NUOVE PROSPETTIVE PER UNA SCUOLA SARDA NON SRADICANTE, di Federico Francioni
La scuola nell’era della rivoluzione digitale – I Giganti di Monte Prama in Cina – Uno scontro tra fonti normative – Una scuola ufficiale estranea alla lingua, alla storia ed alla cultura di un popolo – Quali alternative?
La scuola dell’isola nell’era della rivoluzione digitale. Secondo l’eminente farmacologo Gian Luigi Gessa, dell’Università di Cagliari, siamo ad un passo dalla “demenza digitale”, per l’uso incontrollato – ed apparentemente incontrollabile – di smartphone, tablet e quant’altro specialmente da parte delle nuove generazioni. In un certo qual modo, gli hanno fatto eco autorevoli neuroscienziati tedeschi, fra i quali, addirittura, c’è chi ha prospettato la possibilità – e la necessità – di un divieto pressoché assoluto, in certi contesti, verso l’uso di determinati strumenti: almeno fino ai 18 anni! In un incontro svoltosi a Sassari il 30 maggio presso il Liceo “Margherita di Castelvì” (organizzato anche dall’Associazione sassarese di Filosofia e Scienza), Giovanni Biggio, professore emerito dell’Ateneo cagliaritano, con dovizia di dati e di immagini e con rara chiarezza espositiva, ha posto in luce mutamenti e trasformazioni in atto nel delicatissimo cervello dell’adolescente, ancora in formazione; i rischi, per fare solo un esempio, insiti nei comportamenti di coloro che, assuefatti all’uso massivo dei supporti digitali ed informatici, perdono il senso e la coscienza del pericolo, per il venir meno di attenzione ed allarme cui, nel cervello, presiede l’amigdala.
Nel corso della stessa iniziativa, Elisabetta Gola ed Emiliano Ilardi, essi pure docenti universitari a Cagliari, hanno compiutamente delineato il quadro di una scuola, almeno quella più tradizionale, già abbondantemente sconfitta dal dilagare della rivoluzione digitale che, durante le lezioni, riduce in stato di sonnolenza quegli alunni che hanno trascorso una parte della notte a smanettare ed a giocare con i telefonini (si veda anche il volume, ben articolato e problematico sull’argomento, di Bachisio Bandinu, Lettera a un giovane sardo sempre connesso, Domus de janas, Sestu-Cagliari, 2017).
Non c’è nulla da fare? Dobbiamo limitarci a prendere atto di epocali mutamenti? Guai se un educatore, genitore, insegnante o altro, facesse tale affermazione! Decadrebbe immediatamente dal suo ruolo. Alcune proposte, in particolare di Ilardi, mi hanno lasciato francamente perplesso, perché sembrano, quasi, sottintendere una specie di resa – certo, condizionata – ai videogiochi. Se propongo ai miei studenti di costruire un videogioco sul centro storico di Cagliari, ha detto il docente, otterrò l’obiettivo di vincolarli a intense letture di carattere storico e, allo stesso tempo, li troverò più che disponibili a costruire qualcosa di diverso con le nuove tecnologie.
In effetti, penso ai risultati, davvero ragguardevoli, ottenuti nel mio Liceo, lo Scientifico “Giovanni Spano” di Sassari, dagli stimati colleghi Angelo Orlacchio, Angelo Alfonso e Giovannella Meazza i quali, dalle Olimpiadi di Matematica ad altri concorsi, hanno conseguito premi e riconoscimenti, ormai da vari anni, in tutta la penisola, grazie anche all’accorta e paziente regia dell’attuale dirigente scolastico Antonio Deroma, senza dimenticare i predecessori Maria Paola Curreli e Franco Accardo. Certo, si potrebbe osservare, si tratta di limitati, non generalizzabili casi di eccellenza. In realtà, nel mio Liceo – e altrove – ho incontrato e conosciuto tante splendide ragazze, tanti splendidi ragazzi per niente disposti a portare la coscienza all’ammasso o a farsi rincitrullire dalla rivoluzione digitale. Con ciò, sarebbe sbagliato sottovalutare problemi, difficoltà ed ostacoli d’ogni sorta che oggi sono di fronte agli insegnanti.
Da anni in Sardegna operano colleghi in grado di costruire sapientemente lezioni, moduli, unità e percorsi articolati di carattere didattico, riguardanti una pluralità di discipline, dove si fa ampio e consapevole ricorso a vari tipi di strumenti informatici. Tutto ciò deve renderci edotti e consapevoli che una scuola sarda dove sia previsto ufficialmente l’insegnamento della lingua, della storia e della cultura isolane è un qualcosa che, lungi dall’essere irrimediabilmente fuori moda, è invece a portata di mano, si configura come terreno praticato e praticabile.
I Giganti di Monte Prama in Cina. Certe operazioni di restauro sono oggi impossibili senza il ricorso a raffinati e complessi supporti informatici. Pensiamo allo straordinario lavoro condotto su migliaia di frammenti scultorei rinvenuti, a partire dal 1974, nella penisola del Sinis, ricomposti e restaurati presso il Centro di Li Punti (Sassari) grazie al meticoloso e tenace lavoro di Antonietta Boninu, Alba Canu, Andreina Costanzi Cobau, Gonaria Demontis, Valentina Leonelli, Patrizia Luciana Tommassetti e Luisanna Usai (cfr. F. Francioni, Dai Giganti di pietra a una nuova rappresentazione della Sardegna, nella rivista “Camineras”, n. 5, 2017, pp. 43-58).
Nel 2017, un convegno di rilevante portata internazionale, svoltosi fra Shangai e Pechino, ha confrontato la grande statuaria nuragica di Monte Prama e l’esercito di terracotta di Xi ‘an. Sarebbe sufficiente un tale evento per assumere chiara consapevolezza dell’assoluto rilievo che i Giganti si sono conquistati sulla scena mondiale (si veda quanto ha scritto in proposito Raimondo Zucca, archeologo e docente nell’Università di Sassari, su “La Nuova Sardegna” del 16 maggio 2017). Giovanni Lilliu, fin dagli anni Settanta, Giovanni Ugas e lo stesso Zucca, in seguito, hanno efficacemente descritto, analizzato e commentato la svolta decisiva rappresentata da questa produzione scultorea, di carattere “anticlassico” (la definizione è dello stesso Lilliu) che anticipa di vari secoli quella classica greca. Ebbene, come è stato fatto a Li Punti, anche nella scuola possiamo capire, comprendere e scoprire la svolta di Monte Prama facendoci aiutare da una serie di strumenti digitali.
Neanche l’iniziativa che ha avuto luogo in Cina è valsa comunque a smuovere la cultura dominante, le istituzioni dello Stato ed una scuola pubblica che hanno operato, lungo i decenni, per soffocare e svilire, nei fatti, qualunque istanza tendente ad introdurre ufficialmente lo studio della storia della Sardegna, dalle elementari agli istituti superiori.
Uno scontro tra fonti normative. Nella sua ormai classica opera La rivolta dell’oggetto. Antropologia della Sardegna” (Giuffrè, Milano,1978), il saggista, scrittore e giornalista Michelangelo Pira (che fu anche docente di Antropologia nell’Ateneo cagliaritano) dedicò importanti pagine al ruolo della scuola nell’isola. L’istruzione ufficiale qui impartita va posta in relazione ad un quadro caratterizzato da un forte conflitto tra codici, tra fonti normative, linguistiche e culturali ben diverse, se non contrapposte: da una parte, quelle di uno Stato che va definito, senza esitazione alcuna, come colonialista (si pensi, in proposito, anche a ciò che ha scritto lo storico franco-americano John Day, grande amico della Sardegna); dall’altra parte, il patrimonio della nostra comunità, svilito però, in genere, dai ceti dirigenti politici ed intellettuali locali, obbedienti, in varia misura, al paradigma di un assoluto isolamento, di una marginalità, di una arcaicità e perifericità dell’isola cui si tratterebbe di contrapporre una non meglio precisata “modernizzazione”, decisa e regolamentata, s’intende, dai centri di potere economico e politico esterni: quelli nei confronti dei quali l’intellettualità “ufficiale” si pone come mediatrice, con l’obiettivo di creare e perpetuare propri spazi di potere.
Si badi bene: Bitti, paese natale dello stesso Pira, ha sempre rifiutato l’istituzione scolastica statale? Risponde l’antropologo: assolutamente no! Questo centro anzi, fin dai primi decenni dell’Ottocento, chiese ed ottenne l’istruzione pubblica ma, con essa, si insediò una scuola completamente estrinseca, sovrapposta al contesto socioeconomico, linguistico e culturale isolano.
A partire soprattutto dagli anni Settanta, tanti docenti cominciarono a coltivare nell’isola un tenace impegno nell’avviare e realizzare programmazioni, moduli e unità didattiche incentrate sulla storia e sulle storie locali (mi permetto di rinviare al mio volume su Dante e la Sardegna. Invito a una nuova lettura, Condaghes, Cagliari, 2012-2015, con indicazioni per interventi didattici concreti ed operativi e un DVD allegato, contenente un documentario diretto da Vittorio Sanna).
A queste esperienze occorre aggiungere il dibattito e le iniziative meritoriamente avviate grazie a “Sa die de sa Sardigna”. Tale scadenza fu oggetto di attacchi e polemiche ad opera di mass-media e di accademici che vedevano in essa municipalismo, localismo, un arroccamento, un rinchiudersi in se stessi. Al contrario, il triennio rivoluzionario sardo 1793-96 – il più grande sommovimento sociopolitico nella storia isolana – vide l’influsso di idee provenienti dalla Francia e dall’Europa, la mobilitazione rurale ed urbana, antifeudale ed antiassolutistica di tanti professionisti, intellettuali, uomini dei Gremi, donne, giovani ed anche di parroci davvero coraggiosi (molti pagarono con esecuzioni capitali, condanne a pene detentive, a remare nelle navi galere, all’esilio il loro coinvolgimento nelle lotte); in quegli anni va necessariamente inserita l’insurrezione di Cagliari del 28 aprile 1794 contro il governo sabaudo, moto che poi si estese, senza tumulti di piazza, a Sassari e ad Alghero. La riflessione su queste vicende si è saldata, in tanti incontri, dentro e fuori delle scuole, alle discussioni sui problemi della Sardegna di oggi. Questo è uno dei meriti dell’istituzione di “Sa die”. Negli anni, con la Fondazione Sardinia, con altri enti ed organismi, abbiamo organizzato per “Sa die” seminari e convegni cui vari istituti isolani hanno partecipato con un ruolo attivo, propositivo ed anche con l’apporto di video messi a punto dagli alunni.
Una scuola ufficiale estranea alla lingua, alla storia ed alla cultura di un popolo. Per quanto importante, questa intensa attività non può, non deve farci dimenticare che, ufficialmente, nelle scuole di ogni ordine e grado, tutto s’insegna fuorché la storia isolana, con negative conseguenze nella crescita, nell’educazione generale e nella formazione delle nuove generazioni: il rischio evidente consiste nella caduta in forme di sradicamento e di alienazione che – paradossalmente, ma poi non tanto – rendono più penoso e complicato l’apprendimento di una disciplina, la storia, vista come lontana, estranea ed astratta.
Il danno apportato è stato dunque rilevante, anche e soprattutto per la lingua sarda, oggi minacciata di estinzione. Eppure le ricerche socio-psico-pedagogiche e psico-linguistiche hanno efficacemente dimostrato, con una molteplicità di cifre e dati, che, se la lingua materna, o comunque del posto, non viene compressa, svilita, disprezzata e rimossa, l’alunno, lungi dall’incontrare nuove difficoltà, è messo anzi in condizioni di meglio apprendere una pluralità di lingue: al riguardo sono da considerare le ricerche apposite, condotte in ambito universitario, di cui ha riferito Maria Vittoria Migaleddu (in Vantaggi cognitivi del bilinguismo, su “Mathesis-Dialogo tra saperi”, n. 19, dicembre 2012, pp. 25-35, rivista semestrale, organo dell’Associazione sassarese di Filosofia e Scienza, www.filosofiscienza.it).
Quanto si può leggere nel contributo della Migaleddu può essere, diciamo così, “tradotto” ed esteso all’insegnamento della storia: i ragazzi e gli studenti cui saremo in grado di porgere adeguatamente, per esempio, la sconvolgente scoperta della grande statuaria nuragica saranno messi in grado di comprendere non solo l’originalità di un profilo storico, linguistico e culturale, ma anche di operare confronti in direzione di altri contesti. Ne guadagnerebbe indubbiamente la possibilità di meglio capire e comunicare con gli altri, con i diversi da noi, a tutto vantaggio della fratellanza e della pace tra i popoli, obiettivo fondamentale di ogni progetto educativo.
Per fare solo un altro esempio: si può fare riferimento ad una recente, poderosa monografia del già ricordato Ugas (Università di Cagliari) che, dopo decenni di ricerche sul campo, si è espresso in favore dell’abbinamento fra Shardana e Sardegna, riprendendo e sviluppando quanto autorevolissimi studiosi avevano già sostenuto fin dall’Ottocento. Ebbene, almeno alcune pagine delle mille ed oltre del volume di Ugas potrebbero fornire degli spunti preziosi per saperne di più su Shardana e Popoli del Mare, per costruire apposite unità didattiche che consentirebbero ai docenti di uscire dalla bolsa e generica ripetizione di quanto già sappiamo sugli Egiziani e sui faraoni impegnati a fare i conti con quelle entità che si affacciavano sul Mediterraneo antico (cfr. G. Ugas, Shardana e Sardegna. I Popoli del Mare, gli alleati del Nordafrica e la fine dei Grandi Regni (XV-XII secolo a. C.), Della Torre, Cagliari, 2016; cfr la mia recensione su questo stesso sito).
In definitiva, abbiamo un bisogno direi molto, ma davvero molto relativo, di ricorrere ai videogiochi, al Trono di spade o ai film sui Borgia che, secondo quanto ha sostenuto il già ricordato Ilardi, (nell’incontro di Sassari del 30 maggio) sarebbero ben congegnati ed anche ben documentati dal punto di vista storico-storiografico.
Quali alternative? Si rende indispensabile contrapporre ad un processo storico-educativo che comporta sradicamento, alienazione, distruzione di un patrimonio irrinunciabile ed irripetibile – così come quello di altri popoli minacciati dall’uniformismo della globalizzazione – il ricorso alla normativa europea e, per quanto riguarda l’insegnamento della lingua, alla legge 482/1999, grazie alla quale lo Stato italiano ha finalmente riconosciuto le minoranze linguistiche esistenti al proprio interno. Dal suo canto, la legge regionale sulla lingua sarda, approvata dal Consiglio alla scadenza della legislatura, per l’impegno profuso specialmente dall’on. Paolo Zedda, è andata incontro a polemiche di vario segno, riguardanti soprattutto il problema dello standard. Qui si vuole semplicemente mettere in luce che il dibattito in Consiglio ha, se non altro, richiamato l’attenzione sullo Statuto sardo che, sul nodo della lingua, non narat pròpriu nudda: una lacuna, unu bòidu grae meda. Come si fa ad organizzare il presente, a programmare un futuro diverso, alternativo alla squassante crisi economica, allo smarrimento etico-politico e spirituale che stiamo attraversando, se non si ha la minima contezza della propria storia e dei propri codici linguistici?
Come si diceva prima, non basta nella scuola l’impegno di alcuni o di tanti valorosi docenti. Per andare verso una normativa che introduca l’insegnamento ufficiale della storia, della lingua e della cultura sarda nelle scuole di ogni ordine e grado si rende indispensabile una rivoluzione culturale: occorre sbarazzarsi di ogni cultura della subalternità, di quei sensi di colpa e di vergogna messi in luce con chiarezza dalle ricerche di Bandinu e di Placido Cherchi. A quegli intellettuali accademici ed “ufficiali” che invece si sbracciano, raccomandandoci di non mitizzare il passato, si può replicare tranquillamente che si è invece verificato esattamente il contrario: la tendenza costante a sminuire, cuare, cioè nascondere, svilire un patrimonio di storia, lingua e cultura che non va considerato in modo disgiunto dalla biodiversità. Tutti questi elementi fanno di ogni singolo luogo – del mondo, si badi bene – qualcosa di unico, di irripetibile, di irrinunciabile, di non interscambiabile come sono invece le merci: l’unicità dei territori, va dunque ribadito, non riguarda solo la Sardegna. Ogni persona, come ogni luogo, ha un suo carattere sacrale. Lo hanno affermato anche studiosi non certo sospettabili di adesione a posizioni di stampo essenzialista e fondamentalista.
D’altra parte, non abbiamo assolutamente bisogno di mitizzazione alcuna: alla grande statuaria nuragica, ad un monumento giuridico come la Carta de Logu, promulgata dalla giudichessa Eleonora d’Arborea (si pensi ai capitoli più spiccatamente improntati al rispetto della donna, nonché alla tutela ed alla protezione dei minori), al triennio sardo 1793-96 dobbiamo dare quel rilievo che ci consenta l’autocoscienza e quella coscienza indispensabile per il dialogo, la cooperazione e gli scambi con altri popoli. Con questi potremo più efficacemente comunicare inserendoci in quelle “reti globali di indignazione e di speranza” su cui si è acutamente soffermato il sociologo catalano Manuel Castells.
Dae paritzos annos su giassu de sa nostra Fondatzione “Sardinia”, pro meritu mannu de Sarvadore Cubeddu e de totus sos collaboradores, est impignadu meda in custa dimensione generale, interculturale e interlinguìstica, pro dare mèdios a un’alternativa chi devimus sighire a fraigare in sas iscolas e in sa sotziedade.