Quella volta in cui il rap sardo anticipò quello italiano di vent’anni, di Stefano Curreli

Ho sovente riflettuto sui meccanismi e le influenze intercorse tra il rap sardo e quello del resto d’Italia, nell’ottica di un genere che – come e più di altre manifestazioni creative e, tout court, umane – ha come peculiarità quasi per antonomasia quella di modellarsi nei luoghi in cui attecchisce, assorbendone stilemi culturali e linguistici, e sviluppando di conseguenza sottogeneri di identificazione culturale incredibilmente caratteristici. Ed è stato così che in terra italica abbiamo avuto i vari sottogeneri locali del rap, ritrovandoci di fronte a un vigorosissimo rap continentale, soprattutto milanese, il quale – per ovvie ragioni – è sempre riuscito a imperare incontrastato, contagiando in maniera più o meno schiacciante le altre differenti manifestazioni locali.

La morfologia del panorama rap americano sul quale si è plasmato quello italiano dall’inizio degli anni Novanta fino ai primordi degli anni Duemila (quindi per tutta la cosiddetta Golden Age) si può – come è risaputo – dicotomicamente sintetizzare nella divisione di due distinti e opposti generi, quello East Coast, capeggiato da New York e caratterizzato da un immaginario cupo, impegnato e spesso aggressivo (cifra che viene mantenuta anche a livello musicale), e preferibilmente serioso, soprattutto a livello testuale; e quello che invece fa sede a Los Angeles, il genere della West Coast, che col suo clima torrido e i suoi paesaggi di palme e litorali incoraggiò un genere più votato ai temi faceti e legato alla vita da gang; questo in linea di massima e volendo ovviamente disegnare uno schema che, sebbene spesso diventi discutibile nel suo essere dicotomicamente rigido, alla luce dei fatti è ciò che noi italiani abbiamo sintetizzato e preso come vero e proprio paradigma.

Ed è stato così che l’Italia ha avuto la East Coast e la West Coast, o meglio: ha avuto la East Coast e ha finto di non avere quell’abbondante West Coast che albergava quasi esclusivamente in Sardegna e che ripetutamente era motivo di scherno per gli artisti continentali dell’epoca e degli addetti ai lavori, perché in Italia – lo sappiamo – il rap non è autoctono ma rappresenta il risultato di un’importazione, e, nascendo nei centri sociali, è sempre passato il messaggio che o lo si fa seriamente e in maniera impegnata oppure non lo si fa; e se eventualmente qualcuno prova a farlo in quella maniera è da cestinare.

 

Il rap come sottogenere davvero meritevole di scherno?

Tutto ciò avveniva in un’Italia che però il genere West Coast, come ho detto, lo faceva comunque, e solo in Sardegna (se escludiamo i Sottotono dei primi due album e mezzo). Ebbene, gli isolani ascoltavano e riproponevano quasi esclusivamente il genere West Coast e del Midwest, altra varietà affine, utilizzando produzioni musicali che riprendevano quelle del G-funk losangelino, utilizzando il talk box e – soprattutto – utilizzando il look di Snoop o Mc Eiht, con tanto di canottiera bianca, occhialoni neri, teste rasate – e talvolta treccine – e, per rincarare ancora di più la dose, stecchino tra le labbra e bandana legato sul braccio come veri e propri membri di una gang. Nel resto d’Italia, intanto, mentre noi proponevamo quest’immaginario abbracciato chiaramente a causa di una certa contiguità climatica e paesaggistica tra la California e la Sardegna, usciva, a metà degli anni Novanta, il disco dei milanesi Chief & Soci dalle sonorità newyorkesi e dalle rime taglienti, e l’hardcore dei Colle der fomento, di Kaos e di Lou X. E, per muoverci anche in una dimensione aneddotica, è opportuno ricordare che in quel periodo circolava una voce – molti frequentatori dell’hip hop isolano la ricorderanno bene – legata al fatto che quando Chief e i suoi soci sentirono per la prima volta Wessisla, il disco dei sulcitani Sr Raza (evoluzione del nucleo primordiale degli storici Sa Razza), risero e lo sbeffeggiarono per via di quei suoni e di quelle tematiche così distanti dal modo in cui andava fatto, a parer loro, il rap.

Detto questo, trovo alquanto significativo che un decennio dopo, quando in Italia ci si era stancati di pensare che il rap dovesse essere necessariamente un genere serioso e impegnato, molti di coloro che poi sarebbero diventati i nomi più famosi del paese, rivelarono che anni prima, nella segretezza della loro stanza, ascoltavano e adoravano il disco dei tanto biasimati Sr Raza, gruppo che non fu il solo a proporre in Italia un nuovo genere, ma che fu accompagnato dai sempre sulcitani La Fossa, dai cagliaritani Sardo Triba, e da altre realtà più piccole come i Viracocha, che purtroppo sono ricordati solo dai più attenti ma che a quei tempi avrebbero potuto farsi sentire molto di più di quanto in realtà non avvenne, se non fosse stato per un’Italia ancora molto tarata.

Coscientemente rei di non aver captato la novità che la Sardegna, contro tutto il resto dello stivale, proponeva, i detrattori di tale genere virarono già dai primi anni duemila verso un genere che non solo riprendeva sonorità (sebbene evolute e declinate in maniera differente) e tematiche westcoastine e del midwest, ma che si spingevano addirittura oltre, sia nel fatiscente abbigliamento che nei modi di porsi. Insomma, diventarono l’iperbole di ciò che per anni avevano attaccato e deriso. Se è vera quindi la voce che un tempo Chief & Soci sbeffeggiavano realmente l’ottima musica degli Sr Raza, ora i loro eredi Club Dogo (un tempo Sacre Scuole) passavano dai pezzi aggressivi alla Mobb Deep a pubblicare semi-cover delle hit del rapper di Miami Rick Ross, iniziando così ad abbandonare gli argomenti legati alle jam e alla cultura hip hop, per spostarsi verso l’elogio del denaro e della bella vita, con episodici tuffi nel Gangsta Rap che poi si faranno sempre più intensi e dominanti all’interno della loro musica. Ma bisognerà attendere fino alla metà degli anni Dieci per arrivare veramente a confermare che la Sardegna, in tempi davvero poco sospetti, propose un genere che poi sarebbe stato riconosciuto come il laboratorio primordiale da cui sarebbe nato il rap 2.0., ovvero la Trap. È infatti dall’evoluzione della Dirty South, genere del sud degli Stati Uniti, formatosi in stati come la Georgia, il Mississippi e l’Alabama, e divenuto celebre nella prima metà degli anni Duemila a livello mondiale, che la Trap vedrà la sua nascita. E quando anche in Italia, parallelamente a come avvenne negli Stati Uniti, il mainstream spazzerà via il sound newyorkese, tutti accorreranno ad abbeverarsi dalla fonte della Trap, genere nato, per l’appunto, dalla Dirty South, costola della West Coast e del Midwest Rap.

 

Disaminando intuizioni ed inaspettata enorme fortuna d’una evoluzione artistica

L’intuizione che ebbe la nostra isola è oggi dimenticata quasi del tutto. Il carro dei vincitori, che un tempo era un desolato carretto con a bordo quasi esclusivamente rapper sardi, si è affollato di coloro che un tempo millantavano fieramente di stare bordo del carro antitetico, e che hanno iniziato ad avviare questo travaso quando il loro carro andava in fiamme. Nessun biasimo da parte mia nei confronti degli artisti che attaccavano i rapper sardi westcoastini (anche perché si parla di una scena composta da ragazzi che al tempo avevano tra i diciotto e i venticinque anni) e che si son ricreduti nei confronti di certe tematiche e di un certo modo di far musica, ma – mi chiedo io, senza peccare di campanilismo, peculiarità che neppure mi appartiene – come mai ancora una volta si parla quasi esclusivamente del rap milanese e del rap romano, e non del rap che nella penombra aveva stretto e governato le redini di un cavallo che poi avrebbe trionfato su tutti? Perché dimenticare tutta questa storia?

Sfera Ebbasta, Ghali, la Dark Polo Gang e tutta la cosiddetta new wave italiana (sebbene non siano forse – e sicuramente, spesso, anche legittimamente – apprezzati dai tanti che hanno fatto la storia della West Coast sarda), non hanno nulla di Chief & Soci, nulla degli Otierre, dei Colle der Fomento e di Kaos, ma condividono appieno stilemi e tematiche di tutta l’ondata della West Coast sarda degli anni Novanta. Il fatto che nessuno ne parli e che in tanti fingano di non ricordare è un’irresponsabilità intellettuale sia da parte degli artisti italiani che degli addetti ai lavori, e ritengo che i tempi siano oggi maturi per far sì che chi ha coscienza di quanto è avvenuto, e chi ha ancora memoria di come abbiano funzionato queste dinamiche, faccia finalmente presente che il rap sardo anticipò quello italiano di vent’anni e che oggi – ingiustamente – non goda dei crediti che meriterebbe. Ebbene, ancora una volta emerge che essere geograficamente periferici comporta un limite di riconoscimento anche laddove si abbiano avuto intuizioni illuminanti. Mi ricorda un po’ l’opera Legarsi alla montagna dell’ulassese Maria Lai, che anticipò l’arte relazionale, e penso a tutta quella folta schiera di artisti che videro nel futuro ma che non essendo capitati nel posto giusto al momento giusto videro tardivamente riconoscersi il titolo di innovatori e di geni all’interno della storia delle arti. Con l’auspicio che anche alla Sardegna venga un giorno riconosciuto il suo fondamentale ruolo all’interno della storia del rap italiano, invito a recuperare i dischi degli artisti nominati sopra e di godere di una Dirty South e di una Trap ante litteram, tutta nostrana, la quale merita senza dubbio di essere riscoperta.

 

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    2 Comments to “Quella volta in cui il rap sardo anticipò quello italiano di vent’anni, di Stefano Curreli”

    1. By Mario Pudhu, 6 marzo 2019 @ 11:35

      Ma, o Stefano Curreli, «il resto d’Italia» est s’Itàlia o est sa Sardigna? Cioè: s’Itàlia est sa Sardigna o est s’Itàlia? (pro cumprèndhere nessi inue semus, coment’e “resto” fintzas a candho no isparesseus acoment’e pantàsimas)

      • By Stefano Curreli, 7 marzo 2019 @ 13:09

        Ringrazio il professor Pudhu per l’osservazione certamente pertinente. Quando parlo del “resto” dell’Italia parlo del continente (dei centri maggiori e minori dove si fa musica e, specificamente, musica rap) e, per converso, parlerei anche della Sardegna, intendendola “idealmente”, non geograficamente, come parte dello stivale, anche se a me sardo-ed-italiano piace di più, per educazione familiare e civile, sentire l’Italia come una comunità composita, ricca di originalità storiche, linguistiche e sociali. Comunque ho posto la questione nei termini rilevati perché sul piano giuridico-istituzionale la Sardegna è parte dell’Italia (e quanto impoverimento ci sarebbe per entrambe se l’una non partecipasse all’altra, o l’altra non comprendesse l’una). Chissà, in un mondo sempre più di “dipendenze reciproche” sarebbe anche bello pensare a queste categorie applicate al campo artistico e musicale, e della stessa musica rap: negli incroci inevitabili fra le ispirazioni e le produzioni che viaggiano per megacontinenti, noi sardi raccogliamo dagli altri e restituiamo non copie ma nuove originalità all’Italia penisolana, all’Europa e all’America dell’est e dell’ovest, e al mondo intero. Ma naturalmente non volevo in alcun modo entrare in merito al dibattito sempre interessante (grazie anche ai contributi del professor Pudhu) sul “separatismo”, o chiamiamolo come vogliamo, isolano.