Francesco Ciusa tra arte e libero pensiero, di Annico Pau
Nella ricorrenza del settantesimo anniversario del passaggio all’Oriente Eterno del grande scultore nuorese Francesco Ciusa, occorre doverosamente ricordarlo ai sardi.
Quel giovane autore della Madre dell’ucciso che, scherzosamente e con un abile giro di parole, Sebastiano Satta compendiò mirabilmente “Io son Francesco, padre della madre / dell’ucciso, e son l’avolo del figlio… / così a vent’anni, puro come un giglio / divento nonno prima d’esser padre”.
Figura ricchissima di virtù umane e di talento artistico, non si vergognava di aver appreso a leggere, scrivere e far di conto avendo frequentato solo le classi elementari, avendo perso il padre alle soglie per l’iscrizione al ginnasio. Dopo un periodo di sbandamento, che lo portò anche a ribellarsi alla madre che intendeva avviarlo agli studi sacerdotali. Fuggi infatti di casa, andando dai parenti a Dorgali.
Fattosi più maturo dalla durezza della vita, per recarsi a studiare scultura, per la quale aveva molta tendenza, chiese aiuto al Comune di Nuoro, che a questo fine decise di concedergli un piccolo sussidio.
Con questa modesta borsa di studio e facendo molti sacrifici, il giovane artista si lanciò verso l’avventura fiorentina che per lui fu prodiga di risultati e di un futuro luminoso.
A Firenze la sua vita cambiò radicalmente, uscito com’era da una condizione di quasi isolamento paesano, si era lanciato verso una realtà vasta e cosmopolita, ricca di storia e di stimoli culturali e artistici. Perciò oltre occuparsi e impegnarsi a fondo della scuola pratica di nudo si lanciò a capofitto nello studio dei classici della letteratura, nello sforzo positivo di affinare la propria cultura. Ebbe come maestri grandi artisti come Giovanni Fattori e Adolfo de Carolis, che lo avviarono verso un luminoso cammino artistico-culturale.
Negli anni che seguirono, con l’aiuto del maestro laico e libertario Sebastiano Satta, si dedicò all’approfondimento del libero pensiero. Tant’è che lo troviamo tra coloro che aderirono al primo Congresso sardo del libero pensiero, che si tenne a Tempio nei giorni 19 e 20 settembre 1908, cioè centodieci anni fa.
Il rientro nella sua Nuoro gli permette di tuffarsi con entusiasmo sul tema della sardità, nonostante le sovrastrutture culturali e interpretative, educato com’era alla grande arte italiana e ai segreti degli scultori toscani del Quattrocento.
Iniziò quindi a lavorare nel suo umile studio, formato da due modeste stanze nel rione di Sèuna, dalle cui finestre si poteva ammirare la meravigliosa vallata di Baddemanna che degradava fino al flessuoso fiume Cedrino e in fondo, imponente, si scorgeva l’alpe di Oliena che, come lui stesso afferma gli “… suscitava angoscia” e gli pareva di trovarsi “sperduto in una vastità immensa…”.
Dopo aver modellato, in grande solitudine, nel suo studio La madre dell’ucciso, opera che sarebbe diventata famosa in tutta la nazione, senza raccomandazioni, così come avrebbe fatto qualsiasi giovane di belle speranze, aveva spedito l’opera alla Biennale di Venezia, ottenendo, allora ventitreenne, un clamoroso successo e superando scultori di grande fama internazionale quali il francese Rodin e il suo allievo Bourdelle.
Successivamente Emilio Lussu scrisse di lui che era stato l’unico a capire la “cattiveria” dei sardi, dando atto che il Nostro era riuscito ad interpretare, come nessun altro prima di lui, neppure Grazia Deledda e Sebastiano Satta, l’animo profondo dei sardi.
Nel 1925, venne incaricato di dirigere ad Oristano la Scuola d’Arte Applicata, in questa scuola si formarono intere generazioni di valenti ceramisti.
Dopo circa quindici anni di permanenza alla guida della scuola si trasferì a Cagliari che, rispetto a Oristano gli consentiva ampi spazi e grandi possibilità per farsi conoscere. Non amava però Cagliari e come lui stesso affermava, col suo trasferimento restava “…arenato nel porto di Cagliari dopo che Venezia era stato un salto verso la luce e Cagliari un salto nel buio”.
Per anni ebbe grandi successi ma anche cocenti delusioni artistiche oltre che personali. Ebbe infatti lunghi periodi di forte incupimento e in età matura si avvicinò a un contesto di forte spiritualità e, come lui stesso dice: “Leggevo molto, in quegli ultimi anni in cui mi sentivo spento; e ricevevo molte visite d’amicizia nel mio studio”.
Mori nel mese di febbraio 1949, lontano dalla sua Nuoro che, col passare degli anni gli ha dedicato una via, una scuola ed un museo (peraltro chiuso da tempo per ragioni strutturali e di gestione), ma il tempo inesorabilmente stende un velo di oblio su questo grande artista soprattutto da parte dell’amministrazione civica e tra le nuove generazioni. Così va il mondo.