GIOVANNI SPANO. UN INTELLETTUALE SARDO DELL’OTTOCENTO IN DIMENSIONE EUROPEA, di Luciano Carta

Pubblichiamo il testo della relazione che il prof. Luciano Carta ha tenuto lo scorso lunedì 20 maggio 2019, a partire dalle ore 20,30, presso il T-Hotel di Cagliari, al Simposio dei Rotary Club di Cagliari Est e Cagliari Nord.

 

1. Parlare di Storia significa parlare di idee, di fatti, di persone. Di idee e di fatti ne parliamo spesso; di persone un po’ meno. Nella storia dell’Ottocento si parla spesso dei grandi ideali che hanno reso possibile il Risorgimento italiano, si evocano i grandi fatti, le campagne di guerra, l’epopea dei Mille, si ricordano gli uomini che di quegli eventi furono testimoni e protagonisti. E non parlo, in questo caso, degli uomini “sommi”, dei “Grandi” – Cavour, Mazzini, Garibaldi, Vittorio Emanuele II, ecc. – ma di quegli uomini che sono stati protagonisti nei contesti locali o regionali in cui quegli eventi hanno poi prodotto i loro effetti.

A questo proposito, anche la Sardegna ha avuto il suo non affollatissimo Olimpo di personaggi risorgimentali – Manno, Asproni, Tuveri, Tola, Martini, Siotto Pintor, De Castro, Brusco Onnis, Spano, ecc. – e credo che sia giusto, per avvicinare di più il clima risorgimentale alla dimensione comune, parlare anche di questi personaggi, di questi protagonisti “minori”, ma non meno importanti.

Ci occuperemo qui di uno di essi, il “grande” (per la nostra Isola) linguista e archeologo Giovanni Spano, che fu anch’egli, nella sua specifica dimensione di studioso, un protagonista del nostro Risorgimento, il Risorgimento della scienza e delle idee in dimensione locale. E ne parliamo a condizione che sia chiara una premessa: che il Risorgimento non è solo storia delle battaglie, delle guerre d’indipendenza, dei grandi politici risorgimentali, ma è anche la storia di coloro che hanno fatto avanzare la scienza nei vari campi del sapere, che hanno gestito la nuova Scuola e la nuova Università disegnate dal nuovo Stato unitario, istituzioni che hanno coinvolto e pervaso gradatamente tutta la popolazione del nuovo Stato, che hanno propagato e cementato il comune sentire della patria unitaria, della patria più grande rispetto alle piccole patrie degli Stati pre-risorgimentali. Perché l’unità, i principi e i valori comuni che ne costituiscono l’essenza, se hanno avuto come premessa l’indipendenza ottenuta attraverso le battaglie e le campagne militari, sono stati poi diffusi e cementati attraverso la cultura, la Scuola, lo sviluppo delle idee, la ricostruzione della memoria storica. E a questi compiti di cementificazione e di consolidamento del sentimento unitario assolvono, non tanto i generali e i soldati, quanto piuttosto gli intellettuali, gli studiosi, gli scienziati come Giovanni Spano.

Giovanni Spano, tra gli intellettuali sardi del XIX secolo, è quello che meglio degli altri si presta ad incarnare il sentimento profondo dell’identità sarda e il forte risveglio della coscienza di quella identità che caratterizza quel secolo. Infatti, ricordando brevemente i maggiori, se è vero Giuseppe Manno ha offerto il grande affresco storico della nostra storia dalle origini alla fine del secolo XVIII; se Pasquale Tola ha realizzato, sulle orme del Muratori, la imponente raccolta documentaria del Codex diplomaticus; se Pietro Martini ha ampliato il quadro storico e soprattutto ha cercato di amplificare e nobilitare l’apporto della cultura sarda alla civiltà italiana attribuendole una assai improbabile primazia nella nascita della letteratura italiana attraverso i clamorosi Falsi d’Arborea; ancora, se Giovanni Siotto Pintor ha soprattutto delineato le caratteristiche specifiche della storia letteraria della Sardegna e Vittorio Angius ha offerto una descrizione minuziosa e documentata di carattere geografico-statistico dei paesi e città della nostra isola, è anche vero che ciascuno di loro ha coltivato un campo circoscritto di interesse e di conoscenza. Giovanni Spano, invece, è colui che si è occupato di un ampio spettro di ricerca e di conoscenze, avendo dedicato la sua attività a illustrare settori molto diversificati della nostra tradizione culturale, spaziando dalla linguistica e dalla dialettologia all’archeologia, dalle indagini demologiche alla lessicografia, dalla numismatica alla sfragistica, dalla paleontologia all’epigrafia, alla raccolta delle testimonianze più importanti del patrimonio poetico del Logudoro, ecc.

Non solo, ma Giovanni Spano è la personalità dell’Ottocento sardo che sotto il particolare angolo visuale dello stile di scrittura, è l’intellettuale dell’Ottocento che, rispetto a tutti gli altri, si presta meglio a rappresentare quella difficoltà di integrazione con la cultura e la lingua dell’Italia unita, e quindi quella oggettiva «resistenzialità», diremmo con Giovanni Lilliu, nei confronti del processo unitario, attraverso l’uso di un registro linguistico che è la più schietta espressione dell’italiano regionale di Sardegna che nella nostra tradizione non ha eguali. Mi piace, a quest’ultimo proposito, per introdurre il personaggio e delineare gli aspetti caratteristici della sua fisionomia di intellettuale, illustrare questo concetto con un gustoso episodio da lui narrato nell’autobiografia. Come si dirà meglio oltre, nell’estate 1831 egli, desideroso di studiare l’ebraico e le lingue orientali, si era avventurosamente recato a Roma per frequentarvi i corsi all’Università romana della “Sapienza”.

«Nello stesso giorno in cui arrivai [a Roma, il 18 agosto 1831] – egli scrive – sentendo rinomare la Piazza Navona, dove gli antichi romani eseguivano i giuochi agonali, di cui è una corruzione, mi portai in quella, vicino alla locanda dove io aveva preso alloggio. Da una villanella che vendeva uva ne volli comprare un baiocco per dissetarmi, ed avendo messo sulla bilancia un grappolo in apparenza verde, le dissi che non lo voleva perché non era cotto; ella mi rispose che non lo doveva mettere nella caldaia per cuocere, ma che era maturo e buono. Fin da quel giorno appresi la mia nullità, apprendendo da una rustica che la frutta si dice matura e non cotta come diciamo in sardo»[1].

Il giovane Spano apprese, sì, ma non si sforzò mai di correggere quella sua lingua italiana fortemente connotata dalle caratteristiche lessicali morfologiche e sintattiche del sardo che conservò per tutta la vita, come sa chi ha avuto occasione di frequentare la sua prosa nella sua sterminata produzione a stampa (il Ciasca enumera 434 titoli)[2] o nelle opere manoscritte.  Uno stile di scrittura, che se è stato spesso biasimato – «pensando alla originale rozzezza del suo dettato – ha scritto Filippo Vivanet – non sapremmo assomigliarlo che a uno di quei furiosi sbozzatori, buoni a fare andare il marmo in schegge e scintille, ma a cui manca la pazienza necessaria a finire ed animare la statua»[3] – è stato anche lodato, ad esempio da Antonio Romagnino, come «uno dei più vigorosi prosatori che possa vantare la Sardegna»[4]. Senza indugiare ora su questi giudizi sulla sua prosa, dobbiamo però constatare che lo Spano appare veramente, a chiunque si avvicini alla sua opera e alla sua vicenda biografica, come un intellettuale e uno studioso totus sardus nella lingua, nei costumi, negli interessi.

Lo Spano, tuttavia, non solo ha offerto un contributo importante alla costruzione dello Stato unitario per il ruolo da lui avuto come studioso e come uomo delle istituzioni scolastiche, ma è stato anche un intellettuale sardo in dimensione europea. Anche questa caratteristica cercheremo di scoprire attraverso questo rapido profilo biografico, nel quale ci si sforzerà di dimostrare come un’accentuatissima connotazione di “sardità” conviva nello Spano con un’apertura culturale e scientifica che è di respiro europeo. È questo l’aspetto che si evince soprattutto dal ricchissimo epistolario inedito – che però è meglio chiamare epistolario dei suoi corrispondenti – sul quale si fonda in larga parte questo contributo[5]; ed è quello che emerge, inoltre, da un’attenta analisi della sua vicenda biografica, che si dipana da un piccolo villaggio della Sardegna settentrionale per incontrarsi e dialogare con impressionante continuità con molti illustri cultori, italiani e stranieri, delle scienze e delle discipline che furono al centro dei suoi interessi, secondo una concezione dell’identità che definirei “dinamica”; ossia un modo di vivere l’identità sarda che, mentre conserva gelosamente le caratteristiche culturali della propria terra, al tempo stesso trasmette questi valori e recepisce quelli degli altri, realizzando un amalgama di grande originalità e spessore, secondo un intreccio dialettico in cui il dentro e il fuori della Sardegna dialogano e si arricchiscono reciprocamente e costantemente e si fanno interpreti dello spirito del tempo, divenendo così autentici uomini del proprio tempo e svincolandosi dall’abbraccio mortale  di un’identità chiusa e autoreferenziale[6].

2. Giovanni Spano nasce a Ploaghe, presso Sassari, l’8 marzo 1803, sesto di dieci figli, da una famiglia benestante, ma non ricca, di agricoltori. Dei quattro figli che verranno avviati agli studi, tre, il Nostro e i fratelli Antonio Maria e Salvatore, abbracceranno lo stato ecclesiastico, mentre un terzo, Sebastiano, si laureerà in medicina. All’età di 9 anni, nell’autunno 1812, inizia il suo percorso di formazione – l’iniziazione ai miei studii, come egli lo definirà nell’autobiografia a stampa, pubblicata sulla rivista sassarese «La Stella di Sardegna» negli ultimi anni di vita, tra il 1876 e il 1878, recentemente riproposta da Salvatore Tola[7] – frequentando le prime due classi del Ginnasio inferiore presso gli Scolopi a Sassari. Il primo impatto con la scuola non fu certo felice e sereno. Le lezioni, come egli racconta, si svolgevano in uno stanzone buio con il pavimento in terra battuta e polveroso, con «lunghi banchi da taverna» privi di spalliera e di un piano di appoggio, dove gli scolari – un centinaio nell’unica aula – seguivano le lezioni e scrivevano «in ginocchioni, appoggiati al banco […] o sopra le proprie ginocchia alla foggia degli arabi»[8]. Soli segni tangibili della funzione docente e dell’autorità del maestro «un rozzo tavolino (con sopra la sferza) e uno scranno di legno»[9]. La sferza, appunto, che era il più appariscente e temuto simbolo della scuola, utilizzato con abusata frequenza nei confronti del malcapitato bambino solo perché non capiva una sola parola di italiano.

«Quel boia – egli scrive – [si trattava del prefetto o superiore della scuola scolopica] (mi par di vederlo) prende la sferza e mi assesta una serqua di sferzate, sei per mano», solo perché – siamo al primo giorno di scuola – egli non conoscendo una parola di italiano, non si era alzato in piedi all’ordine «tutti in piedi!»[10].

Fu questa la prima dolorosa iniziazione dello Spano alla scuola del tempo, dove s’imparava esclusivamente il latino, con metodi pedagogici e didattici antiquati, fondati oltre che sulla sferza (la sprammetta) sull’apprendimento meramente mnemonico dei rudimenti grammaticali, morfologici e sintattici della lingua latina. Le regole grammaticali e sintattiche si apprendevano, infatti, attraverso delle strofette rimate, prive di qualsiasi significato, la cui funzione era semplicemente quella di ricordare le regole grammaticali. Ne richiamiamo, a titolo di esempio, una sola, molto semplice e facile, inventata per imparare l’essenziale della prima declinazione.

«Vuol la prima A feminini,

AE, AE, AM, A si declini

AE, ARUM, IS, AS del plurale

Ed il terzo al sesto uguale[11]».

Questo indimenticabile bozzetto della scuola sarda della Restaurazione è descritto nella Iniziazione ai mei studii dello Spano e non conosco altra opera dell’Ottocento sardo in cui l’ambiente scolastico sia descritto con maggiore dovizia di particolari e vivacità di stile.

Terminate le prime due classi del Ginnasio inferiore (le classi di Rudimenti e Formazioni e di Generi), nel novembre 1816 lo Spano entrò nel Seminario arcivescovile di Sassari, dove concluse i corsi del Ginnasio inferiore (la classe di Sintassi) e superiore (le classi di Umanità e Retorica) e il biennio di Logica e Metafisica (l’attuale Liceo, che allora durava due anni), conseguendo nel 1821 il diploma di Maturità (allora si diceva di Magister artium). Iscrittosi al corso quadriennale di Teologia, conseguiva la laurea nel giugno 1825. Nel marzo 1827 veniva ordinato sacerdote da mons. Carlo Tommaso Arnosio insieme a Diego Mele, di Bitti, suo amico e condiscepolo carissimo, futuro parroco di Olzai, «il re dei satirici sardi» come lo definisce il barone von Maltzan nel suo Reise auf der Insel Sardinien (1869). L’amicizia con Diego Mele, insieme a cui lo Spano aveva frequentato il periodo della formazione ginnasiale e il corso teologico, durò tutta la vita; con lui gareggiava nel verseggiare, sebbene l’amico bittese fosse impareggiabile nella produzione di versi sardi, mentre lo Spano eccelleva nella composizione di versi latini; in versi latini egli svolse, nel gennaio 1831, la dissertazione per l’aggregazione al Collegio di Filosofia dell’Università di Sassari, intitolata De stellis fixis. Numera stellas si potes (Le stelle fisse. Enumera le stelle se ne sei capace). Come è facile arguire, l’argomentazione non doveva fondarsi su conoscenze di carattere scientifico o sperimentale, ma era interamente affidata all’estro dell’invenzione poetica: non si richiedevano conoscenze scientifiche, ma si chiedeva esclusivamente un’esercitazione retorica in cui la vera maestria consisteva nello sciorinare eleganti e sonanti versi latini.

3. Considerate le caratteristiche della formazione scolastica dell’epoca, lo Spano, dopo le incerte e dolorose prove della sua prima iniziazione, aveva coronato con ottimi risultati la sua formazione. Avrebbe potuto, a questo punto, come tanti suoi colleghi, «far la professione di prete massaiuolo»[12] (ossia il parroco di campagna). Ma il giovane Spano era del tutto insoddisfatto di questo bagaglio culturale; era stanco di una formazione meramente retorica, che faceva dell’uomo di cultura un vuoto verseggiatore (allora, ha scritto il Siotto Pintor, “verseggiavano tutti”, in qualunque circostanza), sciorinatori di parole che suonano ma non significano; sotto il profilo filosofico-teologico, inoltre, la formazione era interamente improntata a un vieto scolasticismo e un vuoto sillogizzare; aborriva ormai, anch’egli, come aveva scritto Giovanni Maria Dettori, le «muffate ghiande del Peripato», la stantia cultura scolastica. Al termine degli studi lo Spano si era ritrovato, sono parole sue, «colla mente ricca di sofismi e di arzigogoli peripatetici»[13]. Voleva respirare aria diversa, voleva, senza tradire del tutto la sua formazione umanistica e il suo status di sacerdote, impostare su basi nuove la sua formazione, in primo luogo avvicinandosi al testo sacro nella lingua originaria, l’ebraico, utilizzando anche, per la comprensione del testo biblico, tutte le scienze ausiliarie capaci di ampliarne la comprensione.

Fu così che nel giugno 1831 egli partì alla volta di Roma passando per la Corsica, insieme con un amico di Bonifacio. La scelta del tragitto per arrivare alla città eterna non era stato del tutto casuale: anche in questa sua decisione ebbe una incidenza determinante l’ambiente familiare e agro-pastorale dell’isola. Infatti, in quella circostanza, oltre che di raggiungere Roma, egli si proponeva di accompagnare segretamente in Corsica il fratello Baingio, coinvolto in un tipico delitto delle campagne sarde, per poter sfuggire ai rigori della giustizia. Il fratello Baingio riparò di fatto in Corsica e vi rimase fino al 1848, quando, per interessamento dell’amico dello Spano, il Procuratore Generale del Tribunale di Cagliari Demetrio Murialdo, uno dei suoi più assidui corrispondenti, poté finalmente rientrare a Ploaghe. Lo Spano, passando per Bastia e Livorno e poi, via terra, attraverso Orbetello e Civitavecchia, giunse a Roma il 18 agosto 1831.

 

«Erano le 5 di mattina 18 agosto 1831 – egli scrive – quando vidi comparire tra le nuvole il miracolo di Michelangelo, la gigantesca cupola di S. Pietro che quasi volea slanciarsi nel cielo. Il cuore mi palpitava sentendo parlar dell’eterna città fin da quando era involto in fasce, e sempre andava fantasticando di Roma come il pastorello di Virgilio[14]».

Nel novembre 1831 egli iniziò a frequentare i corsi di ebraico, greco, siro-caldaico, arabo, archeologia e paleografia fenicio-cufica sotto la guida di valenti professori come Andrea Molza, Emiliano Sarti, Giovanni Scarpellini, Michelangelo Lanci e Patrick Nicolas Wiseman, il futuro cardinale e primate d’Inghilterra, arcivescovo di Westminster, allora rettore del Collegio Inglese di Roma, autore del celebre romanzo Fabiola o la Chiesa delle catacombe (1854). A questi maestri dell’Università romana egli rimase sempre affezionato, come dimostrano le lettere conservate nel Fondo Spano della Biblioteca Universitaria di Cagliari; furono essi a introdurlo nel vasto campo della cultura e dell’erudizione italiana ed europea. Un’affezione particolare lo legherà al suo professore di ebraico mons. Andrea Molza, sotto-prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana, che lo dirozzò amorevolmente e lo introdusse all’esegesi biblica e alla scienza filologica, impartendogli nella prima fase anche lezioni private e divenendone poi un sorta di assistente durante gli anni del soggiorno romano. A causa di una malattia nervosa il Molza «fece una tragica fine – scrive lo Spano nel commosso ricordo dell’autobiografia – suicidandosi nella domenica del 3 luglio 1850 verso mezzogiorno. Fu compianto da tutti, io lo piansi come un padre! Sia salva la tua anima! Anima santa ti rivedrò in Paradiso! Non vi è giorno che non prego per te!»[15]. Grazie a questi maestri e ad una volontà ferrea, i progressi del giovane sacerdote sardo nelle lingue orientali furono prodigiosi, per cui, dopo un periodo di specializzazione di 2 anni e otto mesi, dall’agosto 1831 all’aprile 1834, fu chiamato a ricoprire la cattedra di Sacra Scrittura e Lingua Ebrea – così si chiamava allora – all’Università di Cagliari. Chiamato a Torino da Ludovico Sauli d’Igliano, ministro di Carlo Alberto per gli Affari di Sardegna, partì da Roma il 3 aprile 1834 e vi giunse il 19; sostenne una sorta di esame di abilitazione presso il grande ebraista e grecista torinese abate Amedeo Peyron, studioso molto legato alla Scuola filologica tedesca, che diverrà fino al 1865, anno della morte, uno dei suoi mentori, e alla fine di maggio, fornito delle patenti di Professore di Sacra Scrittura e di Ebraico firmate da Carlo Alberto, che recavano la data del 17 maggio 1834, ripartì alla volta della Sardegna. Dopo una sosta nel paese natale di Ploaghe, giunse a Cagliari il 26 giugno e due giorni dopo, prestato il giuramento, prese possesso, a soli 31 anni, della cattedra di Sacra Scrittura e Lingue Orientali dell’Università di Cagliari, dove risiederà fino alla morte, avvenuta nell’aprile 1878.

4. I primi due anni di residenza a Cagliari, negli anni accademici 1834-35 e 1835-36, furono interamente dedicati all’insegnamento della Lingua ebraica e della esegesi della Sacra Scrittura, in quella cattedra che era stata per oltre quarant’anni occupata dall’illustre frate domenicano lituano Giacinto Hintz. Dopo quel biennio gli interessi dello Spano si rivolsero, oltre che alle lingue orientali, alla linguistica sarda e all’archeologia anche grazie all’incontro che egli fece nell’ambiente cagliaritano con l’illustre antiquario e letterato, nonché censore dell’Università, Ludovico Baille, «persona dotta ed erudita», scriverà di lui lo Spano, che «mi aveva tanta stima e che sovente si univa con me»[16]. Ma l’ambiente cagliaritano, tolto il Baille, era troppo angusto per i suoi interessi: sentiva forte il bisogno di approfondire ulteriormente la scienza filologica, per cui nel 1836 decise di compiere un viaggio di studio, il primo dei 6 viaggi che egli compi in Terraferma e in Tunisia rispettivamente nel 1836-37, nel 1840, nel 1854, nel 1856, nel 1862 e nel 1871.

Con il lungo viaggio iniziato nel marzo 1836 e terminato nell’agosto 1837 (si trattò di un lungo anno sabbatico) lo Spano si proponeva di trascorrere un periodo di studio in Germania.

 

«Entrò il 1836 – egli scrive – e nel mese di marzo, allorché aveva ultimato di dettare e spiegare tutte le materie, vedendo il bisogno che aveva di andare in terraferma per istruirmi, divisava di andare in Germania per dove mi aveva procurato lettere di raccomandazione[17]».

Non è chiaro se nella decisione dello Spano di trascorrere un lungo periodo di studio in Germania vi fossero anche motivazioni di carattere teologico. La Germania della prima metà dell’Ottocento viveva un periodo di forte risveglio della cultura cattolica, che faceva capo a diversi centri della vasta area tedesca, come la scuola di Vienna, guidata dal redentorista Clemens Maria Hofbauer e Adam Müller e il cui rappresentante più significativo fu Gregor Thomas Ziegler; il gruppo renano di Bonn, che faceva capo al filosofo Karl Joseph Windischmann; la scuola di Monaco, che annovera i nomi di Joseph Görres e dello storico Joseph Döllinger; la scuola di Tubinga, il cui maggior rappresentante fu J. G. Möhler. Non pare che l’interesse dello Spano per il risveglio cattolico tedesco avesse motivazioni teologiche, considerato che egli, sotto il profilo dottrinale, si mosse sempre nell’ambito di un moderato tradizionalismo, aperto però nell’ambito della scienza biblica alle moderne teorie scientifiche, ma mai improntato a quella teoria dell’evoluzionismo dogmatico che avrebbe poi incappato nei rigori del Sillabo. È però fuori dubbio che, nascendo tale teoria dalla necessità di conciliare il dogma con la dimensione temporale e quindi con la storia, essa aveva come presupposto l’uso della filologia come strumento di comprensione del testo sacro, ciò che aveva comportato un notevolissimo progresso di questa disciplina e delle scienze ausiliarie, favorendo l’affermazione del liberalismo scientifico in ambito tedesco e inglese (si pensi solo al celebre J. H. Newman), corrente cui lo Spano può tranquillamente essere ascritto, senza che tale adesione lo conducesse in nessun caso a negare il valore del mistero della rivelazione.

Partito con l’intento di conoscere il mondo cattolico tedesco, un’epidemia di colera diffusasi nei territori dell’Impero non glielo consentirono. Ma non per questo il viaggio fu meno fruttuoso sotto il profilo scientifico e di relazione con i dotti dei centri più importanti della cultura italiana degli antichi Stati preunitari. Partito nel marzo 1836, egli si diresse prima a Torino, dove per qualche tempo frequentò le lezioni di ebraico del professor Amedeo Peyron e del professore di letteratura greca Carlo Boucheron. Recatosi quindi a Milano nei primi di giugno, ebbe lunghi colloqui per quindici giorni con il metodologo e grammatico Francesco Cherubini, che quattro anni dopo avrebbe effettuato, in occasione di un altro viaggio, la supervisione dell’Ortografia sarda nazionale o Grammatica del sardo logudorese prima della pubblicazione[18]. A Mantova, «patria di Virgilio» come egli sottolinea, si trattenne un mese «visitando i marmi antichi e studiando nella Biblioteca – egli scrive – nella quale trovai una copiosa raccolta di opere sarde, delle quali feci tesoro preparando lavori affini alle mie ricerche»[19]. Nel mese di agosto a Verona visitò l’anfiteatro «che mi aiutò – egli scrive – per poter istituire paragoni col cagliaritano» (che egli avrebbe liberato dalle macerie solo nel 1867) e inoltre copiò «alcune iscrizioni che avevano relazione colle sarde»[20]. A Padova entrò in contatto con «il celebre filologo e archeologo Giuseppe Furlanetto, autore del Lexicon totius Latinitatis»[21] e con il dotto bibliotecario Federici. Infine a Venezia, oltre ad aver fatto conoscenza con i bibliotecari Bettio e Bartolomeo Gamba, contrasse amicizia con il letterato istriano Pier Alessandro Paravia, docente di Eloquenza italiana all’Università di Torino, con cui intrattenne un interessantissimo epistolario negli anni successivi fino alla morte di questi nel 1857.

Il colera e la rigidezza del clima gli impedirono, nel novembre 1836, di raggiungere la Germania.

«Entrò il mese di novembre 1836, ed io pensava di partire in Baviera, o Vienna: ma in quel mese si sviluppò un freddo così intenso che temetti di andare in quelle regioni agghiacciate. Cambiai dunque consiglio, e mi determinai di andarmene a svernare nella bassa Italia, ed al maggio ritornare a Venezia, dove lasciai il mio baule coi pochi libri che aveva acquistato[22]».

Si diresse quindi a Ferrara e Bologna, passò per Imola, Faenza, Forlì, Cesena e Rimini, fu a Pesaro, a Fossombrone, Spoleto e Terni e nella prima decade di dicembre raggiunse Roma, dove si trattenne fino al mese di maggio 1837: sei mesi che egli utilizzò negli studi, a contatto con il vecchio docente di ebraico Molza e con gli ex condiscepoli e approfondendo la conoscenza dei monumenti archeologici dell’antica Roma. A metà maggio si diresse a Napoli, visitò Pompei, Pozzuoli e la Grotta della Sibilla, di cui ha lasciato nell’autobiografia una gustosa descrizione per il tentativo di derubarlo messo in atto dai suoi accompagnatori, quattro «lazzaroni» napoletani. L’epidemia di colera scoppiata nella città partenopea- quella stessa che costò la vita a Giacomo Leopardi – lo bloccò in Campania fino al mese di agosto; rientrò a Cagliari alla fine di quel mese e dopo una quarantena trascorsa nel Lazzaretto, poté finalmente riprendere la sua attività di docente.

Al ritorno dal lungo viaggio del 1836-37 l’attività di studio dello Spano appare ormai definitivamente orientata: si dedicherà per circa vent’anni agli studi di linguistica sarda e alla ricerca archeologica sul campo. A tal fine, proprio a partire dal 1838 inizierà le sue peregrinazioni in tutta l’isola, percorrendola palmo a palmo durante quarant’anni, in genere in due momenti distinti dell’anno: in primavera e in autunno. Principale scopo dei viaggi nell’isola in questi anni fu quello di terminare la redazione della Grammatica del sardo logudorese e di «raccogliere voci a compimento del Vocabolario»[23]. Acquisiva il materiale linguistico da tutti i ceti della popolazione dei paesi che visitava; un lavoro talvolta gratificante, perché andava a visitare gli antichi compagni di studi e perché trovava gran messe di reperti archeologici, ma talvolta anche denso di pericoli.

 

«Io soleva visitare – scrive in un gustoso passo dell’autobiografia relativo alla visita fatta ad Orgosolo nel 1838 – le officine dei ferrai, dei falegnami, degli scarpari e di tutti gli artieri per dimandar loro nomi tecnici degli stromenti d’officina, segnandoli nel taccuino quando notavo qualche differenza colla lingua comune. Entrai nell’officina di un fabbro ferraio di Orgosolo e cominciai a dimandare il nome dell’incudine, della morsa e così in seguito degli altri strumenti. Il padrone di detta officina mi andava squadrando da capo a piedi; quando vidi che, presa in mano una gran mazza, con faccia da Vulcano minacciò: «Dunque siete venuto qui per farmi l’inventario? Uscite presto di bottega altrimenti vi stramazzerò qui stesso». Io ebbi paura e me la diedi a tutte gambe. Corsi dal parroco, e ci volle tutta la sua eloquenza per far capire a quel ferraro il fine per cui io registrava i nomi degli stromenti di bottega. Scesi poi a visitare la Barbagia di Ollolai, e mi fu caro trovare in Olzai il mio amico e collega Diego Mele […], presso il quale mi trattenni molti giorni trascrivendo vocaboli e canzoni e profittando dei suoi lumi e delle sue vaste cognizioni in questa materia. Indi mi rivolsi alla Parte Barigadu, e Parte Ocier Reale, fissando il mio quartiere nel villaggio di Ghilarza in cui mi trattenni sino a tutto luglio. Ivi si parla una lingua mista, di Campidano e di Logudoro. Feci un gran tesoro linguistico; e visitando nuraghi ed altri monumenti preistorici, di cui abbonda questo territorio, scopersi molte di quelle lunghe spade di bronzo che gli antichi usavano XIV secoli prima di Cristo allorché, confederati con altri popoli, invadevano il Basso Egitto. Ritornai a Cagliari per assistere agli esami e poi ripigliare il corso delle lezioni del [1838-]1839; terminate le quali, nelle vacanze seguitai l’opera del Vocabolario, dirigendomi dalla parte di ponente dell’Isola, dove parlasi la pretta lingua logudorese: Cuglieri, la Planargia e Bosa, in cui posi stanza per studiare la lingua dell’Araolla. Con me condussi un erborista per registrare i nomi vernacoli delle piante da inserire nel vocabolario, poi seguitai il viaggio sino a Padria, Costavalle e Bonorva dove stetti alcuni giorni raccogliendo vocaboli e visitando monumenti sino al Marghine in direzione dei Menomeni Montes e dei Sardi Pelliti, e poi scendendo nelle pianure dove credeva più opportuno trovare materiali per lo scopo mio scientifico»[24].

Ho voluto indugiare con questa lunga citazione, per dare un’idea del lavoro che annualmente lo Spano compì per quarant’anni, pellegrinando in tutta la Sardegna per raccogliere i materiali necessari ai suoi studi e alle sue pubblicazioni. A questo stesso fine egli già dal 1834 instaurò un ininterrotto rapporto epistolare in logudorese con diversi suoi amici parroci, tra cui soprattutto Salvatore Cossu, parroco di Ploaghe, il già ricordato Diego Mele e Melchiorre Dore, parroco di Posada e zio materno di Giorgio Asproni, di cui è testimonianza la corrispondenza epistolare soprattutto con il Cossu ed il Dore, che è in gran parte in sardo e spesso in versi[25].

Nell’inverno 1839 aveva ordinato i materiali della Ortografia sarda nazionale o Gramatica del sardo logudorese[26]. Intanto nel mese di maggio dello stesso anno era stato nominato Bibliotecario della Biblioteca Universitaria di Cagliari in sostituzione del Baille, deceduto nel marzo. Desideroso di conoscere la gestione delle più importanti biblioteche del Centro-Nord dell’Italia e di consultarsi con Francesco Cherubini sulla Grammatica ormai pronta per la stampa, nel marzo 1840 varcò di nuovo il Tirreno. Visitò le biblioteche di Pisa, dove il bibliotecario Rosellini gli suggerì il metodo per ordinare le miscellanee, di Lucca, Pistoia e Firenze, dove si trattenne un mese a contatto con il Migliarini, direttore del Museo Egizio e del Gabinetto numismatico; visitò inoltre anche le biblioteche di Bologna, di Modena, dove conobbe il celebre numismatico ed epigrafista Celestino Cavedoni, che sarà uno dei più assidui collaboratori del Bullettino Archeologico Sardo. Infine, a Milano si consultò con il Cherubini sulla Grammatica, che avrebbe dato alle stampe appena rientrato in Sardegna, tra il 1840 e il 1841, e fece stampare un’interessante Carta idiomografica della Sardegna, che avrebbe inserito come tavola fuori testo nei due volumi della Grammatica. Subito dopo la Grammatica pubblicò nel 1842 l’opera in ottava rima di Melchiorre Dore, Sa Jerusalem victoriosa, una riduzione poetica del Vecchio e del Nuovo Testamento fino alla distruzione del tempio di Gerusalemme ad opera di Tito nel I secolo d.C., che lo Spano corredò di note, e che ebbe un grande successo editoriale, giungendo in breve tempo alla terza edizione, fatto del tutto inusuale per un’opera sarda[27].

L’Ortografia sarda nazionale o Grammatica del sardo logudorese era, nel suo genere, un’opera innovativa che fece dello Spano un apprezzato studioso di linguistica in generale e un’autorità assoluta nello studio della lingua sarda, contribuendo a farlo conoscere in Italia e all’estero. Quando poi, tra il 1851 e il 1856 egli pubblicò il Vocabolario sardo-italiano e italiano- sardo[28], la sua autorità nel campo degli studi linguistici sardi divenne incontrastata. Fu tramite queste due opere che egli entrò in contatto con studiosi come Bernardino Biondelli, Giovenale Vegezzi Ruscalla, Giuseppe Mezzofanti, il già ricordato Francesco Cherubini, Graziadio Isaia Ascoli, fondatore della moderna linguistica comparata, Angelo De Gubernatis, Bernardo Bellini, collaboratore e continuatore del Grande Dizionario della Lingua Italiana di Niccolò Tommaseo, e infine con il principe Luigi Luciano Bonaparte, tutti corrispondenti del Nostro[29]. Un cenno particolare merita il rapporto che legò lo Spano, a partire dal 1854, con questo rampollo dei Bonaparte, figlio del fratello di Napoleone I Luciano, principe di Canino, appassionato filologo che diede un contributo fondamentale alla linguistica comparata, pubblicando una Bibbia poliglotta in tutte le lingue europee. Per lui lo Spano tradusse in sardo logudorese e in sassarese, e fece tradurre nelle altre varianti del sardo (campidanese, gallurese, algherese, maddalenino e carlofortino) diversi brani del Nuovo Testamento e l’intero Vangelo secondo Matteo (queste ultime traduzioni sono state riproposte recentissimamente nelle varianti logudorese, campidanese e sassarese da Giovanni Lupinu per le edizioni del Centro Studi Filologici Sardi/Cuec)[30]. Queste traduzioni, diffuse tra i dotti filologi d’Europa dal Bonaparte, contribuirono fortemente a far conoscere la lingua sarda in Europa e a sottolinearne l’importanza nell’evoluzione delle lingue neolatine.

La novità dell’opera linguistica dello Spano risiede soprattutto nel fatto che egli abbandona l’impostazione data alla ricerca linguistica sulla lingua sarda da una tradizione che risaliva al letterato ex-gesuita settecentesco Matteo Madao, poi pedissequamente seguito soprattutto da Vittorio Angius nel Compendio sulla lingua sarda scritta e parlata pubblicato nel 2° tomo della voce Sardegna del Dizionario geografico-storico-statistico di G. Casalis, che si basava fondamentalmente nello sforzo di nobilitare la nostra lingua accentuandone la diretta filiazione dalla lingua latina. Lo Spano, sebbene non metta del tutto da canto questo assunto, soprattutto nella scelta della grafia che è fortemente improntata al criterio della scrittura etimologica invece che a quello della scrittura fonetica, tuttavia fondò la sua ricerca linguistica sull’uso corrente, scegliendo i vocaboli dalla lingua viva, attraverso il suo instancabile lavoro di raccolta nel corso dei suoi viaggi nell’interno della Sardegna; inoltre egli presentò, nella seconda Parte dell’Ortografia, un quadro chiaro ed esauriente della prosodia e della metrica del sardo ed una storia della lingua scandita con esempi tratti dai diversi secoli, in modo da porre in evidenza lo sviluppo storico della lingua stessa. Lo Spano è assertore convinto del principio che la lingua non è un prodotto statico da ricondurre semplicemente ad un improbabile archetipo, ma è frutto dell’evoluzione e della contaminazione che tutte le lingue registrano nel corso dei secoli e della storia dei popoli. Si tratta, dunque, di un approccio moderno al problema, che contribuì a avvalorare l’opera linguistica dello Spano nella considerazione degli studiosi ottocenteschi nell’ambito della nascente scienza linguistica italiana ed europea.

5. L’interesse dello Spano per gli studi linguistici, uniti a quelli per l’archeologia, lo misero in cattiva luce presso le autorità accademiche, in quanto erano giudicati come improduttive diversioni dal suo compito primario, che era quello di insegnare le Lingue Orientali nell’Università e di Bibliotecario della Biblioteca universitaria. Fu accusato di aver trascurato la sua attività di docente per dedicarsi alla raccolta di anticaglie e a studi, secondo i suoi accusatori, che niente avevano a che vedere con la disciplina del suo insegnamento, per cui fu costretto a lasciare la cattedra di Lingue Orientali e l’incarico di Bibliotecario. Da quest’ultimo incarico si dimise nella primavera del 1842, mentre tenne l’ultima lezione all’Università nel dicembre 1845. Poté continuare a dedicarsi ai suoi studi prediletti grazie al provvidenziale intervento del sassarese mons. Emanuele Marongiu Nurra, consacrato arcivescovo di Cagliari nel 1842 e lui stesso valente studioso di antichità e di archeologia, che nel 1844 gli fece attribuire da Carlo Alberto il canonicato di Villaspeciosa, lasciato vacante da mons. G. B. Montixi, a sua volta creato vescovo di Iglesias. Da questo momento il professor Spano diventerà il canonico Spano, come comunemente tutti noi siamo soliti chiamarlo.

Per quanto doloroso fosse stato l’affronto della rimozione dalla cattedra – la stessa amara esperienza vissuta a Torino vent’anni prima da un’altra grande figura di intellettuale sardo, G. M. Dettori, ad opera dei Gesuiti – lo Spano no si perse d’animo. Condotto a termine il lavoro sulla lingua con la pubblicazione della Grammatica, del Vocabolario e dei Proverbi sardi[31], egli si dedicò a tempo pieno all’archeologia, i cui primi lavori – preceduti da un’imponente opera di raccolta di reperti archeologici di ogni genere -  egli pubblicò a partire dal 1848 e i cui prodotti più significativi di questo primo periodo furono la monografia sull’antica Tharros del 1851 (tradotta in inglese nell’anno successivo)[32] e la prima edizione della celebre Memoria sopra i nuraghi di Sardegna, pubblicata nel 1854[33].

Questa monografia sui nuraghi (di cui uscirono vivente lo Spano altre due edizioni nel 1862 e nel 1867), ha un’importanza fondamentale nella storia degli studi archeologici sulla civiltà nuragica. Sino ad allora la gran parte degli studiosi, tra cui primeggiava il conte Alberto Ferrero della Marmora, che alle antichità della Sardegna aveva dedicato il volume 2° del suo Voyage en Sardaigne (1840)[34], avevano accreditato la tesi secondo cui i nuraghi sarebbero stati «o sepolcri, o templj, oppure monumenti o fabbriche destinate ad uso pubblico o religioso»[35]. Lo Spano, andando del tutto contro corrente, affermò che i nuraghi erano case di abitazione e fondava la sua teoria – che diverrà poi quella generalmente accolta dagli studiosi – su due presupposti. Il primo egli lo individuava nella tecnica costruttiva usata dai popoli dell’antichità, i quali, come convengono tutti gli storici, costruivano i loro «primi alloggiamenti, capanne fossero od altro […] in forma circolare a foggia di torri», per cui i nuraghi erano per lo Spano nient’altro che un’evoluzione della capanna circolare, abitazione dei primi abitatori della Sardegna, quando essi ebbero l’esigenza di aggregare in società un certo numero di famiglie.

«I nuraghi dunque non sono che un principio di società, ed annunziano il primo tempo degli uomini che vennero ad abitare la Sardegna, si avvicinarono a vivere pacificamente insieme, associando l’arte pastorizia all’agricoltura. Per la qual cosa i medesimi [nuraghi] o aggruppati, o isolati raramente, non si trovano mai in regioni sterili, ma sempre in siti fertilissimi ed in ispaziose pianure, poggiando sopra ciglioni o collinette, oppure in altipiani adatti all’agricoltura e pastorizia[36]».

La seconda ragione è di carattere etimologico, in quanto nelle lingue dei popoli orientali, donde traggono origine le popolazioni sarde, la radice Nur significa appunto casa o abitazione. «Il nome stesso – egli scrive – che questi monumenti hanno conservato, attraverso tanti secoli nella lingua sarda conferma la mia opinione. Nur in tutte le lingue orientali significa Fuoco, ed è lo stesso che dire Casa o Abitazione, perché vi si accendeva il fuoco per gli usi domestici»[37]. Del resto, precisa lo Spano, questo significato originario è rimasto tuttora vivo in tutte le varianti dialettali della lingua sarda, in quanto «fogos (fuochi) si chiamano le case, ed i Capi di famiglia. Per quanto sia la popolazione di un villaggio si conta dalle case, e si dice, tenet tantos fogos. Il testatico che pagavasi al feudatario appellavasi pure affoghizu»[38]. Sebbene oggi gli studiosi non siano del tutto propensi a riconoscere la correttezza di queste incursioni dello Spano in campo etimologico, soprattutto con riferimento a quest’ultima estensione del significato originario della radice Nur, resta però il fatto che lo Spano fu il primo a dare una corretta interpretazione della funzione degli oltre 7000 nuraghi ancora oggi esistenti in Sardegna e la sua teoria nella sostanza è ancora oggi quella più accreditata perché la più logica.

In coincidenza con la pubblicazione della monografia sui nuraghi, avendo ormai, nei vent’anni di indefessa ricerca archeologica accumulato una notevole quantità di reperti e di studi sugli stessi, alla fine del 1854 lo Spano annunciava la nascita della rivista mensile Bullettino Archeologico Sardo, il cui primo numero vide la luce nel gennaio 1855. Chi scorra anche fugacemente i 637 titoli delle dieci annate di questa rivista, dedicata, come reca il sottotitolo, alla Raccolta dei monumenti antichi in ogni genere di tutta l’isola di Sardegna, può rendersi conto della mole imponente di materiali archeologici e di antichità sarde in genere raccolti e illustrati dallo Spano e dai suoi collaboratori[39]. Di questa monumentale opera di illustrazione delle antichità sarde, lo Spano, direttore del Bullettino, fu la pars magna: appartengono a lui, infatti, circa 480 dei 637 contributi, mentre 160 appartengono a collaboratori sardi, italiani e stranieri. Ricorderemo, tra i sardi: Pietro Martini, Salvatore Cossu, Vincenzo Crespi, Giovanni Pillito; tra gli italiani: mons. Celestino Cavedoni di Modena, autore di 23 contributi in gran parte di argomento numismatico e di epigrafia latina e greca, in cui il grande erudito modenese era una delle massime autorità in Italia e in Europa; Alberto Lamarmora, che pubblicò contributi sul culto egizio e sulle iscrizioni latine della Grotta della vipera, anche se è opportuno sottolineare che lo scambio di opinioni scientifiche sulle antichità sarde tra il Lamarmora e lo Spano si svolse prevalentemente nelle 120 lettere del generale piemontese conservate nella Biblioteca Universitaria di Cagliari; l’egittologo Pier Camillo Orcurti, che pubblicò 17 contributi tutti dedicati all’interpretazione degli scarabei egizi trovati nelle tombe di Tharros; il gesuita Raffaele Garrucci, autore della monumentale Storia dell’Arte cristiana, sulle antichità cristiane della Sardegna e sulle epigrafi fenicie; l’egittologo e papirologo napoletano Giulio Minervini sull’epigrafia latina; Luigi Cibrario e Carlo Baudi di Vesme sui Falsi d’Arborea; il grande arabista siciliano Michele Amari sui reperti provenienti dalla civiltà islamica in Sardegna;  tra gli stranieri: l’abbé Bourgade, direttore della École française di Tunisi e grande studioso della civiltà dell’Islam, sull’interpretazione delle lapidi fenicie trovate in Sardegna; Wilhelm Henzen, direttore dell’Istituto Germanico di Corrispondenza Archeologica di Roma; Heinrich Brunn, L. Müller, Albert De Retz su argomenti epigrafici e numismatici. Contributi importanti, quelli degli autori che ho citato, alcuni dei quali di fama internazionale, che contribuirono, grazie alle sollecitazioni del canonico di Ploaghe, a immettere l’illustrazione e lo studio delle antichità della Sardegna nel circuito dei dotti dell’Europa. Impressionante è però, come accennavo prima, il contributo dello Spano a questa illustrazione nei circa 480 articoli del Bullettino nei suoi dieci anni di vita. Non vi è argomento, si può dire, che egli non abbia affrontato nella rivista: dalla statuaria all’epigrafia, con un minuto censimento delle epigrafi latine e greche esistenti in Sardegna, di cui faranno tesoro Theodor Mommsen e i suoi allievi, che vennero numerosi nell’isola e tutti furono accolti e guidati dallo Spano, nella preparazione del X volume del Corpus Inscriptionum Latinarum[40]; dall’arte cristiana alla storia ecclesiastica; dalla glittica alla sfragistica; dai manufatti in terracotta ai bronzetti nuragici e all’arte figurativa di epoca romana; dalla descrizione delle antiche strade a quella delle antiche città di origine fenicio-punica e romana; dagli scarabei agli amuleti; dalle armi antiche alla cosmetica femminile nell’antichità ecc. ecc. Il Bullettino fu veramente la più grande mostra a cielo aperto delle antichità della Sardegna, messa a disposizione della repubblica dei dotti dell’intera Europa. Non a caso la rivista fu ammirata, imitata e anche fatta oggetto d’invidia da parte di studiosi di antichità di altre regioni d’Italia, ugualmente ricche di patrimoni archeologici, ma meno sensibili al culto delle memorie storiche dell’antichità. L’epistolario dei corrispondenti dello Spano costituisce una straordinaria testimonianza dell’importanza attribuita dai dotti d’Europa all’opera dello Spano e al disvelamento dell’isola attraverso la rivista stessa, che raggiunse i maggiori centri di cultura di tutti gli Stati del Vecchio Continente.

Questa notorietà dello Spano e l’ammirazione per l’isola da parte di cultori di scienze dell’antichità raggiunse l’apice nel decennio 1860-1870 grazie a due scoperte archeologiche di grande importanza nella storia degli studi: il ritrovamento, nel febbraio 1861, a Pauli Gerrei (oggi S. Niccolò Gerrei) di una Base votiva in bronzo con scrittura trilingue in latino, greco e fenicio-punico, e la scoperta nel 1866 della famosa Tavola di bronzo di Esterzili. Entrambi questi importanti reperti furono illustrati dallo Spano negli Atti dell’Accademia delle Scienze di Torino, il primo con l’aiuto di Amedeo Peyron in una memoria uscita nel 1863 (Illustrazione di una base votiva in bronzo con iscrizione trilingue latina, greca e fenicia trovata in Pauli Gerrei, con appendice di Amedeo Peyron) e il secondo con l’apporto dello studioso di diritto romano Carlo Baudi di Vesme in una memoria del 1867 (Tavola di bronzo trovata ad Esterzili con appendice di Carlo Baudi di Vesme).  Pietro Meloni Satta ha scritto che la illustrazione del bronzo della base trilingue «avrebbe da solo bastato ad immortalare il nome del nostro Archeologo, quand’anco pure non fosse già celebre per le molte altre sue opere»[41]. Un’osservazione corretta, quella del medico olzaese (alla fine dell’Ottocento egli avrebbe provveduto con intelletto d’amore al riordino delle carte manoscritte donate dallo Spano alla Biblioteca Universitaria di Cagliari nel periodo in cui ne fu direttore l’abate Erasmo Severini) se si pensa che la scoperta fu paragonata per importanza – non senza una punta di esagerazione – alla scoperta ed interpretazione della celebre Stele di Rosetta da parte di Champollion. Una scoperta di grande importanza, che tuttavia lo stesso Spano non conservò alla Sardegna, avendola donata poco prima di morire, nel 1876, alla Biblioteca dell’Accademia delle Scienze di Torino per il tramite del suo presidente Federico Sclopis, e che si può ancora oggi ammirare nell’atrio della sede torinese dell’Accademia. A noi sardi resta la consolazione di poterla vedere in fac-simile nella base di bronzo del somigliantissimo busto del canonico scolpito dal grande scultore Giuseppe Sartorio, posto nell’atrio del Museo Archeologico Nazionale di Cagliari accanto al busto del Lamarmora. Quanto all’altro importante documento epigrafico noto come Tavola di bronzo di Esterzili, risalente all’epoca dell’imperatore Otone e recante disposizioni sui confini tra le popolazioni dei Gallilenses e dei Patulcenses Campani, stabilite all’incirca tra il Gerrei-Sarrabus e l’Ogliastra, ne comprese l’importanza il grande storico del diritto Theodor Mommsen, il quale, avutane la riproduzione fotografica dallo Henzen e dal suo allievo H. Nissen, non si pose lo scrupolo di pubblicarlo sulla rivista tedesca Hermes, prima che fosse pubblicata l’illustrazione dello Spano e del Baudi di Vesme negli Atti dell’Accademia delle Scienze di Torino[42], come egli riconosce in una lettera alquanto imbarazzata del 13 gennaio 1867 ma allo stesso tempo onesta nel riconoscere i grandi meriti scientifici dello Spano al cospetto dell’Europa, che riportiamo di seguito.

«Berlino, Schönebergerstrasse 10, 13 gennaio 1867

Reverendissimo e dottissimo signor canonico

Ella si è compiaciuto di communicarmi copia fotografica del bellissimo e interessantissimo bronzo che è l’ultimo nella lunga schiera delle sue scoperte patrie.  Le sono obbligatissimo per quella …, e mi sta a cuore pure di aggiungere, che se questa è la prima volta che [ho] l’onore di scriverle, non è la prima in cui le ho dedicato i miei ringraziamenti. Per noi forestieri certamente e forse anche per i Sardi istessi Ella ha scoperto la Sardegna romana di cui prima sapevamo quasi nulla; e chi ha percorso il Bullettino Sardo sa di quanti passi l’editore di esso ha fatto avanzare l’epigrafia // specialmente dell’isola. Ora però mi trovo in qualche impiccio per questo bronzo. Subito che io ne ebbi la copia dai miei amici Henzen e Nissen cominciai a studiarlo, tanto più che entra ne’ miei studi di diritto romano, e la arte legale ne è ben la più importante. Fidandomi sulle osservazioni del Nissen, che mi disse esser certissimo che il monumento si stamperebbe nell’anno decorso (e certamente un tal documento deve e vuole esser pubblicato subito), ho promesso per un foglio tedesco (l’Hermes) un articolo sopra questo bronzo, che verrà fuori nel marzo di questo anno. Pensava io di agire con tutta prudenza, lasciando uno spazio di tre mesi interi fralla pubblicazione nell’Italia e la ripubblicazione mia; ché certamente // non amo io di sottrarne a chi appartiene con ogni diritto l’onore della prima edizione. Ma ora non posso ritirare la mia parola e ritenere l’articolo promesso e scritto; non mi resta altro dunque che di implorare la sua indulgenza, e di pregarla, se l’edizione di Torino non verrà fuori prima, di pubblicare sia a Roma nel Bullettino sia in dovunque (sic) altro periodico il semplice testo del monumento e di farvene consapevoli, affinché possa io aggiungere, che non faccio altro che ripubblicare un testo edito da voi.    Se io posso servirla, mi comandi. Può darsi, che Ella desideri rettificazione di qualche iscrizione che riguarda la Sardegna; e forse che sarò io, come direttore di gran parte del Corpus Inscriptionum Latinarum nel caso di appagare il suo desiderio. Quando verrà il tempo, in cui noi dovremo pubblicare // le iscrizioni sarde, molte cose avremo da domandarle e sono persuaso, che Ella ci userà l’istessa bontà e liberalità, che ha usata verso il Nissen, che la riverisce. Mi creda, reverendissimo signore, con piena stima ed omaggio, suo divotissimo servitore

Mommsen

[P. S.] Io non stamperò del bronzo se non il semplice testo in carattere minuscolo.»[43]

6. Ci siamo soffermati sin qui, quasi a volo, sull’attività di studio in ambito linguistico e archeologico dello Spano nel trentennio che va dagli Anni Quaranta agli Anni Settanta dell’Ottocento. Sarebbe del tutto fuori binario chi ritenesse che il canonico ploaghese fosse un uomo esclusivamente dedito agli studi eruditi, lontano dalle responsabilità pubbliche, come sarebbe ugualmente errato pensare che i suoi interessi e le sue opere a stampa si limitino ai due campi di cui abbiamo sinora parlato, anche se essi costituiscono la parte più nota e anche più importante della sua attività di studioso. Occorre ricordare, per inquadrare adeguatamente la sua figura, che lo Spano non fu uno studioso avulso dal contesto sociale e politico e da incarichi pubblici. Animato da una visione politica molto vicina al liberalismo moderato della Destra storica, donde proveniva la gran parte dei suoi amici impegnati nella vita politica come Luigi Cibrario, Giovani Lanza, Pasquale Stanislao Mancini, Quintino Sella, Michele Amari, Terenzio Mamiani, Paolo Mantegazza, e tra i sardi, Francesco Maria Serra, Efisio Cugia e Carlo De Candia, rifuggì sempre dalle competizioni elettorali e dagli incarichi parlamentari, sebbene si sia sempre adoperato per l’elezione alla Camera dei deputati del Parlamento subalpino e di quello unitario di numerosi amici anche non sardi. Si disimpegnò, invece, con grande senso del dovere negli incarichi amministrativi che gli amici politici altolocati gli affidarono, come la Presidenza del Convitto nazionale e dell’ex Collegio gesuitico di Santa Teresa tra il 1854 e il 1857, affidatogli dal ministro della Pubblica Istruzione Luigi Cibrario e soprattutto il Rettorato della Università di Cagliari, affidatogli dal nuovo ministro della Pubblica Istruzione e grande amico dello Spano Giovanni Lanza nel 1857, carica che lo Spano mantenne fino all’autunno 1868. In veste di Rettore egli ottenne, tra l’altro, nel 1863, l’istituzione della Facoltà di Filosofia e Lettere[44]. Non meno importante fu l’azione da lui dispiegata per dotare la Sardegna di un Museo archeologico degno di questo nome, che inaugurò solennemente nel luglio 1859 e al quale avrebbe donato nel 1860 e nel 1865 la sua considerevolissima raccolta archeologica, che ancora oggi ne costituisce una delle più ricche collezioni[45]. Nel 1875, infine, egli avrebbe accettato, dopo lunga titubanza, l’ufficio di Intendente Generale per i Musei e gli Scavi Archeologici in Sardegna. Sarebbe errato, inoltre, dicevamo, ritenere che l’attività di studio dello Spano si sia limitata al campo archeologico e linguistico. Dotato di una eccezionale capacità di lavoro, lo Spano pubblicò studi di storia ecclesiastica e due guide del duomo e della città di Cagliari nel 1856 e nel 1861[46]; raccolse e pubblicò una quantità impressionante, a partire del 1863, di Canzoni popolari in logudorese e sassarese[47], ciò che lo mise in contatto con alcuni tra i più celebri studiosi di tradizioni popolari italiane, come Giuseppe Pitré[48], con cui intrattenne a lungo un rapporto epistolare, Salomone Marino, altro importante studioso siciliano di tradizioni popolari, Costantino Nigra, che pochi forse sanno essere, oltre che il grande diplomatico che tutti conoscono, uno dei più importanti studiosi della poesia e della cultura popolare del Piemonte, e numerosi altri di molte regioni italiane. Ancora, pubblicò le leggi doganali promulgate da Niccolò Doria per Castelsardo[49]; tradusse, emendò integrò e pubblico l’Itinerario dell’isola di Sardegna del Lamarmora[50]; scrisse diverse biografie di amici, tra cui quelle di Alberto Lamarmora, del canonico Antonio Manunta e del parroco di Ploaghe Salvatore Cossu[51]; pubblicò un codice di Arborea[52] e fu uno dei più convinti sostenitori dell’autenticità di quelle Carte, motivo per cui diversi suoi lavori devono essere presi con beneficio di inventario perché infarciti di notizie storicamente non sostenibili (tra questi soprattutto l’Abbecedario storico degli uomini illustri di Sardegna)[53]; realizzò con grande intuito divulgativo, un interessante album illustrato dei monumenti antichi della Sardegna nell’opera Menemosine sarda[54]; infine, quando il Bullettino Archeologico Sardo cessò le pubblicazioni alla fine del 1864, a partire dall’anno successivo e fino al 1876 pubblicò con grande puntualità una rivista annuale delle Scoperte archeologiche fatte nel corso di ciascun anno, arricchite da monografie sui più svariati argomenti di antichistica[55]. C’è un brano della sua autobiografia che rende in modo egregio questo irrefrenabile impulso a fare, che intendo proporvi. Nel novembre 1856, rientrato dal viaggio che lo aveva portato a Cartagine, in Sicilia, a Napoli e a Roma, terminò la correzione delle bozze del Vocabolario dopo cinque anni da che ne aveva iniziato la pubblicazione per dispense.

«Appena ritornato il tipografo nazionale mi caricò di stampine del Vocabolario che lasciai alla lettera S. Il proto pure della Tipografia Timon mi mandò i due numeri del Bullettino di marzo e giugno di cui gli aveva lasciato i materiali. Seguitai dunque a lavorare con alacrità per ultimare il Vocabolario, e come di fatti nella prima settimana di novembre fu corretto l’ultimo foglio. Quando venni all’ultima voce zure[ng]a mi alzai di botto dal tavolino e mi posi a ballare di allegria, perché mi aveva tolto dalle spalle quell’enorme peso che mi gravitava da cinque anni; ma tornatomi a sedere mi prese una malinconia, perché diceva: «In che cosa ora mi occuperò? Come passerò il tempo?». Rovistai le vecchie carte o zibaldoni che tante materie aveva preparate, mi vennero alle mani i materiali della Guida al Duomo di Cagliari che fin dal 1844 aveva abbozzato, nel primo anno che fui canonico. Li riordinai, e consegnai il manoscritto alla Tipografia Timon, ed uscì alla luce nella fine di dicembre. Intanto attendeva alla correzione del Bullettino per gli ultimi numeri 11 e 12 che uscirono nella fine dello stesso mese[56]». 

7. Questa prodigiosa capacità di lavoro dello Spano, con la mole impressionante di opere che nel corso della vita egli scrisse, non fu senza prestigiosi riconoscimenti, sia di carattere civile che scientifico. Fu cavaliere, ufficiale e commendatore con pensione vitalizia dell’Ordine Mauriziano[57], cavaliere e ufficiale della Corona d’Italia[58], Medaglia d’oro al merito civile, cavaliere dell’Ordine civile  di Savoia con annessa pensione[59]; inoltre fu socio di 40 accademie letterarie e scientifiche, tra cui le più prestigiose furono l’Accademia delle Scienze di Torino, la Società Archeologica Britannica, l’Istituto Germanico di Corrispondenza Archeologica di Roma, l’Accademia Pontaniana di Napoli, la Società Reale degli Antiquari del Nord di Copenaghen, l’Istituto Antropologico della Gran Bretagna, la Deputazione Subalpina di Storia Patria di Torino.

Ma l’apoteosi internazionale dello Spano si ebbe in occasione del V Congresso Internazionale di Antropologia e Archeologia Preistoriche svoltosi a Bologna dal 1° all’8 ottobre 1871. Celebrato come il decano degli archeologi d’Europa, fu festeggiatissimo da parte di tutti i convegnisti – i maggiori cultori delle scienze dell’antichistica provenienti da tutti i paesi europei -, gli fu conferita la medaglia d’oro per la migliore mostra espositiva di reperti archeologici (tra cui figurava anche un piccolo nuraghe in legno fatto costruire appositamente a Cagliari) e per questo il Comune di Bologna lo insignì della cittadinanza onoraria, mentre il Comune di Cagliari per il lustro dato alla Sardegna in occasione di quel memorabile Convegno bolognese fece coniare una medaglia celebrativa in suo onore.

Il riconoscimento più importante gli venne però dal Governo dell’Italia Unita, allora presieduta dal suo grande amico Giovanni Lanza: a coronamento dei suoi meriti straordinari di studioso, subito dopo la conclusione del Congresso Preistorico di Bologna, il 15 novembre 1871 Vittorio Emanuele II lo nominò Senatore del Regno. La nomina a senatore è uno degli aspetti più citati ma meno studiati della biografia dello Spano. Solo Lorenzo Del Piano ha dedicato all’argomento un brevissimo saggio[60]. Varrebbe la pena fare uno studio specifico attraverso gli atti parlamentari del periodo 1871-1878. Non poca luce sulla vicenda gettano tuttavia le lettere dei suoi corrispondenti, in genere colleghi senatori (ricordo Carlo Baudi di Vesme, Gian Carlo Conestabile della Staffa, Michele Amari, Francesco Maria Serra, Ferdinando Calori Cesis, Ariodante Fabretti e lo stesso Giovanni Lanza). La nomina dello Spano a senatore creò una situazione di attrito fortissimo con il Vaticano, essendo com’è noto i rapporti tra Stato e Chiesa divenuti pessimi a seguito della Breccia di Porta Pia del 20 settembre 1870 e della successiva Legge delle Guarentigie, sdegnosamente respinta da Pio IX. Lo Spano fu diffidato dal prestare il prescritto giuramento di fedeltà al sovrano e al Regno d’Italia e minacciato della sospensione a divinis e della stessa scomunica qualora si fosse presentato a Roma per prestare il giuramento in Senato. Come sacerdote, lo Spano dovette chinare il capo e non si recò mai a Roma per prestare il giuramento, nonostante le forti sollecitazioni che gli provenivano dai colleghi laici. Fu però un atto di obbedienza che gli costò moltissimo e che egli visse, negli ultimi anni di vita, come un sopruso inaccettabile. Come tanti suoi colleghi laici, egli, uomo di spiriti liberali, era fermamente convinto che non giovava alla Chiesa l’affermazione della irrinunciabilità al potere temporale. Patriota convinto – egli seguì con giubilo le vicende militari che tra il 1859 e il 1861 portarono all’Unità d’Italia – egli era del pari convinto della bontà della formula cavourriana della libera Chiesa in libero Stato. Per questo egli desiderava ardentemente occupare il seggio senatorio attribuitogli per i suoi meriti scientifici e pronunciò invettive forti contro i gesuitanti che glielo impedirono, minacciandogli i fulmini della scomunica.

«La ringrazio – egli scriveva all’amico De Castro in una lettera del 23 gennaio 1872 – delle congratulazioni che m’avanza per il nuovo titolo [di senatore], il più infamante, secondo il parere dei miei colleghi di breviario. Non ce n’è uno che se ne sia rallegrato, mi hanno per scomunicato per non aver rigettato con disprezzo la nomina. Se fosse a raccontarle tutto riderebbe della loro ignoranza. Il peggio si è che della loro taglia è il nuovo arcivescovo [mons. Giovanni Balma] col quale non abbiamo migliorato di come stavamo coll’altro cinghiale ordinario [il vicario capitolare mons. Giovanni Maria Filia] […] Siamo come nel Medio Evo. Basta lasciarli andare. Sono appagate le loro ambizioni. Io partirò il mese entrante, appunto perché essi non lo vogliono. Batterò la mia strada, e li lascio coi loro convincimenti lojolitici[61]».

Fu lo stesso presidente del Consiglio Lanza, quando lo Spano sembrava convinto di dover rompere gli indugi per andare a Roma a prestare il giuramento, a dissuaderlo in attesa di tempi migliori. In una lettera allo Spano del 10 agosto 1871, quindi precedente alla nomina di questi a senatore, il cattolico Giovanni Lanza, capo del Governo dell’Italia Unita, che aveva ordinato ai Bersaglieri di Raffaele Cadorna l’occupazione di Roma a aveva subito dopo unilateralmente fatto approvare dal Parlamento la Legge delle Guarentigie, che garantiva alla Chiesa il libero esercizio   del suo magistero spirituale, fatto oggetto degli attacchi polemici dei Gesuiti e della Curia Romana, così scriveva:

«Spero che Dio mi darà la virtù di consolidare l’opera iniziata in vantaggio dell’Italia e della Religione stessa. Il dominio temporale rendeva questa odiosa agli Italiani, perché si opponeva alle aspirazioni nazionali e comprimeva con la forza brutale i popoli a Lei soggetti. Cessate queste cause di perenne conflitto con la separazione del potere temporale dallo spirituale, vi è ragione a confidare che tardi o tosto rinascerà la concordia fra la Chiesa e i popoli italiani. La Religione fondata sul Vangelo non ha bisogno di armi e di altri sostegni che quelli della verità e della santità de’ suoi principi. Contro essi giammai non prevarranno le porte dell’inferno[62]».

È nell’alveo di queste convinzioni, di quella temperie culturale di sincero e moderato liberalismo, che fu l’ideologia dei «Padri fondatori» dell’Italia Unita, che occorre valutare l’opera dell’ultimo Spano, cioè lo Spano non solo docente di Ebraico, ma difensore e riabilitatore del popolo ebraico, una posizione questa molto preveggente e che non era sicuramente in sintonia con le chiusure e i pregiudizi della gerarchia cattolica, cui peraltro egli era ascritto, e non solo di essa. È da questi spiriti liberali che sgorga spontanea, in quella singolare operetta che è la Storia degli Ebrei in Sardegna pubblicata nel 1875 sulla «Rivista Sarda», la descrizione delle tristi condizioni degli Ebrei in Sardegna nei secoli della dominazione aragonese-spagnola, prima del decreto di espulsione del «fanatico» Ferdinando il Cattolico del 1492; una condizione molto simile alla schiavitù.

«Nonostante questa severa schiavitù in cui erano tenuti quei disgraziati – egli commenta – pure nascevano uomini di spirito che si distinguevano nelle scienze e nelle arti. Specialmente nel ramo del commercio e dell’industria, in allora senza strade e senza ponti, facendo cammino anche di 14 ore per trasportare grano e altre mercanzie, davano tanti esempi che se fossero stati imitati dai Cristiani, la Sardegna non sarebbe stata così misera come lo era in quei tempi di sgoverno del tapino e superstizioso Aragonese. Quell’abbominata stirpe era più civile e filantropica di quella che solamente in bocca aveva di Cristiano. Se qualche Ebreo fosse stato innalzato alla dignità di comando forse avrebbe governato con umanità e tolleranza di qualcuno di quei spagnuoli che ci mandavano per far la Sardegna più misera!»[63].

Sono parole che non hanno bisogno di alcun commento, che rivelano con chiarezza il pensiero di questo grande intellettuale della Sardegna dell’Ottocento, capace di coniugare nella scienza e nella vita civile il sentimento più autentico dell’identità sarda, delle radici e della dimensione locale, con i valori universali dell’umanità e della tolleranza, della diversità intesa come valore e come ricchezza della società; in una parola, un intellettuale che ha saputo maturare e interpretare una visione dinamica dell’identità. Non solo un maestro di scienza, dunque, è stato Giovanni Spano, ma, attraverso la scienza, è stato al tempo stesso un maestro di virtù civile: due validi motivi per cui noi lo annoveriamo tra i «Padri fondatori» della cultura della Sardegna contemporanea, alla costruzione della quale egli ha dato un importante contributo, insieme ad altri Sardi illustri. Ed è per questo che è giusto ricordarlo e attingere al patrimonio che ci ha trasmesso.

 


[1] Cfr. Vita studii e memorie di Giovanni Spano scritte da lui medesimo nel 1856, e segg. dopo che ultimò il Vocabolario sardo-italiano, ed italiano-sardo (di seguito citato Vita studii e memorie), in Giovanni Spano e i suoi corrispondenti (1832-1842), a cura di L. Carta, Ilisso, Nuoro 2010, p. 152. Lo stesso episodio è raccontato anche in G. Spano, Iniziazione ai miei studii, a cura di S. Tola, AM&D edizioni, Cagliari 1996, pp. 106-107 (di seguito citato Iniziazione).

[2] Cfr. R. Ciasca, Bibliografia sarda, Forni editore, Bologna 1969, 5 voll., ristampa anastatica dell’edizione di Roma 1931, vol. IV, lemmi 17768-18183, pp. 243-283.

[3] F. Vivanet, Sulla tomba del senatore Giovanni Spano. Parole lette nel cimitero il cinque Aprile 1878, Tip. Azuni, Sassari, p. 6.

[4] Citato da S. Tola, Il libro di una vita, in G. Spano, Iniziazione, cit., p. XIII.

[5] Cfr. Giovanni Spano e i suoi corrispondenti 1832-1842, a cura di L. Carta, Ilisso, Nuoro 2010. L’epistolario completo, che consterà di diversi volumi, sarà pubblicato nei prossimi anni. Per avere un’idea adeguata della ricchezza dell’epistolario, cfr. L. Carta, Per un’edizione del Carteggio Spano, in Il tesoro del canonico. Vita, opere e virtù di Giovanni Spano (1803-1878), a cura di P. Pulina e S. Tola. Prefazione di Francesco Cossiga, Carlo Delfino editore, Sassari 2005, pp. 239-257.

[6] Cfr. L. Carta, Storia e identità. Spunti e riflessioni per una concezione dinamica dell’identità, in Radici e ali. Contenuti della formazione tra cultura globale e cultura locale, a cura di G. Lanero e C. Vernaleone, Cuec, Cagliari 2003, pp. 173-197.

[7] Cfr. G. Spano, Iniziazione, cit., p. 27.

[8] Ivi, p. 25

[9] Ibid.

[10] Ibid.

[11] Ivi, p. 27.

[12] Ivi, p. 93.

[13] Ivi, p. 81.

[14] Ivi, p. 106.

[15] G. Spano, Vita studii e memorie, cit., p. 152, nota 77.

[16] Ivi, p.. 157.

[17] Ivi, p. 158.

[18] Cfr. G. Spano, Ortografia sarda nazionale, ossia grammatica della lingua logudorese paragonata all’italiana, Stamperia Reale, Cagliari 1840, 2 voll., con 1 Carta idiomografica.

[19] Cfr. G. Spano, Vita studii e memorie, cit., p. 160.

[20] Ibid.

[21] Ibid.

[22] Ibid.

[23] Ivi, p. 164.

[24] G. Spano, Iniziazione, cit., pp. 152-153.

[25] Cfr. Biblioteca Universitaria di Cagliari, Autografi 48, NN. 2557-2588, Lettere di Salvatore Cossu a Giovanni Spano, e NN. 732-753; Lettere di Melchiorre Dore a Giovanni Spano. Si vedano, tra quelle pubblicate in Giovanni Spano e i suoi corrispondenti (1832-1842), a cura di L. Carta, vol. I, cit., le lettere: di Salvatore Cossu a G. Spano N. 105, 106, 114, 118, 119, 121, 130, 177, 180, 192194, 196, 217, 232, 233; di Melchiorre Dore a Giovanni Spano N. 96, 97, 110, 131, 160, 172, 181, 193, 197, 202, 209.

[26] Cfr. supra, nota 18.

[27] Cfr. Sa Jerusalem victoriosa, osiat s’historia de su populu de Deus, reduida ad poema historicu-sacru da issu sacerdote can. Melchiorre Dore, rectore de Posada, cum breves adnotationes de su sacerdote Johanne Ispanu, Imprenta archiepiscoipale, Karalis 1842.

[28] Cfr. G. Spano, Vocabolario sardo-italiano e italiano-sardo, Tip. Nazionale, Cagliari 1851, ora nella edizione in 4 volumi, a cura di G. Paulis, Ilisso, Nuoro 1998. In realtà la pubblicazione del Vocabolario, che uscì a dispense, durò dal 1851 al 1856. Oltre alle due parti sardo-italiano e italiano-sardo, il Vocabolario consta anche di una Parte Terza recante, in volume separato, i Proverbi sardi tradotti in italiano: cfr. Proverbios sardos traduidos in limbazu italianu e confrontados cum sos de sos antigos populos, regoltos da su canonigu Johanne Spanu, Imprenta nationale, Karalis 1851. Anche i Proverbi, di cui lo Spano fece una seconda edizione nel 1871, sono stati nuovamente editi di recente: cfr. G. Spano, Proverbi sardi, a cura di G. Angioni, Nuoro, Ilisso 1997.

[29] Cfr. Biblioteca Universitaria di Cagliari, Autografi 48, NN. 203-229, Lettere di Bernardino Biondelli; NN. 2194-2537, Lettere di Giovenale Vegezzi Ruscalla; N. 1372, Lettera di Giuseppe Mezzofanti; NN. 462-467, Lettere di Francesco Cherubini; N. 118, Lettera di Graziadio Isaia Ascoli; NN. 672-674, Lettere di Angelo De Gubernatis; NN. 156-199, Lettere di Bernardo Bellini; NN. 2595-2644, Lettere di Luigi Luciano Bonaparte.

[30] Cfr. Il Vangelo di San Matteo voltato in logudorese e cagliaritano. Le traduzioni ottocentesche di Giovanni Spano e Federigo Abis, a cura di B. Petrovszki Lajszki e G. Lupinu, Cuec, Cagliari 2004; Il Vangelo di San Matteo voltato in sassarese. La traduzione ottocentesca di Giovanni Spano, a cura di G. Lupinu, Cuec, Cagliari 2007.

[31] Cfr. supra, nota 28.

[32] Cfr. G. Spano, Notizia sull’antica città di Tharros, Parte I, Tip. Arcivescovile, Cagliari 1851 (di questa monografia non fu mai pubblicata una Parte II); Id., Notice of the discovers of the ancient city of  Tharros, in “Atti della Società Archeologica di Londra”, 1852.

[33] Cfr. G. Spano, Memoria sopra i nuraghi di Sardegna, Tip. Nazionale, Cagliari 1854. Di questa celebre monografia lo Spano pubblicò altre due edizioni ampliate: la 2a edizione fu pubblicata nel 1862 in Appendice al fascicolo 12 del “Bullettino Archeologico Sardo”, anno VIII, dicembre 1862, pp. 161-199; la 3a edizione, accresciuta e corredata da una nuova Carta nuragografica, uscì a Cagliari, Tip. Arcivescovile, 1867.

[34] Cfr. A. Della Marmora, Voyage en Sardaigne ou description statistique, phisique et politique de cette île, avec des recherches sur ses productions naturelles et ses antiquités, Parties I et II, chez Arthus Bernard (Crepelet), Paris 1839-1840, 2 voll. Con 1 Atlante di Tavole 41.

[35] Cfr. G. Spano, Memoria sopra i nuraghi, in Id., Miscellanea di scritti sulla Sardegna, edizione anastatica Forni editore, Bologna 1974, p. 9.

[36] Ivi, p. 12.

[37] Ivi, p. 23.

[38] Ibid., nota 1.

[39] Del Bullettino è stata curata di recente una nuova edizione parziale, fino all’annata 1861, anno VIII: cfr. G. Spano, Bullettino Archeologico Sardo, ristampa commentata, a cura di A. Mastino e P. Ruggeri, Editrice Fotografica Sarda, Nuoro 2000, 4 voll.

[40] Cfr. A. Mastino, Il viaggio di Theodor Mommsen e dei suoi collaboratori in Sardegna per il “Corpus Inscriptionum Latinarum”, con la collaborazione di R. Mara e di E. Pittau, estratto da “Atti dei Convegni Lincei”, 207, convegno sul tema “Theodor Mommsen e l’Italia”, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 2004, pp. 225-344.

[41] P. Meloni Satta, Cenni biografici del canonico senatore Giovanni Spano, manoscritto, in Biblioteca Universitaria di Cagliari, Autografi Spano, N. 1, p. 4.

[42] Cfr. Th. Mommsen, Decret des Proconsuls von Sardinien L. Helvius Agrippa vom J. 68 n. Chr., in “Hermes”, II (1867), pp. 102.127, ora  anche  in Th. Mommsen, Gesammelte Schriften, vol. V, pp. 325-351. Sulla tavola di bronzo di Esterzili cfr. A. Boninu, Per una riedizione della Tavola di Esterzili (C. I. L., X, 7852), in La Tavola di Esterzili. Il conflitto tra pastori e contadini nella Barbaria sarda. Convegno di studi, Esterzili, 13 giugno 1992, a cura di A. Mastino, Gallizzi, Sassari 1993, pp. 63 ss.

[43] Cfr. Biblioteca Universitaria di Cagliari, Autografi 48, Lettera di Theodor Mommsen a Giovanni Spano, N. 2738.

[44] Su questo aspetto cfr. A. Trova, Il canonico Giovanni Spano, professore e rettore dell’Università di Cagliari, in Tra diritto e storia: studi in onore di Luigi Berlinguer promossi dall’Università di Siena e di Sassari, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, pp. 1163-1202. La Facoltà di Filosofia e Lettere dell’Università di Cagliari fu istituita dalla Legge Casati del 13 novembre 1859, artt. 49, 52, 70. Essa sostituiva la Facoltà di Filosofia ed Arti del vecchio ordinamento, instaurato dal ministro di Carlo Emanuele III G. B. Lorenzo Bogino nel 1764; pur facendo parte dell’ordinamento universitario, tale Facoltà corrispondeva all’attuale Liceo e vi si insegnavano, nel corso di un biennio, le seguenti discipline: Logica e Metafisica, Fisica sperimentale, Etica, Geometria ed Aritmetica, Altre Matematiche (Trigonometria, Architettura, ecc.). Nella nuova Facoltà gli insegnamenti previsti erano: Logica e Antropologia, Letteratura italiana, Letteratura latina, Letteratura greca, Storia della Filosofia. Con R. Decreto 1 dicembre 1860 le Facoltà di Filosofia e Lettere di Cagliari e di Genova venivano autorizzate a concedere i diplomi di professore di Grammatica. La Facoltà cagliaritana fu attivata solo nell’anno accademico 1861-62, ma, in assenza di docenti, l’unico professore che svolse il proprio corso, quello di Logica e Antropologia, fu il cagliaritano Vincenzo Angius. Solo nell’a. a. 1863-64 l’organico fu completato e vi insegnarono, fino all’a. a. 1865-66, Giuseppe Regaldi (Letteratura italiana e Storia antica), Alcide Oliari (Letteratura latina e Grammatica greca), Vincenzo Angius (Geografia antica e moderna, essendo stato soppresso l’insegnamento di Logica). Dopo l’a. a. 1865-66 non si svolsero più lezioni per mancanza di studenti e di insegnanti, essendo stati questi ultimi trasferiti altrove, e non vennero rimpiazzati. Così la Facoltà, di fatto se non formalmente, fu abolita. Sarebbe stata ricostituita nel 1923 dal ministro Giovanni Gentile (cfr. A. Guzzoni degli Ancarani, Alcune notizie sull’Università di Cagliari, Tip. Muscas di P. Valdés, Cagliari 1898, p. 93.

[45] Cfr. G. Spano, Catalogo della raccolta archeologica del canonico Giovanni Spano da lui donata al Museo di Antichità di Cagliari, Parte I, Tip. Timon, Cagliari 1860; Parte II, Monete e medaglie, Tip. Arcivescovile, Cagliari 1865.

[46] Cfr. G. Spano, Guida del duomo di Cagliari, A. Timon, Cagliari 1856; Id., Guida della città e dintorni di Cagliari, A. Timon, Cagliari 1861.

[47] Cfr. G. Spano, Canzoni popolari inedite in dialetto sardo centrale ossia logudorese, Tip. della Gazzetta popolare, Cagliari 1863-65, 3 voll.; Id., Canzoni popolari inedite in dialetto sardo centrale ossia logudorese. Serie II, Canzoni storiche e profane, Tip. del Commercio, Cagliari, 870; Id., Canzoni popolari inedite in dialetto sardo centrale ossia logudorese, Serie III, Canzoni storiche e profane, Alagna, Cagliari 1872; Id., Canti popolari in dialetto sassarese, Alagna, Cagliari 1873. Della raccolta di canzoni logudoresi è stata curata di recente una nuova edizione: cfr. G. Spano, Canzoni popolari di Sardegna, a cura di S. Tola. Prefazione di A. M. Cirese, Ilisso, Nuoro 1999, 4 voll.

[48] Cfr. Biblioteca Universitaria di Cagliari, Autografi 48, NN. 1732-1753, Lettere di Giuseppe Pitrè a Giovanni Spano. Sui rapporti tra il Pitrè e lo Spano cfr. A. M. Cirese, Poesia sarda e poesia popolare nella storia degli studi, Gallizzi, Sassari 1961 (ristampa anastatica Edizioni 3T, Cagliari 1977. Il saggio, senza l’indice dei nomi, è apparso anche su “Studi sardi”, anno XVII (1959-60).

[49] Cfr. G. Spano, Testo e illustrazione di un codice cartaceo del sec. XV contenente le leggi doganali e marittime del porto di Castel Genovese ordinate da Nicolò Doria e la fondazione e storia dell’antica Plubium, Timon, Cagliari 1859; 2a edizione in “Bullettino Archeologico Sardo”, anno IX, fascicolo 12, dicembre 1863, Appendice, pp. 113-171. Quanto in questo saggio dello Spano si riferisce alla storia dell’antica Plubium, l’antica Ploaghe, paese natale del canonico, è frutto della fantasia dei falsificatori delle Carte d’Arborea. Si veda in proposito R. Zucca, Le scoperte archeologiche e le Carte d’Arborea, in Le Carte d’Arborea. Falsi e falsari nella Sardegna del XIX secolo, a cura di L. Marrocu, AM&D edizioni, Cagliari 1997, pp. 277-286.

[50] Cfr. G. Spano, Itinerario dell’isola di Sardegna del conte Alberto Ferrero della Marmora, tradotto e compendiato, con note, Alagna, Cagliari 1868.

[51] Cfr. G. Spano, Cenni biografici del conte Alberto Ferrero della Marmora ritratti da scritture autografe, Tip. arcivescovile, Cagliari 1864; Id., Il conte Alberto Lamarmora, la sua vita e i suoi lavori in Sardegna e la medaglia fatta coniare su di lui dal Municipio di Cagliari, Tip. Nazionale, Cagliari 1875; Id., Cenni sulla vita del teologo Antonio Manunta di Osilo, canonico prebendato nel,a cattedrale di Cagliari, Alagna, Cagliari 1867; Operette spirituali composte in lingua sarda logudorese dal sac. Teologo Salvatore Cossu, rettore parrocchiale di Ploaghe. Opera postuma colla biografia di lui, scritta da Giovanni Spano, Alagna, Cagliari 1872.

[52] Cfr. supra, l’opera citata alla nota 49.

[53] Cfr. G. Spano, Abbecedario storico degli uomini illustri di sardi scoperti ultimamente nelle pergamene codici ed altri monumenti antichi con appendice dell’Itinerario di Sardegna, Alagna, Cagliari 1869.

[54] Cfr. G. Spano, Mnemosine sarda ossia ricordi e memorie di varii monumenti antichi con altre rarità dell’isola di Sardegna, Timon, Cagliari 1864.

[55] Cfr. G. Spano, Memoria sopra alcuni idoletti di bronzo trovati nel villaggio di Teti e scoperte archeologiche fatte nell’isola in tutto l’anno 1865, Tip. arcivescovile, Cagliari 1866; Id., Memoria sopra l’antica Gurulis vetus oggi Padria e scoperte archeologiche fattesi nell’isola in tutto l’anno 1866, Tip. arcivescovile, Cagliari 1867; Id., Memoria sopra una lapide terminale trovata in Sisiddu presso Cuglieri e scoperte archeologiche fattesi nell’isola in tutto l’anno 1868, Tip. Alagna, Cagliari 1869; Id., Memoria sopra la badìa di Bonarcadu e scoperte archeologiche fattesi nell’isola in tutto l’anno 1869, Alagna, Cagliari 1870; Id., Memoria sopra l’antica cattedrale di Ottana e scoperte archeologiche fattesi nell’isola in tutto l’anno 1870, Alagna, Cagliari 1871; Id., Scoperte archeologiche fattesi in Sardegna in tutto l’anno 1871 con appendice su gli oggetti sardi dell’esposizione italiana di Bologna, Tip. del Commercio, Cagliari 1872; Id., Memoria sopra l’antica cattedrale di Galtellì e scoperte archeologiche fattesi nell’isola in tutto l’anno 1872, Alagna, Cagliari 1873; Id., Scoperte archeologiche fattesi in Sardegna in tutto l’anno 1874, Tip. Alagna, Cagliari 1874; Id., Scoperte archeologiche fattesi in Sardegna in tutto l’anno 1875, in “Rivista sarda”, Cagliari 1875, I, pp. 339-395; Id., Scoperte archeologiche fattesi in Sardegna in tutto l’anno 1876, Alagna, Cagliari 1876.

[56] G. Spano, Vita studii e memorie, cit., p. 186.

[57] Lo Spano fu creato cavaliere dell’Ordine Mauriziano nel 1853, Ufficiale nel 1857 e Commendatore nel 1871.

[58] Le due onorificenze sono rispettivamente del 1868 e del 1860.

[59] Nel 1872.

[60] Cfr. L. Del Piano, Giovanni Spano Senatore del Regno, in “Studi Sardi”, vol. XXV, 1981. Il fascicolo della rivista, pubblicato in occasione del centenario della morte dello Spano, raccoglie altri 14 contributi sul canonico ploaghese, tra i quali ricordiamo in particolare: R. Serra, Medaglia ebraica trovata a Bitti, ivi, pp. 43-46; E. Delitala, Leggendo il “carteggio” di Giovanni Spano, ivi, pp. 127-153; M. G. Sanjust, Giovanni Spano: le raccolte di componimenti dialettali curate dal 1870 al 1873, ivi, pp. 155-195; A. Dettori, La  collaborazione dello Spano alle traduzioni bibliche di L. L. Bonaparte, ivi, pp. 285-335 ; T. Cabras, Influssi di Giovanni Spano nell’opera sulla Sardegna di Enrico barone Maltzan, ivi, pp. 337-361.  Anche la Sovrintendenza dei Beni Culturali ed Ambientali di Sassari e di Nuoro ha curato, in occasione del centenario della morte, un volume collettaneo ricco di contributi di argomento prevalentemente archeologico: cfr. Contributi su Giovanni Spano (1873-1878), Chiarella, Sassari 1979.

[61] Biblioteca Universitaria di Cagliari, Carte De Castro, Ms. 301/IV – 6/25, Lettera di Giovanni Spano a Salvator Angelo De Castro del 23 gennaio 1872.

[62] Biblioteca Universitaria di Cagliari, Autografi 48, N. 1947, Lettera di Giovanni Lanza a Giovanni Spano del 10 agosto 1871.

[63] G. Spano, Storia degli Ebrei in Sardegna, in “Rivista sarda”, vol. I, 1875, pp. 16-17.

 

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