Noi che festeggiamo il 25 Aprile, di Enrico Cocco
EDITORIALE DELLA FESTA DELLA LIBERAZIONE, della FONDAZIONE
Nell’editoriale domenicale, dedicato alla Pasqua, Salvatore Cubeddu[1] esprime efficacemente il senso che dovremmo trovare nell’Anniversario della Liberazione che quest’oggi festeggiamo: “il riconoscimento della ragione di pochi che ritrovano in sé ed insieme le idealità ed il coraggio e si battono al posto dei tanti, spesso contro i più.”
Si parla tanto di ritorno del fascismo che, in maniera singolare, salta fuori in vicende e personaggi lontani tra loro: da Trump a Putin, da Israele alla Corea del Nord, dai meeting delle associazioni cattolico radicali fino a Casapound passando per l’estremismo islamico, dalla foto del Ministro dell’Interno con i mano un mitra, ai gilet gialli, ai no vax e relativi avversari.
Il fascismo, quello vero, è stato terribilmente serio e terribilmente tragico. È stato ideologia, cultura e strategia che ha impregnato vita e menti di italiani e sardi, concludendosi nella catastrofe bellica che ha segnato le vite dei nostri connazionali e delle nostre città (ricordiamo, tra le diverse, le stragi di Cagliari e Gonnosfanadiga). Pochi fecero una scelta coraggiosa, lottando perché quel patrimonio di diritti universali, che oggi maneggiamo con troppa indifferenza, emergesse dalle macerie fumanti e modellasse la vita di milioni di persone.
Dalla fine della guerra, la festa del 25 Aprile divenne sacro momento laico della Repubblica Italiana, e di riflesso della Sardegna, come occasione di profondo memento di ciò che fu l’esperienza del ventennio fascista: festività che nei decenni ha lentamente perso energia, soprattutto per un logorante dibattito tra pro e contro. L’accusa più ricorrente è quella di parzialità, con la liturgia dell’evento affidata a vestali non ritenute rappresentative dell’intera popolazione.
Tutte queste polemiche, tutta questa semplificazione, questo scontro tra opposti simbolici rischia di offuscare il vero significato che il 25 Aprile dovrebbe rappresentare: quello di essere uno strumento, un reagente in grado di definire la qualità di quel sistema di poteri, diritti, doveri e libertà che nascono da quella lotta e che dopo 74 anni potrebbero non aver per nulla dato seguito alle attese premesse.
Chi siamo sia come individui che come nazioni? Siamo davvero liberi di muoverci, conoscere noi stessi e la nostra storia, esprimerci, definirci o siamo circuiti da un conformismo indotto, nei gusti, nei costumi, nelle scelte, nei desideri e nelle prospettive? Siamo davvero in grado di tenere, di partecipare e di incidere nelle scelte delle comunità in cui viviamo o il delegare ha annullato questa nostra possibilità, accentrando e rinforzando onnipotenti e spesso celati poteri?
Conformismo e non partecipazione: sono probabilmente questi i due elementi che possiamo mettere in analisi, che distinguono nettamente i tratti della società contemporanea. Generano una sorta di abdicazione al proprio ruolo sociale, quella di cittadino, divenuto una sorta di figurante nella realtà in cui si muove; elementi che si acuiscono negli anni della crisi, soprattutto quella materiale, che uccide la dignità, l’entusiasmo e l’energia. Si lascia che qualcun altro provveda e risolva: sia esso una persona, un’istituzione nazionale o una società privata internazionale. Permettiamo indifferenti che la sua forza si alimenti del nostro rancore.
Ecco perché bisogna festeggiare ed attingere dal bacino di preziosi insegnamenti del 25 Aprile.
Ricordare il sacrificio di pochi per la redenzione di tutti; non dimenticare certe vergogne scioviniste, produttrici e generatrici di violenza; ricordarci ogni giorno di poter in qualsiasi momento agire, reagire, proporre e sovvertire quanto possa riportare i nostri cammini di individui e popoli in balbettanti attese, fatali errori, inconcepibili chiusure, disgustosi razzismi: contro tutto questo, ora e sempre Resistenza!