Pietro Mastino nella riflessione umana e politica di Mario Melis, di Gianfranco Murtas

Pubblichiamo, a lato della foto di Pietro Mastinao, la lettera che oggi stesso Annico Pau ha inviato al sindaco di Nuoro Andrea Soddu.

 

 

 

 

Al Signor Sindaco di Nuoro – Residenza municipale

Egregio Signor Sindaco,

al fine di assolvere ad un’esigenza di conoscenza e per il doveroso ricordo di un personaggio che ha dato lustro alla nostra città, mi corre l’obbligo di rammentarLe che il prossimo 14 marzo ricorre il cinquantesimo anniversario della morte di un grande sindaco di Nuoro quale fu il senatore Pietro Mastino.

Figura molto nota in questa città, sia per la sua attività professionale di principe del foro, che lo rese famoso nei tribunali della Sardegna e non solo, sia per la sua dedizione alla politica che, sin da giovane, con forte passione civile, lo vide partecipe, prima della grande guerra, alla battaglia antiprotezioniste, con uomini come Attilio Deffenu e Michele Saba. Attraversò il Novecento conducendo epiche battaglie, prima nel Movimento dei combattenti, così come nella fondazione del vecchio e glorioso Partito Sardo d’Azione, ancora nella lotta antifascista e in seguito, nel dopoguerra, come componente dell’Assemblea Costituente ed infine nella lotta per l’autonomia e la rinascita della Sardegna.

L’impegnativa attività professionale nei tribunali e la dedizione alla politica non gli impedirono, per la sua profonda cultura umanistica, di occuparsi attivamente per l’istituzione della biblioteca Sebastiano Satta o per la riedizione del volume di Egidio Bellorini sui canti popolari amorosi del nuorese.

Mago della parola, tenne vibranti orazioni in ricordo del vate barbaricino Sebastiano Satta, alla Camera dei deputati tenne la commemorazione di Giacomo Matteotti, così come al Teatro Verdi di Sassari illustrò la figura del grande patriota G. Maria Angioy. Tenne inoltre i discorsi ufficiali per il ritorno a Nuoro della scrittrice Grazia Deledda e in occasione dell’inaugurazione della piazza-monumento realizzata da Costantino Nivola e dedicata a Satta.

Nel dopoguerra fu sottosegretario al ministero del Tesoro con Parri e nel primo governo De Gasperi e nelle aule di Montecitorio e del Senato si batté a sostegno del regionalismo costituzionale.

In età matura, dopo aver per anni fatto parte dell’amministrazione cittadina come consigliere comunale, assunse, con grande capacità, la carica di primo sindaco laico della città di Nuoro.

Queste, seppur sintetiche considerazioni, su un grande nuorese a cui la nostra città deve molto e che, nel cinquantesimo anniversario, dovremo opportunamente dedicare la nostra attenzione.

Nel confidare che terrà nella giusta considerazione questa mia modesta proposta che nasce con spirito collaborativo e allo stesso tempo mi impegna, qualora sia necessario, a fornire il mio fattivo supporto in maniera del tutto gratuita e disinteressata alle eventuali iniziative che voglia avviare, Le invio cordiali saluti.

Annico Pau

Nuoro, lì 8 marzo 2019

 

 

Pietro Mastino nella riflessione umana e politica di Mario Melis

di Gianfranco Murtas

 

Soltanto per ragioni anagrafiche non potei incrociare la mia vita con quella di Pietro Mastino, il nome nobile che correva anche nelle stanze repubblicane di Cagliari quando alla Federazione Giovanile mi iscrissi diciottenne, dopo le ondate elettorali del 1969 e del 1970. Il nome nobile, direi anche il nume tutelare, così ho memorizzato fosse sentito da quei nuovi iscritti repubblicani che proprio allora, provenendo dal Movimento Sardista Autonomista, che era come dire da una costola del Partito Sardo d’Azione, formalizzavano la loro nuova militanza partitica. Non in un’altra casa in quanto ad ideali e indirizzi valoriali e politici – naturalmente politici con la P maiuscola –, ma soltanto, appunto, in quanto alla struttura di partito: un partito, quello dell’edera della Giovine Europa, cui essi stessi per gran parte proprio allora, o da allora, dettero carne e sangue nelle sezioni e negli organismi dirigenti così come nelle rappresentanze istituzionali con Corona e Racugno a Cagliari, Uras e Trogu ad Oristano, Puligheddu, Maccioni, Marcello e Marletta a Nuoro, Ruiu, Mele, Merella e Razzu a Sassari, e con loro, sia bene inteso, molti, molti altri di pari valore e generosità nei capoluoghi e nei diversi centri delle varie province, fra Marmilla e Sulcis-Iglesiente, Marghine e Gallura.

La rottura avvenuta in casa PSd’A era stata dolorosa: le polemiche che per due, tre e anche più anni s’erano accese e rinfocolate, con la pretesa degli scissionisti di continuare ad interpretare “in esclusiva” il sardismo delle origini ma in chiave moderna e in correlazione stretta ai superiori interessi nazionali dell’Italia (e della democrazia italiana, senza cui non sarebbe esistita, o non avrebbe resistito, neppure quella sarda), e specularmente la radicata granitica convinzione dei fratelli dei Quattro Mori di continuare essi, con l’orgoglio dell’inviolabile copyright, nello spirito di sempre, magari più sentimentale che ideologico, la battaglia e la testimonianza sardista, erano le evidenze, umanamente comprensibili, di un amore ferito.

Nel mezzo c’erano davvero, anche oltre le emozioni occasionali, i sentimenti di umanità perché, tanto più forse nel Partito Sardo – dove pure non mancavano i limiti (soprattutto, a mio parere, la signoria dei grandi elettori – professionisti sempre di gran valore e di nome santificato – e degli “onorevoli” rispetto ai quadri medi e ultimi della organizzazione e della militanza) – talune coordinate familistiche resistevano e connotavano, in specie nelle zone rurali, quella comunità. Sicché fino a quando Giovanni Battista Melis resse la fatica da Cireneo della direzione politica (fino al 1974 quando, forse obtorto collo, la dovette cedere a Michele Columbu, allora deputato e in svolta indipendentista), proprio in ragione di quella che era stata la sua esperienza di vita e politica, il rapporto fra i due partiti ora concorrenti od avversari – il PSd’A rimasto e il PRI neosardista – conobbe le asperità, le impuntature all’apparenza perfino dispettose tipiche degli amori feriti. Certo, la politica regionale dettò allora, senza risparmio, i suoi motivi: le giunte monocolore di Nino Giagu, appoggiate dai sardisti e, sottobanco (e soprabanco in commissione al Consiglio regionale), dal PCI, con certe opzioni di spesa sociale malcontrollata e in un quadro generale di riassetti della legislazione sui fitti rustici (la famosa De Marzi-Cipolla, con forti ricadute nell’Isola), furono avversate dai repubblicani nei primi anni ’70, mentre la unità autonomistica della seconda parte del decennio, ebbe proprio loro, i repubblicani, per protagonisti, minoranza trainante (in gran parte per merito personale di Armando Corona), mentre i sardisti piangevano sulla propria emarginazione anche politica.

Se nel 1974, Giovanni Battista Melis era stato rieletto, in sconsolatissima solitudine, in Consiglio, la sua dolorosa scomparsa, due anni dopo, azzerò addirittura la presenza istituzionale del PSd’A, perché chi gli subentrò – Bruno Fadda cioè – già si trovava fuori (espulso) dal partito ed in cerca di nuova collocazione nell’area laica progressista, fra PSI e PRI (cui nel 1978 sarebbe approdato).

La morte, pochi mesi prima di quella dell’on. Melis, di altre figure nobili del sardismo – da Anselmo Contu (il primo presidente d’Assemblea dell’autonomia speciale) a Camillo Bellieni (il primo teorico del sardismo, collaboratore di Volontà e La Critica Politica, che risiedendo a Napoli confidò di votare repubblicano) – segnò quella cesura fra un prima e un dopo, accelerando la trasformazione – per tanta parte… altra carne e altro sangue! – del PSd’A in quella formazione nazionalitario-indipendentista, di natura forse più movimentista che partitica, già teorizzata da Antonio Simon Mossa e modellata ora da Columbu e dai suoi successori (Sanna, Pilleri, Ladu, Ortu, Acciaro,ecc.): così secondo i deliberati dei nuovi congressi in successione, metti di Porto Torres dopo Oristano e prima di Carbonia…

Mi fermo qui, alla vigilia cioè della nuova stagione – felice sotto il profilo della resa elettorale e anche del protagonismo conquistato soprattutto con la presidenza regionale di Mario Melis (e la sponda di due deputati ed un senatore riusciti eletti nel 1987!) –, per tornare a Pietro Mastino e al contesto partitico in cui, io allora giovane militante repubblicano, mi imbattei sul suo nome.

Perché sempre maturando lo studio delle relazioni, vitali anche e innanzi tutto sul piano morale, dal mio punto di vista, della relazione Sardegna-Italia, regionale-nazionale, sardismo-repubblicanesimo (e/o azionismo), arrivai in tempi successivi anche a coltivare direttamente lo studio della biografia umana e politica del patriarca nuorese; ebbi anche la fortuna di incrociare, proprio a Nuoro, la famiglia di Martino Salis, al tempo giovanissimo studente liceale e militante della FGR (della gioventù repubblicana cioè), che mi mise a disposizione, con grande liberalità, molte carte, tanto più quelle legate alle vicende che maggiormente allora mi interessavano, circa la partecipazione sardista alla “fabbrica della Repubblica”, fra Consulta nazionale e Consulta regionale, fra Assemblea costituente e governi Parri e I De Gasperi (quelli cui Mastino, già consultore e prossimo deputato costituente, prese parte come sottosegretario al Tesoro in quota “azionista”).

Vennero fuori così numerosi contributi credo originali, e belle risultanze di ricerca offrì lo stesso Martino Salis (divenuto poi, in età adulta, sindaco di Oliena) e ancora lui con altri amici nuoresi (da Giuliano Guida ad Andrea Soddu, quest’ultimo divenuto a sua volta stimatissimo professionista e, anche lui, sindaco comunale, del capoluogo provinciale addirittura).

Trassi da quelle ricerche compiute tutte sui documenti, per gran parte inediti, una consapevolezza piuttosto precisa della statura di Pietro Mastino, ben oltre quel che di lui si sapeva come partecipe al moto fondativo del PSd’A e della rappresentanza parlamentare sardista prima del fascismo, e ancora come oppositore della dittatura vigilato dall’OVRA. Zampillavano ora le prove della sua propensione agli accordi con il Partito d’Azione, secondo la proposta di Lussu magari riformulata nella modalità non nella sostanza. Emergeva soprattutto la sua coscienza politica patriottica.

Già firmando un editoriale in Forza Paris!, il numero unico che accompagnò la conclusione del VI congresso sardista (il primo del dopoguerra), nel luglio 1944, non s’era perso in giri di parole – lui signore della parola! – per tracciare la strada, e pur tenendo presenti le tante riserve affacciate nell’assise:  «Noi continueremo la nostra strada – ecco le sue parole –; la continueremo in cordiale accordo con i nuovi amici politici che lealmente verranno e lealmente accoglieremo nelle nostre file, animati tutti dalla speranza che la Sardegna, con tutte le altre regioni italiane – e cioè la Patria – sorga, dopo tanto sangue, ad una vita che sia veramente di libertà e di giustizia sociale per tutti».

E pochi mesi dopo, parlando (con Lussu) davanti a ventimila persone, nel largo Carlo Felice di Cagliari, alla fine di aprile del 1945, così si espresse invitando tutti «ad elevare la mente a quanti nell’Italia del nord combattono contro la rabbia fascista e tedesca, agli eserciti alleati ed ai nostri gloriosi partigiani, che combattono non solo per riaffermare i termini sacri della nostra Patria, ma anche per un grande ideale di libertà e di giustizia». Aggiungendo poi che la Sardegna, «per quanto negletta nei secoli e per quanto reclami una radicale riforma nella costituzione dello Stato, vuol dire oggi la sua parola d’amore a tutte le regioni d’Italia». Ed ulteriormente precisando: «Io credo che nell’ambito dell’unità italiana noi faremo grandi cose per la redenzione della Sardegna sicuri che dopo tante tenebre, dopo così lunga e dolorosa notte, una nuova aurora sta per risplendere sull’avvenire della vita sarda».

Ora che siamo dunque alla vigilia del cinquantesimo anniversario della morte di Pietro Mastino conterei di tornare in argomento più volte, con vari e mirati apporti. Ma intanto mi è particolarmente caro tutto far precedere con la relazione – che credo non sia mai stata pubblicata – tenuta, in lode del comune patriarca, e in occasione del trentennale della sua scomparsa, da Mario Melis l’11 dicembre 1999. Così a Nuoro, ad iniziativa del Comitato Nuoro 2000, con l’appoggio del Comune e dell’Amministrazione Provinciale. Fu allora organizzato, infatti, un convegno di studi nei locali della Camera di commercio, e Mastino venne celebrato come “sardista, costituente, principe del foro”. Al presidente Melis, che da pochi anni aveva anche cessato il mandato di europarlamentare, fu affidato il compito di parlare di Mastino come “uomo politico”.

L’opportunità che mi sono presa, e il direttore del sito mi ha concesso, di introdurre, nei modi possibili, le nuove onoranze a Pietro Mastino – richiamato alla memoria pubblica, come detto, nella circostanza giubilare (fu lui, sindaco di Nuoro, ad accogliere nel 1959 le spoglie della Deledda che tornarono alla terra degli avi!, ed era stato lui a celebrare Sebastiano Satta morto nel 1914) – mi è straordinariamente gradita perché mi è dato di associarla implicitamente a quella evocatrice di un’altra luminosa personalità alla quale fui, sul piano dell’intelligenza civile e del sentimento regionale, intensamente legato, intendo Mario Melis, caro e indimenticabile Amico.

 

Mastino, l’uomo della parola pacificatrice

Ho accettato volentieri di ricordare a voi la figura di Pietro Mastino che ho avuto l’onore di conoscere, d’essergli amico, d’averne condiviso gli ideali in un rapporto che pur ricco di umani valori si è costantemente mantenuto in spirito di cordialità mai venata d’autoritarismo saccente né di piaggeria subalterna.

Già; Pietro Mastino era naturalmente un Maestro, un grande Maestro non già perché volesse esserlo ma, da autentico uomo di cultura, costantemente desideroso d’intrattenere rapporti umani con quanti potessero, con le loro risposte ed osservazioni, arricchire la sua esperienza ed accendere nella vastità di uno spirito superiore una nuova favilla d’interesse.

Non si sottraeva mai al confronto e pur nei limiti di un’immateriale barriera etica, accettava il dialogo col contadino, il pastore (che in fondo lui preferiva), l’intellettuale, il politico e l’uomo di cultura.

Sì, perché Pietro Mastino era un uomo che, come si direbbe oggi, spaziava a tutto tondo, su ogni campo dell’umana esperienza.

La sua intelligenza si soffermava con particolare interesse sul mondo rurale, che amava, sui valori ma altresì sulla complessa molteplicità dei suoi limiti culturali e fisici, sulle contraddizioni, sull’irrazionale violenza degli impeti individuali e collettivi, che inaridirono il cuore e le lacrime dei protagonisti.

Ma Pietro Mastino sapeva cogliere il vago sorriso del bimbo occasionalmente incontrato, il lampeggiare di uno sguardo che, pur senza dire, evocava retroscena gioiosi lasciando intravedere l’incontro di gens pacificate, vibrante di attività operosa in vista dell’imminente festa da celebrarsi fra slanci d’affetto e lezzi brucianti d’ironia pur nella solitudine di un gruppo familiare.

Ebbene Pietro Mastino si elevava su tutto ciò. Coglieva fremiti e fermenti, intuiva sviluppi paventando possibili folgoranti evoluzioni, dispiegava autorevole e determinante possente la parola pacificatrice rivolta a chi, pervaso da ferma violenza, sentiva scendere sul cuore la rugiada vivificante dì un nuovo futuro che solo l’alta autorità di chi sapeva e poteva aveva indicato.

Ma il Pietro Mastino che ho conosciuto io, che mi concedeva la sua confidenza cordiale ed accettava, perché no, ricercava con semplicità ed affetto la mia compagnia e quella di altri miei giovani colleghi, sapeva intessere un rapporto dal quale, bandita qualsivoglia ombra di saccenteria, tollerava con paziente, cortese ironia il nostro indottrinamento giuridico, intessuto di citazioni quando non addirittura di presuntuosa polemica, e lui ben lontano dal lamentarsi, da pari a pari accettava il confronto, polemizzava, discuteva e ragionava, dimostrava e, senza parere, insegnava al nostro acerbo sapere i valori profondi dell’umana sofferenza troppo aridamente imprigionata negli articoli di legge.

Ma guai pensare ad un Pietro Mastino che ci raccogliesse in trepida analisi di dottrine giudiziarie.

Il suo conversare si arricchiva di una grande umanità: i principi vestivano panni umani ed i protagonisti avevano nome e volti; ci raccontava aneddoti di varia umanità, protagonisti pastori, contadini, giudici in vicende nelle quali nell’incrociare delle lame lampeggiavano intelligenze degli uni o degli altri senza gerarchie paludate ma con risultati sempre altamente significativi, mai sterili od irrilevanti.

Chi non ricorda Santeddu e’ Ledda e il suo avversario Pau con in mezzo un giudice assolutamente irrilevante.

Ma Pietro Mastino era un grande oratore.

L’oratore (forense e politico) dei sostantivi, non degli aggettivi

Era un oratore forense e politico la cui compiutezza del dire si esprimeva nella forza vigorosa ed essenziale dell’esporre. Non amava gli oggettivi ma solo concetti significativamente concludenti in un susseguirsi di temi coerenti e necessari, l’uno all’altro logicamente concatenati, intellettualmente inscindibili.

La parola si svolgeva rotonda, quasi scolpita nel bassorilievo indelebile della pietra, limpida, concettualmente gradevole perché preceduta e seguita nel periodare asciutto e pur vibrante di intensa umanità.

E’ curioso rilevare come Pietro Mastino non avesse voce gradevole; peccava di una fonetica nasale che credo, soprattutto all’inizio, esaltava artatamente.

Sì perché nelle parole iniziali di Pietro Mastino, parlo dell’oratore forense, senza parere, ma con grande modestia e semplicità, si ponevano alcune premesse che il giudice tendenzialmente accettava in modo acritico, non solo perché erano battute iniziali di lapalissiana chiarezza, ma perché venivano interpretate di solito, come necessaria introduzione ad un dire assai più importante. E quindi la si attendeva nelle parti alte dell’arringa.

E invece no, nelle arringhe di Mastino la parte essenziale era la base.

Una volta accettata o comunque non scalfita quella base, non si trovava in tutto lo sviluppo dell’arringa un solo punto che se ne discostasse; ne costituiva la solida fondamenta e se gli si voleva dar torto bisognava risalire e quella e lì trovare il marchingegno logico in qualsivoglia modo viziato, processualmente criticabile.

Sbaglierebbe però chi pensasse ad un Mastino dal respiro ciceroniano il cui periodare arricchito di incisi, critiche, evocazioni e conclusioni si traducesse in un incalzare di argomenti intellettualmente invasivi dell’intelligenza dell’ascoltatore e tali da non consentirgli una riflessione critica.

Oh no, il discorso di Mastino era ampio, sereno, cadenzato da una musicalità oratoria che affascinava l’ascoltatore, lo conquistava e coinvolgeva in un consenso che lo rendeva protagonista di quella fase del dibattimento e spesso di tutto il dibattimento.

Era il suo fascino a spegnere l’empito critico; ascoltarlo significava esserne conquistati.

Il suo valore cresceva perché a Nuoro non era solo. Altri grandi oratori occupavano il proscenio forense: da Gonario Pinna ed Antonio Monni, Salvatore Mannironi, Francesco Murgia e Giovanni Battista Melis, Ignazio Sanna ed altri; di tutti si può dire qualità fuori dal comune e tali da onorare questo Tribunale, la Città, la Sardegna intera. Ma Pietro Mastino, a modo suo, era solo.

Non ricorreva certo alla mozione degli affetti per titillare epidermicità di sentimenti ed emozioni; rifuggiva dall’oratoria sentimentale pur sollecitata dalle mille opportunità dalla causa; no.

Pietro Mastino viveva il dramma processuale senza sbavature o facili concessioni al sentimento ma, proponendo al giudice le vibrazioni della profonda umanità che è pur sempre incorporata in ogni atto umano, sapeva giungere alla mente ed al cuore dei giudici con la forza del pensiero e della logica, di cui era signore.

Né si pensi ad un autore scarno ed essenziale, quale solo apparentemente egli era, alieno o peggio incapace di vis polemica; sapeva come pochi altri cogliere il momento debole nella tesi avversa e folgorarla con una battuta reagendo a sua volta con vigore e con forza alle avverse interruzioni senza trascurare, ove possibile, le battuta sarcastica.

E rimasta a lungo negli annali della storia giudiziaria sarda la risposta ad un professionista che lo aggrediva dicendogli: “ma Lei se la prende con i mulini a vento”, sentendosi rispondere quasi a volerlo rassicurare: “chissà perché Lei crede di essere un mutino a vento”.

Fiorellini di questo genere se ne potrebbero cogliere tanti ma rischierebbero d’ingenerare nell’ascoltatore l’immagine di un clima che, pur sopportando rare battute extra processuali, penetrava sin nelle intime fibre dei protagonisti, l’alto dramma umano cui la giustizia degli uomini tentava un’adeguata risposta.

Diverso, ma non per questo meno autorevole, incisiva e di ampio orizzonte, era la sua oratoria politica.

Nel Partito Sardo per unanime, affettuoso riconoscimento gli era riservato il compito di presiedere congressi che, purtroppo non furono, sin da subito, incontri sereni e di unanime sentire.

Nei primi anni della caduta del fascismo si pose il tema dei rapporti con il Partito d’Azione e quindi con Lussu che ne era diventato il segretario pur essendo fra i fondatori del Partito Sardo.

Solo l’abilità dei dirigenti e dello stesso Mastino impedì la lacerazione del partito al congresso di Macomer.

Non meno tempestoso, lacerante e conflittuale fu quello di Oristano che vide, per alcuni giorni, l’uscita di Lussu dal Partito che peraltro divenne definitiva nel successivo congresso della Manifattura tabacchi celebratosi a Cagliari.

In tutte queste circostanze Pietro Mastino guidò con mano ferma il dibattito dando il necessario spazio allo svilupparsi delle contrapposti tesi senza mai far prevalere in qualsivoglia modo il proprio pensiero.

Fu testimone e protagonista con interventi severi, concettosi, asciutti ma sempre vibranti di passione e patriottismo partitico del fiorire di una nuova forza politica, volta a realizzare una Sardegna finalmente autonoma e libera da condizionamenti, emarginazioni e sottosviluppo, pur restando nell’ambito di un’italianità che non esauriva peraltro gli ampi spazi del regionalismo all’origine del Partito Sardo d’Azione.

L’interprete di Sebastiano Satta

Per comprendere la forza interiore dei discorsi politici di Pietro Mastino dobbiamo riscoprire tutta la freschezza creativa delle origini che trovano bensì ispirazione nei rapporti vivi, intensi, passionalmente sofferti con Sebastiano Satta ed in minore misura, ma pur sempre significativa, con Attilio Deffenu, ma nel farsi egli stesso protagonista, con altri giovani abbacinati dai bagliori di una democrazia autonomistica capace di rivoluzionare lo Stato rendendo così ai popoli delle singole regioni, capacità di iniziative e forza propositiva che, pur senza rinnegare lo Stato, lo arricchivano dell’originale peculiarità specifica delle diverse componenti regionali.

Pietro Mastino è quindi portatore di una ventata innovativa che sconvolgendo il torpido mummificato dibattito politico del suo tempo poneva alla coscienza dei Sardi e della democrazia italiana i temi di una libertà che è conquista di popolo e mai dono del principe e quindi come tale, momento orgoglioso di responsabilità.

Né è da pensare che questi giovani avessero un modello definito in ogni sua parte, ma [avevano] un crogiolo incandescente di idee in continuo ed inesausto confronto per cui ciascuno restava se stesso con tutta la forza della propria intelligenza, creativamente volta a realizzare un ideale di vita che diventasse fiore di democrazia fra le istituzioni dello Stato.

Ecco perché i Sardisti non furono contro lo Stato ma per la sua rifondazione; il loro pensiero, sospinto oltre le coste isolane spaziava oltre lo Stato per ipotizzare una Comunità Europea che internazionalizzando la Sardegna la facesse membro di una famiglia, madre di pace e di solidarietà sociale. Luce di una nuova civiltà. A questo pensava Mastino: questo era il suo messaggio al futuro.

A questo pensavano i sardisti negli anni venti, quando l’Europa incupiva nella notte delle dittature fasciste, [e poi] dalla nazista alla franchista e della salazarista alla stalinista.

Il segno di pace di solidarietà e di progresso divenne messaggio dei giovani sardisti. L’Europa lo colse con oltre ottant’anni di ritardo.

Onore e gloria ai Mastino che in solitudine ma con alto senso della storia seppero penetrare le vibranti aspirazioni che erano poi il dolore e l’angoscia dei popoli.

Se Sassari aveva in Bellieni e Cagliari in Lussu le figure emblematiche del nuovo movimento, Nuoro, con Oggiano, aveva Mastino.

Non erano ovviamente i soli ma certo i più significativi. Solo così l’oratoria serena, autorevole, scarna ma esaustiva dei discorsi senatoriali svolti da Pietro Mastino, sempre ascoltato dall’aula con rispetto, con consenso e sempre con l’applauso.

Mai una voce aggressivamente discorde ai pur molteplici temi che lui ha trattato dagli anni venti fino a questo secondo dopo guerra: istituzionali, doganali, trasporti, ferroviari, viari, aerei e marittimi, soffermando la sua attenzione su questi ultimi in considerazione dell’esigenza di dotare la Sardegna di un armamento navale capace di istituzionalizzare una economia marittima essenziale alla insularità; non trascurò per altro, direi anzi che li prediligesse, i temi dell’ordine pubblico e dell’attività giudiziaria, denunziando le gravi colpe dello Stato in materia di denegata giustizia all’origine di “giustizia fattasi” da parte di un popolo che, in assenza dello Stato, non accetta l’ingiustizia, la prevaricazione, il sopruso.

I suoi discorsi sono alti di una serenità che diventa insegnamento di una tensione che coinvolge una compiutezza che diventa documento.

Ma per la cortesia dei nipoti Salis – Offeddu che mi hanno fornito fra i vari documenti alcune rievocazioni di Sebastiano Sotto fatte da Pietro Mastino in Iglesias ed in Nuoro, ho scoperto un poeta che, finalmente sciolto dall’obbligo del dimostrare la validità delle tesi giuridicamente o politicamente sostenute, si è abbandonato all’ineffabile, fervido, gioioso rapporto con l’infinito, per coglierne i fiori esaltanti e luminosi di una superiore poetica.

Sì, perché Pietro Mastino, leggendo ed amando Sebastiano Sotto, ne esalta i valori, i personaggi, scoprendo con lui recessi oscuri e pur dolenti di un’anima che non conosce resa ma solo il lungo perenne andare verso i lontani destini del fato.

Né Pietro Mastino se ne vuole allontanare ma è irrefrenabile la sua vis poetica che si eleva sui pastori del Satta, cogliendo il riso dei cieli, la fecondità delle valli, il rapporto possente, luminoso, gioioso, molteplice nel quale si erge dominante il patriarca; la cui magia trasfigura i poveri oggetti del quotidiano nei simboli di un popolo.

Quei patriarchi non sono più sardi, ma vigorosi testimoni di valori universali che diventano forza di civiltà. Uomini fuori dal tempo capaci di amare ma altresì di obbedire all’imperio impetuoso della violenza che vibra e s’intreccia di motivazioni morali ed umana dignità mentre nello sfondo si ode sommesso il pianto sconsolato delle madri per i figli che non faranno ritorno, caduti negli scontri endemici della tanca.

Ama Pietro Mastino la poesia di Sebastiano Satta, ama il dolore che non ha conforto né domani, quello stesso che ha ispirato Francesco Ciusa nel plasmarne le dolorose laceranti, intime sofferenze dell’animo nella raccolta solitudine della madre dell’ucciso.

Avvocato e patriarca? Soprattutto «un poeta che amava gli umili»

La poetica di Pietro Mastino vibra, cresce, diventa consapevolezza e si trasfigura nel brullo susseguirsi di paesaggi inariditi dal lento trascorrere di estati assolate, vigilate dall’arcana incombenza di antichi nuraghi; coglie e si commuove dinanzi alla sublime figura del pastore solitario che, nel suo errabondo vagare, coglie nel vuoto degli orizzonti la certezza di un’aurora, che, per virtù di figli, illuminerà, finalmente, i graniti della storia.

No, dice Mastino, non c’è fatalismo né rinunzia e men che mai ablativa lamentazione leopardiana nel pastore di Sebastiano Satta, ma un andare fra dirupi e sofferenze verso una cima che più che illuminata sarà incoronata dalla vittoria.

I fremiti che ne tormentano e squassano lo spirito nel suo difficile andare sono l’incentivo e la spinta determinante e vincente dell’impegno.

Nella poetica di Pietro Mastino, ancor più che in quella di Sebastiano Satta, si avverte che ogni conquista matura nel sacrificio, nella sofferenza, ma, altresì, nella luce che è impegno, forza etica, messaggio di civiltà.

Ecco perché, ancora una volta ripeto, per Pietro Mastino il patriarca di Sebastiano Satta non è un fatalista ma un vittorioso.

Ma per capire appieno Pietro Mastino al di là dei discorsi politici [da cui] pur nella misura del dire traspare possente un’umanità generosa assetata di solidarietà sociale; bisogna tornare ai suoi dialoghi con Sebastiano Satta, laddove si esalta l’impetuoso ribellarsi degli uomini cagliaritani – di questo popolo operoso ma secolarmente subalterno degli aristocratici (e perché no anche dei preti) – che diffondono nella Sardegna tutta la dignità della lotta per affermare la giustizia.

Nei commenti a Satta egli dirà che nei sardi quella lotta si trasfigura in un peana di vittoria come peraltro vittoriosi sono nel mondo tutti coloro che si battono per una causa giusta.

No, Mastino non ere un moderato, era un poeta che amava gli umili.

La sua poesia era fatta di amore, di solidarietà, di sogno, mentre la sua oratoria era fatta di principi, di ragionamento, di rigore logico ed etico pervaso però da un afflato mistico che ne nobilitava i significati e li riportava ai valori che sono della nostra civiltà.

Una civiltà senza violenza, senza sopraffazione ma di trepida, feconda, vibrante solidarietà.

 

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