I tempi dell’uomo, di Daniele Madau

 

Quanti di noi si sono resi conto che, da qualche giorno, siamo entrati nel periodo della Quaresima? Magari pochi o tanti, non lo so, ciò che mi interessa è riflettere sul significato simbolico, antropologico, potremmo dire spirituale, dei periodi dell’anno che i nostri antenati hanno individuato e sapientemente rispettato.

Abbiamo da poco lasciato il periodo del carnevale, con tutta la sua valenza sovversiva, goliardica, comunitaria: un tempo laico per eccellenza, che a sua volta era successivo al tempo di Natale, col suo senso di rigenerazione e di luce, e al tempo – per noi sardi – di Sant’Antonio Abate, anch’esso segnato dal fuoco rigeneratore.

Il tempo di Quaresima, si penserà, è per un tempo propriamente religioso e per questo di pertinenza solo dei fedeli. Io non penso sia così, non solo perché credo che ogni religione abbia qualcosa da dire a ogni uomo ma anche perché credo che alcuni dei significati e degli atteggiamenti propri di questo tempo siamo quasi indispensabili per una vita matura, cosciente e (perché no?) felice.

Inizierei pensando a quanto viene detto il mercoledì con l’imposizione delle ceneri: il sacerdote può scegliere tra due espressioni: convertiti e credi al Vangelo – un po’ dura nella sua perentorietà e nel suo imperativo – oppure cenere sei e cenere ritornerai (‘ pulvis es et in pulverem reverteris’) – che prediligo. La prediligo perché ci ricorda che siamo terra e apparteniamo alla Terra; dovremmo, perciò, essere umili, cioè ricordarci che apparteniamo all’ humus, alla terra. Ora, come ogni ricerca etimologica, anche questa ci apre significati dalle valenze enormi, per ogni uomo di questo mondo, che dovrebbe inginocchiarsi sulla terra, baciarla, ringraziarla, come facevano tutti i popoli universalmente riconosciuti sapienti, come gli indiani d’America.

Noi sardi abbiamo un rapporto di amore-odio con la terra: ce n’è sentiamo figli, ci sentiamo intimamente legati a lei, forse anche violentemente legati a lei, perché magari le imputiamo anche la nostra povertà, la nostra annosa indigenza; ma sappiamo bene che questa convinzione è solo una maschera, che nasconde il non saper utilizzare bene i doni, i frutti che riceviamo: fonte di ricchezza in ogni tempo e non di disperazione. Mi piace poi parlare dei tre atteggiamenti che la Chiesa raccomanda in questi quaranta giorni,  e cioè quelli del digiuno, dell’elemosina e della preghiera.

Partirei dal più semplice, quello dell’elemosina, che potremmo tradurre in termini un po’ più moderni in condivisione, altruismo, prossimità; atteggiamenti che, quando mancano, fanno sì che l’uomo si svilisca e perda qualcosa della sua dignità: chi potrebbe dire che l’elemosina, quasi come un dovere, non faccia parte dell’attributo più nobile di qualsiasi uomo, in qualsiasi tempo e in qualsiasi luogo? Per averne la certezza, basta vedere ancora coloro che sono – magari con uno spirito eccessivamente proprio di Russeau – l’immagine della tendenza naturale dell’uomo: i bambini.  La condivisione in loro è innata, la perdita della voglia di condividere innaturale. Eppure non è forse anch’essa una necessità di questo tempo? Non è forse lo sguardo verso l’altro una necessità attuale?

Il secondo atteggiamento è quello del digiuno, ormai non più vincolato a quello della carne ma assai più significativamente esteso a quello degli occhi, della bocca, dell’egoismo, della violenza, della prevaricazione, del disimpegno, dell’arrendevolezza.

L’atteggiamento della preghiera è forse il più difficile da estendere e da sciogliere dal suo significato religioso: mi piace pensarlo come un invito a tutti alla contemplazione del bello, un qualcosa di cui ci stiamo colpevolmente privando.

Non è vero che il bello soccombe ogni giorno davanti alla deformazione e alla bruttezza. Contemplazione del bello significa anche lavorare per esso, per tutto ciò che è armonia, passione, cultura, senso spirituale della vita.

In ultimo vorrei dedicare anche un pensiero a un altro tempo, un’altra data: quello  dell’ otto marzo. Non mi interessa se passo per un banale rimarcatore della festa delle donne, mi interessa ricordare quanto ancora nella nostra cultura sarda ci sia un latente svilimento della della donna: purtroppo l’ho toccato con mano.

La donna è ancora colei che serve il caffè se c’è qualche invitato, è ancora colei che in certi consessi non è ammessa, è ancora colei che deve mantenere più dell’uomo pudore e castità. Ma se un valore è tale deve valere universalmente per l’uomo e per la donna. Anche questo otto marzo, allora, non sarà stato banale se avrà concorso a quel dato tanto naturale e immediato, quanto non ancora raggiunto dopo millenni: l’ uguale dignità e valore dell’uomo e della donna.

 

Condividi su:

    2 Comments to “I tempi dell’uomo, di Daniele Madau”

    1. By Daniele Madau, 15 marzo 2019 @ 12:09

      Medas grazias!

    2. By Mario Pudhu, 13 marzo 2019 @ 06:29

      Bene meda: cundivido, mi agatas de acórdiu!