» ripete come un mantra «coach Karou». Un cambiamento di mentalità difficile, per quell’afro pessimismo che fa ritenere la vita fuori sempre migliore. «Le migrazioni sono un fenomeno antico e globale, ma serve consapevolezza. Oggi in Europa hanno capito che il futuro è in Africa, e mentre gli altri vengono da noi a cercare fortuna, noi che facciamo?» ragionano questi ex migranti lungo il percorso. In ogni tappa, previsti un incontro con gli abitanti e un road show lungo le strade per lanciare i messaggi, sulle note di Immigrés di Youssou N’Dour, il «leone di Dakar».
«Siamo partiti da Thiès canticchiando None but ourselves can free our minds di Marley», rievoca Karounga. In tre ore eccoli a Ngane Diouf, villaggio rurale di un migliaio di anime. Tutto intorno una distesa immensa di terre coltivabili lasciate incolte: «Qui tutti sognano di partire», considera. Ad attendere lui e compagni ci sono 200 persone. Donne, uomini e tanti giovani. Molti sono familiari di migranti, alcuni già rimpatriati. Tra loro El Hadji,
che esordisce con un proverbio senegalese: «Il sapore può essere conosciuto soltanto da chi ha assaggiato». Chi è stato in Europa come lui sa cosa vuole dire essere un migrante. Sofferenza, la ricerca del lavoro che si trasforma in sfruttamento, umiliazione. «L’aria è cambiata, l’Europa è diventata ostile, conviene cimentarsi in un’altra sfida: costruire la “casa africana”», va ripetendo Karou. Non è facile. El Hadji dopo cinque anni in Sardegna è tornato a casa da «perdente», senza soldi, ma oggi vive dignitosamente coltivando la sua terra. È andata meglio a Ridial Seck: rincasato anche lui dall’Italia, ha acquistato una dozzina di ettari di terra dove coltiva cipolle, limoni, patate, angurie e dà lavoro a una trentina di persone. Tra loro Khady, che lo ha pubblicamente ringraziato: la sua impresa ha permesso a lei e a molti altri di non essere tentati dall’emigrazione.
Si punta a nord in direzione SaintLouis. Prima di arrivare, sosta nella cittadina di Mpal per pranzare da Aliou Seck, 53enne della rete Ndari. Tornato da Venezia otto anni fa, ha aperto nella parte anteriore della sua grande casa una falegnameria dove con tre collaboratori costruisce finestre, porte, sedie. Un lavoro redditizio: riesce a mantenere bene la sua grande famiglia. Vive qui con tre mogli e una squadra di bambini. In una sala, seduti a terra, viene servito del Thiébou Diaga, piatto tipico senegalese a base di riso, pesce, verdure e pomodori.
È piacevole la brezza che rinfresca Saint-Louis, la «Venezia d’Africa». Adagiata tra l’Oceano e il fiume Senegal, rischia di essere sommersa dalle acque per via dei cambiamenti climatici. Ma dal mare proviene la ricchezza vera di questa ex capitale, e il suo carattere minaccioso passa in secondo piano. La carovana attraversa il ponte Faidherbe, 500 metri di campate di metallo che collegano alla terraferma l’isola di Saint-Louis; poi il ponte di Santhiaba che porta a Goxu Mbacc, sulla costa, al molo. «Qui abbiamo incontrato i pescatori. Erano un centinaio, al lavoro. Uno si è avvicinato: Ngom ha raccontato di essere riuscito ad arrivare in Spagna con una piroga ma una volta là è stato bloccato. Ora non vuole più saperne di partire e chiede di unirsi a Ndari». Una testimonianza importante in questo posto: molti pescatori qui hanno trasformato le loro piroghe da pesca in mezzi di trasporto verso l’Europa, un viaggio meno costoso rispetto a quello via terra. Da gennaio 700 mila sono approdati alle Canarie. Ben di più però si erano avventurati nella lunga traversata e molti non ce l’hanno fatta.
Momento saliente dell’incontro in città l’intervento di un giardiniere di 27 anni. Giacca di pelle e sguardo vivace, ha parlato delle difficoltà che hanno i giovani ad avere un futuro lì e ha ammesso che lui stesso intende andarsene. Gli ha risposto Mariama Déme, una delle due donne della carovana: invece di indebitarsi con i parenti e investire nel «grande viaggio», perché non puntare subito ad avviare un’ attività in Senegal? Come esempi l’imprenditore Bocar Samba, che ha cominciato vendendo gli uccelli che lui stesso cacciava ed è poi diventato un grande commerciante importatore di riso, per un periodo pure l’uomo più ricco del Senegal; poi Babacar Ngom, fondatrice di Sedima: con meno di 100 euro ha acquistato 120 pulcini, ora la sua azienda ha un giro d’affari di 50 milioni di dollari e 430 dipendenti.
Nel secondo giorno si va in direzione di Richard-Toll, al confine con la Mauritania. Il terzo tappa a Louga, zona a rischio desertificazione, da cui i giovani fuggono. Poi in viaggio verso Kaolack, con trasmissione dell’incontro su Facebook Live. Quarto giorno a Tambacounda, estremo est e zona più calda del Paese. Da qui molti giovani prendono la via del deserto e non tornano più. Quasi ogni famiglia è preoccupata per la sorte di qualche caro, o ne piange la morte. Il tour si conclude a Thiès con un forum su «emigrare o rimanere: limiti e opportunità in Senegal». Tra i relatori Lamane Mbaye, docente dell’Università di Dakar: «La migrazione clandestina è uno dei più grandi pericoli del nostro secolo: uccide più di Aids e malaria».
la lettura, 2 GIUGNO 2019