ANTONIO PIGLIARU NEL DIBATTITO FILOSOFICO ITALIANO E SARDO, di Federico Francioni
Premessa – Un dibattito filosofico ampio e diversificato – Pigliaru affascinato dal “misticismo” di Gentile – Due sardi nel Manifesto antifascista di Croce – “Quella magnifica suggestione dell’Assoluto” – Una svolta: l’irruzione della questione sarda – Una polemica di Francesco Masala contro Pigliaru – Conclusioni: un pensatore originale, solitario e l’orda totemica.
Quest’anno ricorre il cinquantenario della morte di Antonio Pigliaru (Orune, 1922-Sassari, 1969), docente ordinario di Dottrina dello Stato nell’Università di Sassari, direttore della rivista “Ichnusa”, autore della classica opera La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico (1959), filosofo, animatore e promotore di cultura (basti pensare ai “Dibattiti del sabato”). Approssimandosi un importante convegno che avrà luogo a metà maggio fra Sassari, Nuoro ed Orune, incentrato sulla sua figura e la sua opera, l’Associazione sassarese di Filosofia e Scienza ha organizzato un incontro sul tema “Antonio Pigliaru nel dibattito filosofico italiano”. L’iniziativa ha avuto luogo a Sassari, venerdì 5 aprile, nella Libreria Dessì, in Largo Cavallotti. Dopo il saluto e l’introduzione di Yerina Ruiu, presidente dell’Associazione, che ha coordinato l’incontro – di fronte ad un numeroso e partecipe pubblico, presente anche Giovanni Pigliaru, figlio di Antonio – hanno preso la parola: Antonio Delogu, già docente di Filosofia morale nell’Ateneo turritano (autore di diversi saggi su Pigliaru) e Federico Francioni, direttore responsabile della rivista “Mathesis-Dialogo tra saperi” (organo della stessa Associazione), vicepresidente della Fondazione Sardinia. Di seguito pubblichiamo il testo del suo intervento.
Premessa. Nel ricordare Antonio Pigliaru, chi apo àpidu sa bona sorte de connòschere, desidero dedicare questa mia riflessione a Piero Pulina, storico titolare della Libreria Dessì, che oggi ci ospita, scomparso nel gennaio di quest’anno: con la sua sensibilità, con la sua capacità di accoglienza, ci faceva sentire a nostro agio in un autentico presidio culturale del centro cittadino; la figlia Chicca tiene oggi alta questa bandiera, il testimone ricevuto dal padre. Ma soprattutto il mio commosso ricordo va a Rina Fancellu, che sarebbe molto sbagliato ricordare solo nel suo pur fondamentale ruolo di moglie di Antonio, nonché di madre di Giovanni, Francesco e Amelia Maria; nella bella palazzina liberty dei Fancellu-Viale, in via Manno a Sassari, Rina, anche lei animatrice ed organizzatrice di cultura dopo l’immatura scomparsa di Antonio, ci trasmetteva affetto materno e ad un tempo amicale, ci rendeva, di fatto, coscienti della necessità di credere nell’utopia concreta di una Sardegna come “società conviviale”.
Un dibattito filosofico ampio e diversificato. Per focalizzare alcuni nessi che collegano l’intensissima ricerca di Pigliaru al dibattito filosofico italiano, si può prendere l’avvio da un volume dell’eminente matematico Federigo Enriques e di Giorgio de Santillana, storico della scienza, dal titolo Compendio di storia del pensiero scientifico dall’antichità fino ai tempi moderni, pubblicato nel 1937 dall’importante casa editrice Zanichelli di Bologna. Il testo apparve un anno prima delle nefande leggi razziali fasciste che colpirono anche Enriques – appartenente a famiglia ebrea di origine portoghese – il quale fu privato della cattedra universitaria (era docente di matematica e geometria superiori).
In 481 pagine, i due autori dedicavano alla polemica contro il positivismo ed alle battaglie per l’affermazione dell’idealismo la sola pagina 439: in riferimento alle tesi di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile, al loro impegno, in grado di andare ben oltre la dimensione esclusivamente filosofica – che partiva dall’esigenza, in primo luogo, di una generale Riforma della dialettica hegeliana (titolo di un’importante opera dello stesso Gentile, apparsa nel 1913) – Enriques e de Santillana scrivevano: “[...] la dialettica, che governa i processi propriamente conoscitivi dello spirito, non si estende ai concetti distinti dell’intelletto scientifico, e perciò – dice Croce – l’attività costruttiva di tali concetti è semplicemente pratica”. Si potrebbe precisare che Croce, pur attribuendo a matematica ed economia, per esempio, la sola capacità di sfornare pseudo-concetti, giunse anche a ritenere che fosse in fondo banale considerare l’attività pratica di respiro semplicisticamente inferiore a quella teoretica.
In ogni caso il Compendio di Enriques e de Santillana può mettere in evidenza – certo, insieme a numerosi altri fattori – che, dai primissimi anni del Novecento sino alla frattura della Prima guerra mondiale, ma anche nel contesto di un regime comunque dittatoriale, la realtà di polemiche e discussioni filosofiche in ambito italiano fu più ampia e diversificata di quanto si possa ancor oggi comunemente immaginare. Nel 1911, lo stesso Enriques si riconobbe francamente sconfitto in una dura polemica divampata con Croce. Questi, in buona sostanza, aveva respinto le sue incalzanti istanze di dialogo tra filosofia e scienza; di più: lo aveva accusato di analfabetismo filosofico; sarebbe come se io mi occupassi di matematica, scrisse don Benedetto, ben lontano, in questa – come, del resto, in altre occasioni – dalla visione dell’intellettuale olimpicamente freddo verso controversie e diatribe.
Tutto ciò non deve farci dimenticare che negli anni Trenta si verificò un avvicinamento fra lo stesso Enriques e Gentile, sulla base della propensione soggettivistica tipica di entrambi. Certo, se l’insigne matematico avesse in qualche modo unito le sue forze a quelle di Francesco De Sarlo e alla rivista “Cultura filosofica” (impegnata nella ricerca del dialogo tra filosofia e scienza), forse l’affermazione dell’egemonia idealistica sarebbe stata senz’altro più complicata (in proposito rinvio ad un saggio di Cristiano Sabino comparso sulla rivista “Mathesis-Dialogo tra saperi”). E Mathesis, non dobbiamo assolutamente dimenticarlo, era la denominazione della Società scientifica di cui Enriques era presidente. Ciò dovrebbe costituire un altro viatico per la nostra attività redazionale, aperta a temi filosofici e scientifici.
Nel 1937, dunque, Enriques, già presidente anche della Società filosofica italiana, era quanto mai attivo nel contesto intellettuale italiano. L’articolazione di idee problematiche, tesi contrapposte ed autori presenti sulla scena della penisola nel primo cinquantennio del XX secolo è stata, in particolare, sempre più focalizzata dalle indagini, quanto mai precise e filologiche, di Eugenio Garin, accanto al quale mi limito qui a ricordare quelle più recenti di Michele Ciliberto e di Ornella Pompeo Faracovi (sul potere accumulato da Gentile nelle istituzioni culturali italiane è da leggere quanto ha scritto Albertina Vittoria dell’Università di Sassari).
L’egemonia dell’idealismo, in questo arco di tempo, è fuori discussione, così come dominanti risultano le figure di Croce e Gentile; quest’ultimo fu irrinunciabile e mai smentito punto di riferimento nella Weltanschauung di Pigliaru, peraltro arricchitasi negli anni grazie ad altri significativi apporti: dall’esistenzialismo, con cui, d’altra parte, lo stesso Gentile dovette fare i conti; dal pensiero di Marx a quello di Antonio Gramsci, in un itinerario spirituale, come quello pigliariano, sempre attraversato da una fede cristiana fortemente vissuta, sentita e coltivata (per quanto riguarda gli sviluppi del percorso di Pigliaru rinvio senz’altro a monografie e saggi di Antonio Delogu).
Pigliaru affascinato dal “misticismo” di Gentile. Studiosi e biografi di Croce e Gentile hanno concordato nel porre in risalto il comune impegno dei due, la sostanziale sintonia dei loro intenti, i limiti dell’uno talvolta ovviati dalle intuizioni e dagli avanzamenti dell’altro, le anticipazioni dei singoli e le loro ampie convergenze. Durissima e concorde, spesso formulata con parole sprezzanti, fu, in ogni caso, la polemica da loro condotta non solo contro il positivismo, ma contro gli sforzi egregi intrapresi da quanti vollero ben presto andare ben oltre l’insegnamento di Roberto Ardigò col fine di procedere ad una generale riforma di questa corrente. Oltre al già citato De Sarlo, fu oggetto di un attacco furibondo anche Giovanni Marchesini che in Sardegna, durante il biennio 1894-95, aveva stampato e diretto “L’Idea-Giornale scientifico e letterario”.
Croce raccomandava e predicava, a Gentile e ad altri, cautela, mediazione e tolleranza, ma su De Sarlo scriveva che era indispensabile dargli “una solenne lezione (…) col perseguitarlo in tutti gli angoli in cui si rifugia”. Contro Marchesini, don Benedetto scagliava una sorta di anatema, qualificandolo come “mascalzone” e definendo “bestiale” un suo libro. Sulle comuni imprese dei due massimi esponenti dell’idealismo, mi limito a ricordare l’ampio volume di Giuseppe Galasso su Croce e lo spirito del suo tempo, nonché le biografie di Gentile scritte da Sergio Romano e Gabriele Turi.
Nel 1913, però, lo sappiamo bene, si era verificata la prima, importante divaricazione fra i due amici: essa aveva trovato espressione e sfogo non ne “La Critica” crociana, ma ne “La Voce” di Giuseppe Prezzolini. Croce era già vivamente preoccupato per i rischi insiti nella gentiliana filosofia del puro Atto di pensiero, antecedente la distinzione fra soggetto ed oggetto, uomo e natura. Agli occhi dell’intellettuale napoletano (inspiegabilmente definito dal prima citato Romano come “dilettante geniale”) il principio dell’Atto puro poteva nascondere, obnubilare, eludere la molteplicità, la pluralità delle determinazioni del reale. Sono peraltro ben note polemiche ed accuse, rivolte a Gentile, cui si imputava non solo e non tanto un ritorno al soggettivismo di Fichte, cioè dell’Io che pone il non-Io, quanto una più grave caduta nel solipsismo e nel misticismo. Ma era specialmente il lato “mistico” – su cui il filosofo siciliano, si badi bene, respingeva sempre ogni accusa – ad affascinare Pigliaru.
Nonostante l’autorevolezza dell’esponente dell’attualismo, le polemiche contro di lui crebbero, anzi, divamparono soprattutto con la pubblicazione del saggio di Adriano Tilgher, Lo spaccio del bestione trionfante, un titolo che si riferiva esplicitamente agli studi gentiliani su Giordano Bruno. Tilgher, fra l’altro, fu studioso non superficiale di Luigi Pirandello, su cui un Pigliaru ventiduenne pubblicava Teatro-teatrale di Luigi Pirandello, (stampato a Sassari dalla tipografia Gallizzi nel 1944). Si faccia attenzione a questa data, cruciale, come vedremo, nell’esistenza e nel destino di Pigliaru.
Due sardi nel Manifesto antifascista di Croce. Nel 1920 Gentile prende l’iniziativa di dare il via al “Giornale critico della filosofia italiana”; la rottura con Croce e con “La Critica”, com’è noto, non si consumò allora, ma avvenne in seguito, sul piano teoretico, delle scelte riguardanti l’organizzazione della cultura, ma anche e soprattutto la lotta politica. Diventa pressoché d’obbligo, a questo punto, ricordare il gentiliano Manifesto degli intellettuali fascisti cui replicò il “Contromanifesto” crociano, apparso su “Il Mondo” del Primo maggio 1925. All’appello del filosofo napoletano rispose una schiera ben più consistente ed autorevole di adesioni fra le quali vanno menzionate in questa sede quelle dei sardi Carlo Fadda e Flaminio Mancaleoni (l’elenco dei firmatari di entrambi i testi è in uno studio di Emilio R. Papa; si vedano anche i volumi sulla storia dell’Università di Sassari che dobbiamo a Giuseppina Fois e Antonello Mattone; su quella precisa scelta di Fadda e Mancaleoni occorrerebbero ricerche più approfondite).
“Quella magnifica suggestione dell’Assoluto”. Pigliaru era assolutamente estraneo, alieno dalla logica dei distinti, nonché dallo storicismo di Croce (su cui scrisse nel 1952 Ciò che è vivo e ciò che è morto nel pensiero di Benedetto Croce). Le stesse ricerche propriamente storico-storiografiche, comprese quelle sulla Sardegna, non lo coinvolgevano più di tanto. Non dimostra mai interesse per un dibattito filosofico che anche nell’isola aveva preso corpo, grazie alle opere di Domenico Alberto Azuni teorico della pace, di Giovanni Maria Dettori, maestro di Vincenzo Gioberti, del giobertiano Antioco Polla, del “monarcomaco” Giovanni Battista Tuveri (studiato da Gioele Solari), di Antioco Zucca (studioso del tema dell’infinito), per citarne solo alcuni (in proposito rinvio al volume di Delogu, La filosofia in Sardegna 1750-1915. Etica Politica Diritto, del 1999, nonché ad un altro di Sergio Sotgiu).
Da giovanissimo, si può dire, il pensatore di Orune manifestò svariati e vivaci interessi: per la letteratura, la poesia, il teatro (non solo di Pirandello), l’arte ed il cinema; partiva anche da qui il suo totale, esplicito distacco dalla concezione dell’arte per l’arte, dall’estetica crociana come “intuizione-espressione”, dal ruolo “olimpico” che Croce assegnava, peraltro su un piano puramente astratto, all’intellettuale, che avrebbe dovuto tenersi ben lontano da una totale immersione, da un pieno coinvolgimento, da un immedesimarsi nel vivo degli scontri culturali e politici. In effetti, come si è visto, contro i positivisti, l’attività di Enriques ed il Gentile del Manifesto filofascista, per fare solo alcuni esempi, Croce era ben disposto a buttarsi nella mischia per difendere accanitamente i suoi ideali, le sue posizioni ed il suo ruolo.
Invece il pensiero di Gentile, già nel Pigliaru dei primi anni del secondo dopoguerra, viene esaltato incondizionatamente, attraverso pagine che possiamo con buon fondamento definire pressoché a-testuali, perché sembrano prescindere in gran parte da quanto il filosofo di Castelvetrano aveva detto, scritto e specialmente fatto in campo politico: “[...] quella magnifica suggestione dell’Assoluto – scrive Pigliaru dell’attualismo gentiliano – che v’è contenuta ed offerta, sempre aperta a problemi nuovi, a orizzonti più vasti, più ‘ricchi’. E che una sua particolare suggestione, il pensiero gentiliano la abbia vivissima, una bruciante suggestione d’amore [corsivo mio], ecco, non andrà negato né sottinteso, anzi pacatamente e serenamente riaffermato”. Si tratta dell’articolo Commosso omaggio a Gentile, apparso su “Rinascita sarda”, n. 17, 25 aprile 1949 (attenzione alla data!). Un testo riproposto da Marina Addis Saba e da Mavanna Puliga in una raccolta di scritti pigliariani, edita nel 1983. Pigliaru cita anche altri autori, come Gustavo Bontadini, Pantaleo Carabellese ed Armando Carlini, a conferma della sua varietà di interessi e richiami. Bisogna tuttavia precisare che la testata in cui Pigliaru scrive non è quella, omonima, del Partito comunista, ma quella del Consorzio agrario: Pigliaru cercava sempre canali attraverso cui manifestare il proprio pensiero e sollecitare gli altri a farlo.
Insomma, sembra di avere a che fare con un gentilismo più immaginario che reale, effettivamente riscontrabile negli scritti. Ma sarebbe comunque sbagliato pensare che il filosofo sardo si sia fermato qui, sia rimasto cioè a cullarsi nel sogno del “suo” idealismo. In Fondazione morale della democrazia nel pensiero di Giovanni Gentile (apparso a Sassari nel 1953), Pigliaru riprende il concetto di Stato etico, che si innervava nella sua spiritualità cristiana, recepisce il rapporto Io-tu quale si delinea nel pensiero attualistico, nonché il tema del lavoro, sviluppato in un altro testo del 1953.
Duro il giudizio di Domenico Corradini, docente universitario a Sassari e a Pisa, quale emerge dagli atti di un convegno meritoriamente organizzato dallo stesso Delogu (che poi ne pubblicò gli atti nella rivista, da lui fondata e diretta, “Quaderni sardi di filosofia e scienze umane”, n. 4-5-6, 1979; mi permetto di rinviare al mio Antonio Pigliaru dall’approccio gentiliano alla prospettiva dell’estinzione dello Stato, ivi, pp. 151-164). “La filosofia gentiliana – afferma Corradini – resta quella che è, e fu, e parlare di un Gentile filosofo della libertà e della democrazia sarebbe come attraversare il Mar dei Sargassi facendo finta che sia un mare comune”. Divergenti al riguardo le valutazioni cui è approdato Delogu. In effetti la definizione della democrazia che Pigliaru ci offre è tutta di tipo eticista ed astratto. Viene dimenticata, per fare solo un esempio, la “voce” sulla dottrina del fascismo, firmata da Benito Mussolini, ma effettivamente scritta da Gentile per l’Enciclopedia italiana.
In Il lavoro e il nuovo umanesimo di G. Gentile (1953), si può rinvenire l’ansia di Pigliaru verso una sintesi dei binomi economia-etica e uomo-Stato. Il tema del lavoro è tuttavia sottoposto da Pigliaru ad una smaterializzazione, rispetto alle strutture economiche, ai processi produttivi ed ai conflitti sociali, che non sono considerati, soprattutto nel loro divenire storico. A Pigliaru interessa soprattutto l’uomo che, lavorando, entra in rapporto ed in comunicazione con gli altri, diventando così sempre più consapevole di se stesso, dei suoi mezzi e dei suoi fini ideali e morali.
Un ruolo di mediazione nel rapporto Gentile-Pigliaru fu in qualche misura esercitato da Ugo Spirito, allievo dello stesso Gentile: il problematicismo di Spirito (critico dei grandi sistemi metafisici, capaci di smentirsi l’uno con l’altro, sostenitore, inoltre, dell’identità di filosofia e scienza), la sua concezione della vita come inesauribile ricerca e come amore influenzarono indubbiamente il filosofo sardo. Tuttavia Antimo Negri ha attribuito a quest’ultimo un “attualismo costruttore” capace di fare i conti soprattutto con il ruolo ineliminabile della responsabilità del singolo. Spirito, dal suo canto, passò da una concezione della “corporazione proprietaria” agli studi sul comunismo e sulla Cina popolare. Per questo motivo, nel 1960, venne invitato da Pigliaru per tenere una conferenza nell’Università di Sassari.
Nel secondo dopoguerra però l’epistolario di Pigliaru con l’ex gerarca e ministro fascista Giuseppe Bottai ed il rapporto con Spirito contribuirono indubbiamente ad un attardarsi dello stesso filosofo sardo nella persistenza del richiamo a Gentile e nel procrastinare una definitiva resa dei conti col fascismo (si veda la biografia di M. Puliga, Antonio Pigliaru. Cosa vuol dire essere uomini, del 1996).
Una svolta: l’irruzione della questione sarda. Alla fine degli anni Cinquanta, c’è tuttavia una fase che – se non costituisce certo (per dirla con Gaston Bachelard e con Louis Althusser) una coupure épistémologique, una frattura filosofico-scientifica, una smentita, da parte di Pigliaru, verso il suo primigenio approccio, il suo pieno e persistente riconoscersi nell’attualismo gentiliano – rappresenta in ogni caso una discontinuità. Infatti, nell’itinerario del pensatore sardo fa prepotentemente irruzione la questione sarda. Come si verificò questo passaggio?
Nel quadro del dibattito filosofico italiano occorre inserire a pieno titolo, come si è del resto cominciato a fare (sia pure da non molti anni), un giurista e pensatore del rango di Giuseppe Capograssi. Egli, si badi bene, aveva insegnato nell’Ateneo turritano nel biennio 1933-35 (rimando agli studi storici di Mattone e a quelli filosofici di Francesco Mercadante). Pigliaru allora non aveva conosciuto Capograssi, ma ebbe modo di avvicinarlo e fu profondamente influenzato da lui dopo aver intrapreso la carriera universitaria. Proprio negli anni sassaresi, Capograssi, studioso anche di Marx – ma non marxista – attraversato da una profonda e robusta spiritualità cristiana, aveva messo a punto la sua tesi sulla molteplicità degli ordinamenti giuridici, sviluppando ricerche e dibattiti aperti e caratterizzati soprattutto dal ruolo, a lungo preponderante, di un altro eminente giurista, Santi Romano. Nel 1936, su “Studi sassaresi”, quindi, nel 1939, sulla “Rivista internazionale di Filosofia del diritto”, comparvero due saggi di Capograssi che sostenevano una concezione pluralistica degli ordinamenti: era una visione coraggiosa che si contrapponeva al monismo giuridico-politico ed al totalitarismo proprio dello Stato fascista (sui saggi capograssiani del ’36 e del ’39 si veda un’approfondita monografia di Virgilio Mura; gli scritti di Pigliaru su Capograssi sono stati riproposti a cura e con ampia introduzione di Delogu).
Nella “quieta penombra della sua casa romana”, come ebbe modo di scrivere Pigliaru, Capograssi gli suggerì di esaminare il nodo della vendetta barbaricina e di collocarlo nel quadro di un sistema giuridico, quello del “noi pastori” (come diceva il pensatore sardo, sulla base del lessico di Georges Gurvitch), di una comunità, cioè che, ben lungi dal sentire, diciamo così, gentilianamente, lo Stato “in interiore homine”, ne avverte, al contrario, tutta la lontananza e l’estraneità.
La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico (pubblicata nel 1959 a Milano da Giuffrè, in una collana diretta da un altro importante giurista, Widar Cesarini Sforza) è ancor oggi un classico da cui non si può assolutamente prescindere non solo nelle indagini sulla Sardegna, ma anche nella dimensione del “diritto folklorico” (si pensi alle pagine di Luigi M. Lombardi Satriani e di Mariano Meligrana), nonché in quella più latamente etnoantropologica e sociologica. Pigliaru, capace di fare autocritica, compie una scelta ben precisa: prende decisamente le distanze da un suo precedente saggio, Persona umana e ordinamento giuridico (del 1953), dove aveva sostenuto l’unicità dello Stato in stretta relazione con l’unicità, per l’appunto, dell’ordinamento. Lo fa per rendere conto di un codice di guerra, quello della vendetta, che approda inevitabilmente ad uno scontro rovinoso, che può diventare catastrofico, autodistruttivo, non solo per coloro che l’hanno promosso e voluto versus le istituzioni, ma anche per l’intera comunità agropastorale.
Un suo senso profondo di pietas verso questo mondo non era tuttavia mai disgiunto dalla fede cristiana: tutto ciò impediva a Pigliaru di nutrire il benché minimo giustificazionismo nei confronti della violenza e della lunga catena di faide; ed è quanto invece certi critici improvvisati e superficiali, su vari fronti politico-ideologici, ebbero la faccia tosta di attribuirgli e rimproverargli. Evidentemente non lo conoscevano bene e, forse, nella loro supponenza, nulla o ben poco avevano letto della sua produzione saggistica, scientifica e pubblicistica.
Una polemica di Francesco Masala contro Pigliaru. Nel 1977 Pigliaru veniva definito – negativamente, se non spregiativamente – dallo scrittore Cicito Masala come “filosofo gentiliano”. In ambienti e segmenti legati al sardismo ed all’indipendentismo si qualifica tuttora Pigliaru tout-court come “fascista”. Si tratta di un modo per non fare i conti con la complessa eredità dell’intellettuale barbaricino (cfr. la replica a Masala di F. Francioni, Antonio Pigliaru e Gentile, su “Tuttoquotidiano”, 18 dicembre 1977). Dal momento che, se non altro, il “Corriere dell’isola” e, più ampiamente, “L’Unione sarda”, a suo tempo, ne avevano trattato (ma ne parlò, negli anni Ottanta, anche “Ichnusa”, di cui ero redattore e collaboratore fisso) non si poteva, non si può di sicuro oggi trascurare – o sminuire – una vicenda che segnò profondamente Pigliaru: egli si era intensamente impegnato, con l’amico fraterno Giuseppe Melis Bassu, nel “frondismo” interno alla stampa giovanile ed alle organizzazioni di massa del regime mussoliniano, incontrando smentite e reprimende dei gerarchi.
Ma la sua traiettoria personale non fu la stessa seguita dalla generazione del “lungo viaggio attraverso il fascismo” o degli “anni difficili” su cui hanno scritto, in particolare, Ruggero Zangrandi e Fidia Gambetti. Per la Sardegna si può ricordare l’esempio di Antonio Simon Mossa che partecipa ai Littoriali della cultura e dell’arte e matura una salda coscienza antifascista. Invece Pigliaru, nonostante il suo precedente frondismo, si lasciò coinvolgere in una trama che mirava ad instaurare stretti rapporti col lussurgese Barracu, sottosegretario alla presidenza del Consiglio in quel di Salò, col fine di legare la Sardegna ai repubblichini. Nel 1944 (lo stesso anno in cui pubblica il già menzionato saggio su Pirandello) Pigliaru viene arrestato; fra gli aderenti a quello stralunato complotto è anche Ugo Mattone, in seguito diventato scrittore e sceneggiatore cinematografico di fama col pseudonimo di Ugo Pirro (da ricordare, fra l’altro, per il film diretto da Elio Petri, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, magistralmente interpretato da Gian Maria Volontè, Premio Oscar nel 1970 come migliore film straniero). Mattone-Pirro riesce a sottrarsi all’arresto con la latitanza. L’accusa per tutti è pesante: alto tradimento per cospirazione contro lo Stato. Giudicato da un Tribunale militare – pubblico ministero è Francesco Coco, che in seguito sarà assassinato dai terroristi delle Brigate rosse – Pigliaru, condannato a sei anni, ne sconta due fra Oristano, la casa penale di Alghero, dove assiste ad una rivolta di ergastolani che si conclude con uno spaventoso eccidio, infine nell’Isola dell’Asinara, allorquando sopraggiunge l’amnistia di Togliatti. Si può affermare al riguardo che Pigliaru, dal fisico già gracile e malaticcio, pagò un prezzo altissimo, con un’esistenza drasticamente abbreviata, per quella sua drammatica, assurda e sciagurata decisione. Egli risulta infine ai miei occhi completamente assolto.
Conclusioni: un pensatore originale, solitario e l’orda totemica. Anche se non si è mai verificato un effettivo, dichiarato e conclamato distacco dalla filosofia di Gentile, Pigliaru ha egregiamente dimostrato di essere pensatore per vari aspetti originale – ed anche abbastanza solitario, almeno in Sardegna – nell’affrontare l’arduo tema dell’estinzione dello Stato, cui cominciò a lavorare nel 1965 e su cui scrisse un saggio mai portato a termine, pubblicato postumo.
Pigliaru si confronta con le categorie di Marx ed anche con quelle di Lenin, pur non approdando all’idea di una rottura rivoluzionaria della macchina statale. Piuttosto, egli enuclea il quadro di un lungo processo di transizione verso l’estinzione dello Stato che, attraverso il sistema delle autonomie e delle istituzioni locali, può dare luogo ad una democrazia massimamente diffusa. Lo studio sull’estinzione dello Stato, insieme a quello sull’obiezione di coscienza, ci mostrano un Pigliaru attento a tematiche quanto mai impegnative che tanti altri intellettuali, italiani e sardi, si sono ben guardati dall’affrontare.
Negli anni Settanta, con altri appartenenti alla mia generazione, ci siamo costituiti in orda totemica ed abbiamo proceduto all’uccisione dei padri. Poi, seguendo la logica magistralmente descritta da Freud, ci siamo assisi al banchetto, presi da nostalgia e rimpianto, per capire cosa ci restava di loro. Nel caso di Pigliaru: niente dell’attualismo gentiliano, molto, moltissimo della sua monografia sulla vendetta barbaricina, di altri saggi prima ricordati, dell’opera che egli ha infaticabilmente svolto come promotore ed organizzatore di cultura, in grado di far dialogare fra loro cattolici, comunisti, laici e sardisti indipendentisti come Simon Mossa (cfr. “Ichnusa” n. 18/19, 1989, fascicolo speciale su Antonio Pigliaru vent’anni dopo (1969-1989), con scritti di G. Angioni, V. Atripaldi, M. Brigaglia, F. Cocco, R. Fancellu, F. Francioni, S. Mannuzzu, G. Melis, G. Melis Bassu, V. Mura, A. Negri, E. Nivola, A. Weingrod).