La congiura di Palabanda, di Antonello Angioni
Il 1812 fu un anno particolarmente duro per la città di Cagliari. Le condizioni di vita della popolazione erano peggiorate sotto ogni profilo …..
Il 1812 fu un anno particolarmente duro per la città di Cagliari. Le condizioni di vita della popolazione erano peggiorate sotto ogni profilo: crisi economica, diffusione di epidemie, analfabetismo dilagante. Un anno difficile da dimenticare, tant’è che ancora oggi, a due secoli di distanza, nell’immaginario collettivo cagliaritano, “s’annu doxi” è sinonimo di carestia.
E’ in questo contesto che trovò linfa vitale l’opinione antigovernativa e si organizzò una congiura che passerà alla storia col nome della località ove i cospiratori erano soliti riunirsi, “Palabanda”: una zona corrispondente all’attuale Orto Botanico, allora di proprietà del vecchio avvocato Salvatore Cadeddu. Si trattava di un complotto di ispirazione liberale che prevedeva la sollevazione generale, la conquista del Castello, la cacciata dei piemontesi e la sostituzione del comandante militare della piazza. Per capire l’audacia del piano, occorre considerare che in quegli anni – a seguito dell’invasione napoleonica – il re di Sardegna Vittorio Emanuele I si era rifugiato a Cagliari con tutto il seguito di Corte.
L’impegno dei cospiratori e le cautele adottate per mantenere il massimo riserbo furono particolarmente efficaci e le autorità rimasero del tutto all’oscuro del complotto sino a quando uno dei congiurati – proprio alla vigilia dell’azione (fissata nella notte tra il 30 e il 31 ottobre 1812) – si lasciò sfuggire una confidenza. La leggerezza risultò fatale. La trama venne scoperta e il re, informato all’ultimo momento, ordinò una repressione durissima. I congiurati vennero tutti condannati e finirono al patibolo o dovettero darsi alla latitanza nell’isola o riparare all’estero.
Nella sentenza si afferma che i congiurati, radunatisi al Carmine, avrebbero dovuto entrare nottetempo nel quartiere della Marina attraverso la porta di Sant’Agostino, lasciata socchiusa dai soldati invalidi che la custodivano. Quindi, con l’aiuto dei due sergenti del battaglione “Real Marina” e degli altri militari loro complici, dopo essersi appropriati delle armi, avrebbero dovuto occupare le porte di Stampace e Villanova, assalire il Castello, impadronirsi delle fortificazioni e del palazzo regio, scacciare dalla città e dall’isola i piemontesi e sostituire nel comando della piazza il colonnello Giacomo Pes di Villamarina col maggiore Gabriele Asquer visconte di Flumini.
Secondo lo storico Lorenzo Del Piano, le origini della congiura sono da ricercare innanzitutto nelle tendenze progressiste di parte del ceto medio cagliaritano maturate nella prima fase del periodo rivoluzionario, che fece seguito alla vittoriosa resistenza opposta ai tentativi d’invasione francese del 1793. In secondo luogo è da tener presente il malcontento popolare che si accentuò in occasione della carestia del 1812. Ulteriore motivo di risentimento potrebbe essere individuato nella reazione dei cagliaritani all’alterigia dei piemontesi.
Sul senso generale della “congiura” ancora oggi esiste più di una perplessità, anche per la scarsezza di documenti. Sulla base delle fonti d’archivio è comunque possibile una ricostruzione della vicenda.
Poco prima della fine del mese di ottobre del 1812, uno dei rappresentanti del quartiere di Stampace, Girolamo Boi, aveva confidato ad un amico, Proto Meloni, che ricopriva l’ufficio di sostituto avvocato fiscale, l’imminenza di un’insurrezione popolare per cui esortava lo stesso a mettersi in salvo. Il Meloni riferì la cosa al suo superiore gerarchico, l’avvocato fiscale regio Raimondo Garau, e questi al re.
Vittorio Emanuele I chiese conferma della notizia al comandante della piazza, il Pes di Villamarina, il quale era del tutto all’oscuro dei fatti ed anzi – poiché sosteneva di essere sempre al corrente di tutto ciò che accadeva in città – escluse l’esistenza della congiura. Del resto anche qualche mese prima si era sparsa la voce di una prossima insurrezione (della quale si precisava persino la data, il 16 aprile) e non era successo nulla. Tuttavia questa volta la voce era fondata.
Il Villamarina peraltro, ignaro dei rischi, non adottò speciali misure di sicurezza salvo ordinare la consueta ronda di soldati. Durante la notte del 30 ottobre, la ronda si imbatté in Giacomo Floris, figlio del proprietario di una fornace ubicata nei pressi della chiesa del Carmine, e gli domandò cosa facesse in giro a quell’ora. Il Floris inventò una scusa qualsiasi e poi, anziché portare a termine la missione affidatagli (che consisteva nello stabilire il collegamento col gruppo di congiurati del quartiere di Villanova), fece ritorno al Carmine, dove erano radunati circa ottanta uomini, e gettò tutti nel panico dando per certa la scoperta della congiura per cui non restava che mettersi in salvo. Parte dei congiurati si ritirò, parte restò in attesa di eventi che non si verificarono.
Solo all’alba il Villamarina si fece vedere in giro pressoché senza scorta. Uno dei congiurati, il sarto Giovanni Putzolu, voleva sparargli ritenendo che la morte del comandante della piazza avrebbe indotto anche gli incerti a partecipare all’insurrezione. Tuttavia gli altri congiurati si opposero. Il Putzolu allora buttò via la pistola ed osservò che ormai era arrivata la fine. L’orefice Pasquale Fanni, che con pochi altri congiurati voleva far insorgere i quartieri di Stampace e Marina, venne costretto a desistere. Il tentativo di insurrezione dunque poteva considerarsi concluso.
Peraltro, sia pure con ritardo, il governo si convinse dell’esistenza di una vera congiura. Quindi nominò una commissione (composta dai giudici Pilo, Musio e Gaffodio) incaricata di coordinare le indagini. Nel contempo venivano promesse l’impunità e ricompense in danaro a quanti, anche se complici, avessero consentito la cattura dei capi. Si procedeva altresì all’arresto di Giovanni e Luigi Cadeddu, che furono sorpresi in casa. L’istruttoria fu particolarmente rapida e il processo si concluse con l’irrogazione di pene assai severe.
Come fu possibile accertare per le rivelazioni di uno dei congiurati, Francesco Garau (il quale sperava di ottenere l’impunità che invece gli venne negata), il capo della congiura era Salvatore Cadeddu, già distintosi nelle agitazioni del cosiddetto triennio rivoluzionario (1793-1796) e proprietario della casa di campagna di Palabanda, località allora extraurbana, vicina al quartiere di Stampace, nella quale si riunivano i congiurati e dove avrebbe avuto sede uno dei tre clubs giacobini che si diceva essere stati costituiti in città dopo il 1793. Cadeddu – che all’epoca dei fatti ricopriva le funzioni di segretario dell’Università e tesoriere del Municipio – era personaggio molto noto e stimato in città. Rappresentando gli elementi politicamente più aperti, si era attestato su posizioni che, in qualche misura, potremo considerare democratiche e persino “autonomiste”.
Il piano rivoluzionario, accuratamente organizzato, coinvolse esponenti della borghesia intellettuale cagliaritana (professionisti, docenti universitari, magistrati, funzionari, ecc.) ai quali si unirono numerosi artigiani e popolani. Dall’originario piccolo gruppo di amici fidati che si riuniva segretamente si passò, nell’arco di alcuni mesi, a adesioni numericamente consistenti al punto che, nell’animo dei congiurati, si consolidò la certezza della vittoria: certezza che non derivava tanto dal numero dei cospiratori ma dall’appartenenza dei medesimi ai più diversi strati sociali.
Oltre Giacomo Floris, Pasquale Fanni e Giovanni Putzolu (già citati), facevano parte del gruppo avvocati e alti funzionari come Salvatore e Giovanni Cadeddu, Antonio Massa Murroni, Gerolamo Boi e Francesco Garau, il notaio Gerolamo Tatti, il medico Gaetano Cadeddu, il docente universitario di diritto Giuseppe Zedda, il conciatore Raimondo Sorgia, il pescatore Ignazio Fanni, Gavino Muroni, fratello dell’ex parroco di Semestene, e con loro numerosi negozianti, operai e persino militari e religiosi. Tra i congiurati vi erano anche due sergenti del battaglione “Real Marina”, costituito dai piemontesi che, arruolati nell’esercito francese e mandati a combattere in Spagna, avevano disertato, arrendendosi agli inglesi che li avevano consegnati a Vittorio Emanuele I. I due sergenti avevano aderito anche a nome di altri appartenenti al loro reparto.
Il Tribunale, composto dal reggente Casazza e da quattro giudici della Reale Udienza, al voto dei quali si unì quello dei magistrati della pubblica accusa, condannò a morte Salvatore Cadeddu, Raimondo Sorgia e Giovanni Putzolu. Gli ultimi due vennero giustiziati il 13 maggio 1813, mentre il Cadeddu, riuscito a sottrarsi all’arresto immediato, venne catturato nel Sulcis e giustiziato il 2 settembre dello stesso anno fra il generale compianto.
Vennero condannati a morte in contumacia anche Gaetano Cadeddu, Giuseppe Zedda e Francesco Garau, che presero la strada dell’esilio, Il Cadeddu (che sarebbe riuscito a sottrarsi all’arresto perché avvertito, si disse, da Maria Teresa) si trasferì a Tunisi, dove morì dopo molti anni. Il Zedda emigrò in Corsica ed ottenne la grazia solo nel 1848. Il Garau raggiunse la Francia ove, durante l’impero, godette di un sussidio accordatogli da Napoleone; insegnò italiano e spagnolo al liceo di Aix, dove morì nel 1849. Alla galera a vita furono condannati Giovanni Cadeddu, Pasquale Fanni e Giacomo Floris, che morirono durante la detenzione. Al carcere a vita fu condannato l’avvocato Massa Murroni, che venne graziato nel 1833. Luigi Cadeddu invece fu condannato a vent’anni che scontò per intero.
Della congiura fecero parte, oltre gli arrestati, molti altri cagliaritani, dei quali poco o nulla si riuscì a sapere: tra questi l’avvocato Stanislao Deplano, membro della Facoltà di Giurisprudenza, più tardi costretto a stabilirsi a Mandas; l’avvocato Carro, prefetto di Iglesias, dove fu subito rispedito; l’avvocato Giuseppe Ortu, nonno materno di Francesco Cocco Ortu, il quale, in segno di gratitudine verso Raimondo Sorgia che non la aveva denunciato, né ospitò in casa per tutta la vita una figlia minorata. Molti personaggi non identificati, soprattutto avvocati e notai, parteciparono alla cospirazione e tra gli altri un misterioso uomo mascherato che, per dissapori insorti con Gaetano Cadeddu, avrebbe impedito agli uomini dallo stesso reclutati a Quartu ed a Quartucciu di raggiungere Cagliari.
Altra figura interessante è quella dello padre scolopio Paolo Melis, molto apprezzato a Corte e in seguito promosso ad alte cariche, il quale chiese in prestito al negoziante Giacomo Viale 3.000 scudi confidando allo stesso che servivano per pagare la bassa forza coinvolta nel complotto. Poiché, per tale ragione, non li ottenne, il professor Zedda fu costretto a chiederne 2.000 ad un altro commerciante, Giacomo Federici.
Pronunciata la sentenza, un inconsueto silenzio calò sulla vicenda e ogni tentativo di fare chiarezza risultò vano. Gli atti del processo scomparvero misteriosamente dalla Cancelleria, e non furono poche le perplessità per il rifiuto del Tribunale di accogliere le deposizioni di alcuni imputati che coinvolgevano personaggi di altissimo rango assai vicini alla stessa Corte, definendole frutto di fantasia malata o disperato tentativo di salvare la vita. Nasceva così il sospetto che, dietro i cospiratori individuati si celasse ben altro.
La voce che si diffuse, e che riaffiora nei lavori di diversi storici, è che personaggi insospettabili, rimasti nell’ombra, avessero incoraggiato il Cadeddu e gli altri a cospirare. Ma chi, e perché? Una prima ipotesi, da scartare senz’altro, è che il re volesse prendere lo spunto da una sollevazione popolare per liberarsi dei cortigiani e dei funzionari che lo avevano seguito dal Piemonte e sostituirli con altri, possibilmente sardi.
Un’altra ipotesi sulla quale si è lavorato parecchio è che la congiura fosse stata ispirata da Carlo Felice. L’appiglio viene offerto da una certa rivalità che sembra esistesse tra la sua Corte e quella del re. Peraltro, come è noto, Carlo Felice era molto legato al Manca di Villahermosa ed al Pes di Villamarina, ma proprio il Villahermosa, dopo la scoperta della congiura, fu incaricato di riordinare le forze armate, ed in particolare il “Real Marina” (ridotto da battaglione a centuria): incarico che certo non gli sarebbe stato affidato se non si fosse stati più che sicuri della sua lealtà verso Vittorio Emanuele I.
Il contegno del Villamarina lascia più perplessi. Pietro Martini osserva che il comandante della piazza «o mancava affatto di finezza poliziesca, od era stipato da agenti imbecilli o traditori». Se tuttavia avesse promosso o incoraggiato la cospirazione, negandone al re l’esistenza, che necessità ci sarebbe stata di pensare alla sua sostituzione col visconte Asquer? Ad ipotesi suggestive ha dato luogo il fatto che il Villamarina si fece consegnare il fascicolo processuale che non restituì mai.
Il fascicolo, che dopo la morte del Villamarina passò al suo erede conte del Campo, secondo alcuni storici, conteneva notizie di grande interesse che si vollero tenere segrete incollandone alcune pagine. Il Martini però scrive che il suo amico notaio Giuseppe Maria Cara, segretario della commissione inquirente, che ebbe in visione il fascicolo dal relatore Musio, gli confidò che nei fogli suggellati era trascritta solo la deposizione del comandante del “Real Marina” Demay, il quale aveva chiesto che venissero incollati i fogli che lo riguardavano per evitare che venisse sospettato di essere stato il primo a denunciare l’esistenza della congiura. Anche questa spiegazione però é stata ritenuta insufficiente.
Altri elementi da considerare sono l’opposizione di Prospero Balbo alla concessione della grazia ai detenuti ed il trasferimento a Torino, ad opera di Carlo Felice, dei giudici Musio e Garau: premio per non avere rivelato chi c’era dietro i congiurati, o punizione per avere gli stessi partecipato alla congiura? Come si vede, non mancano gli elementi romanzeschi, che rendono particolarmente avvincente l’episodio.
Qualcuno ha persino adombrato responsabilità nascoste dell’Inghilterra, che desiderava controllare anche i porti sardi per completare il suo dominio nel Mediterraneo; altri della Francia, che mirava ad instaurare un governo amico di Napoleone. Ma, oltre a ciò, occorrerà chiedersi fino a che punto siano state coinvolte nella vicenda alcune frange della Corte sabauda che forse speravano di detronizzare il malvisto Vittorio Emanuele I. E, in quest’ultimo caso, potrebbe essere stato interessato all’intrigo lo stesso fratello del sovrano, Carlo Felice, diventato re di Sardegna nel 1821.
Le diverse ipotesi sono tutte stimolanti e, quale che sia quella da accreditare, è certo che l’episodio assume particolare rilevanza avuto riguardo sia alle motivazioni che l’animarono che gli interrogativi posti. Agli storici il compito di chiarire le numerose zone d’ombra che, a due secoli di distanza, tuttora permangono.
Antonello Angioni