Siamo tutti depressi. La diagnosi più facile, di Giorgio Dell’Arti

La notizia arriva nel cuore dell’estate del 2017. Si è tolto la vita Chester Bennington, il cantante dei Linkin Park. Sono passati due mesi dal suicidio di Chris Cornell, erano amici. Per chi ha avuto i brividi ascoltando Crawling, Numb, Fell on Black Days è dura. I giornali parlano di depressione, Cornell dichiarava di averla combattuta tutta la vita e la vedova straziata di Bennington avvisa che quel male si può presentare con il volto di un uomo capace di amare e scherzare coi figli.

Sembra un demone da temere e da combattere, pericoloso per chi ne è posseduto e per gli altri. Il 24 marzo 2015, ricordate che cosa successe? Andreas Lubitz, copilota del volo Germanwing, aspetta che il comandante esca dalla cabina, si sbarra dentro e punta al suolo. Nello schianto porta con sé centocinquanta passeggeri. Molti esperti parlano di depressione, ma Emilio Sacchetti, allora presidente della Società italiana di psichiatria, contesta la diagnosi.

Nel 2017 l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) dichiara che nel mondo 322 milioni di persone ne soffrono e nel 2020 diventerà la malattia più diffusa. Beati loro che hanno un quadro così chiaro.

Proviamo a vederla diversamente: che cosa pensereste leggendo che la febbre è la malattia più diffusa e causa danni terribili, per cui è bene inaugurare l’anno della febbre? Probabilmente direste: «Ma la febbre è un sintomo, dalle molteplici cause. I medici dovrebbero sì abbattere la febbre, ma curare la malattia sottostante».

Ecco. Applicate lo stesso ragionamento alla depressione. Sì, alcuni hanno una vulnerabilità genetica all’umore basso e persistente, e in quei casi si tratta di una malattia in sé, parzialmente indipendente dalla storia di vita.

Ma guardiamo il quadro più ampio. Un uomo abusato da bambino. È successo a Chester Bennington. Si forma, con ottime ragioni, l’idea che non può fidarsi degli adulti, che se si mostra debole finirà nelle mani di Barbablù. Non è un semplice concetto appreso, il corpo lo ha memorizzato in termini di allerta incessante e reazioni protettive di chiusura. Come effetto di tali meccanismi finirà per deprimersi e per essere cronicamente ansioso. Non potendo affidarsi agli altri, come lenirà il dolore? Alcol e droghe sono a portata di mano.

Se diagnosticate come depressa una persona con questa storia, avete solo colto un epifenomeno, sicuramente non ne sapete abbastanza per curarla. Se volete un nome più plausibile per una persona con tale storia — non per Bennington, diagnosticare chi non abbiamo visto a studio è pratica scorretta — eccola: disturbo borderline di personalità.

Immaginate un bambino cresciuto in un ambiente ostile. Il padre alcoolista picchiava la madre, poi, senza spiegazioni, è sparito. Quel bambino ha visto un uomo frequentare la madre, immagina che ne sia stato l’amante, ma la donna, a domanda esplicita, nega. Nessuno si occupava di lui, spesso se chiedeva aiuto la madre lo umiliava: «Femminuccia». Da grande è un uomo che ha imparato che se svela il lato vulnerabile, verrà svilito, abbandonato, trascurato. Come si protegge? Alterna chiusura, controllo sospettoso e rabbia reattiva. Si isola. A lungo andare, che ne sarà del suo umore? Esatto, sarà depresso. Come frutto delle idee sulle relazioni che si è costruito. Si tratta di una personalità paranoide, facile a covare odio. I suoi atti rabbiosi non dipendono dalla depressione.

Infine: una bambina cresciuta col padre stanco e sconfitto dal lavoro, la madre si occupa della nonna malata che vive in casa con loro. Se chiede aiuto, chi accorre? Si forma l’idea di non essere amata, di non valere abbastanza. Da adulta, non ha stima di sé, cerca relazioni affettive che compensino l’autosvalutazione, ha un bisogno disperato di un uomo che le stia accanto. Non sa chiedere per sé, corre in soccorso del bisognoso, la guida un automatismo che non controlla. Niente di tutto questo è sufficiente, mai si sentirà davvero amata. Anche qui, la depressione è l’effetto della sua visione del mondo relazionale, non la malattia.

Sarà chiaro ora che motivi affatto diversi tra loro conducono allo stesso esito e altre strade ancora sono possibili. Esattamente come la febbre si innalza per i motivi più disparati, dal colpo di calore all’infezione.

Ma allora, perché l’Oms pone tanta enfasi sulla depressione e la ritroviamo così spesso nelle ricette degli psichiatri e nei media? Perché le sue cause restano per lo più ignorate? Ho le mie ipotesi. Fare diagnosi in campo psicologico è un’operazione complessa, richiede sforzo. L’etichetta di depressione invece è semplice, credibile, veloce. Nei media suona bene: l’ex partner depresso e geloso ha ucciso la moglie. Il pilota depresso si è tolto la vita. Certo, vai a spiegare perché si è portato dietro centocinquanta innocenti.

Per lo specialista è una diagnosi comoda, seguita da una terapia a portata: psicofarmaci. Intendiamoci, non sono contrario al loro uso, ci mancherebbe. Però la pigrizia dello specialista che prescrive una cura che promette benessere non è buona consigliera. Ripeto, in tanti casi gli psicofarmaci aiutano e sono necessari. In molti altri no. Lo sforzo di identificare il vero male è indispensabile per curare chi si manifesta depresso e ha, in realtà, altro. Bisogna ragionare.

La donna cresciuta col padre stanco, con la madre che curava la nonna, entra in studio. Lo psicoterapeuta le dice: «La sua mancanza di vitalità è comprensibile. Nessuno le ha insegnato a sentirsi degna di attenzione. Lei cura gli altri e se smette di farlo è divorata dal senso di colpa». La donna è stupita, ma un guizzo le affiora in volto. Lei non lo sa, il terapeuta lo decodifica: è contenta. Il terapeuta insiste: «Le chiedo: proverebbe, la settimana prossima, quando sente l’impulso di sacrificarsi per qualcuno, a fermarsi? A non farlo e magari a concentrarsi su qualcosa che le piace. E dirmi come si sente». In quel momento sta gettando le basi perché quella donna torni a godere della vita.

Parlare col senno di poi è di una facilità impressionante. Avremmo potuto incontrare Bennington e Cornell e fermarli? Un perito che ha studiato anche le pagine dei manuali diagnostici che parlano di disturbi di personalità o psicosi avrebbe capito che Lubitz era tutto fuorché depresso. Gli avrebbe impedito di salire a bordo quell’ultima volta?

A volte nel giudizio degli specialisti prevale una certa pigrizia che in fondo agevola anche la prescrizione della terapia. Ma lo stato depressivo assomiglia alla febbre: di solito non è altro che il segnale di un malessere assai più profondo. Lo sforzo per identificare le cause sottostanti risulta indispensabile se si vogliono aiutare seriamente le persone affette da un pesante disagio psichico.

 

La lettura 10 marzo 2019

 

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