La figura di Antonio Ponsiglioni, il… gemello di Francesco Cocco Ortu sr., nel brioso ritratto biografico offertoci da Marina Valdès, di Gianfranco Murtas

Se il suo maggior campo di studio, fra le carte antiche degli archivi pubblici e privati, era stato quello dei territori e dei sodalizi, non è mancato, nella esperienza di lavoro di Marina Valdès, quello biografico dei personaggi. E forse in esso la ricercatrice storica e archivista di Stato che abbiamo dolorosamente perduto pochi mesi fa, competente ed attenta ad ogni dettaglio o sfumatura del documento, aveva trovato anche una opportunità per rivelare gradevolissime doti di narratrice – piana, efficace e suggestiva nei rimandi ai testi selezionati –, capace di trasmette al suo lettore (occasionale o no) il gusto della conoscenza di personalità di primo piano eppure piuttosto ignote o quasi alla generalità della popolazione anche discretamente acculturata.

Fra queste personalità io metto Antonio Ponsiglioni, di cui la Valdès tracciò un esemplare profilo umano, politico ed accademico in un lungo articolo apparso nell’edizione 1987 dell’Almanacco di Cagliari (“Tra politica e studi: un’eminente personalità dell’Ottocento sardo, Antonio Ponsiglioni” il titolo e l’occhiello, con il seguente sommario: “Nato a Cagliari nel 1842, partecipò attivamente alle vicende del Risorgimento e sedette in Parlamento. Contemporaneamente si affermò negli ambienti accademici quale autore d’importanti pubblicazioni scientifiche”).

Fu tante cose, Ponsiglioni, in Sardegna e fuori Sardegna, già da giovanissimo. Ed io credo che molto del suo fascino derivi proprio dai suoi precoci cimenti nelle generose fatiche del risorgimento patrio, per l’unità italiana – territoriale e politica in chiave liberale o liberaldemocratica – ed anche nelle gare accademiche ed elettorali, combattute e concluse con alterna fortuna. Naturalmente fino ai definitivi successi, e accademici ed elettorali, venuti a riconoscimento e coronamento di una vita di impegno culturale e democratico: così, a dire di funzioni apicali, con il rettorato dell’università di Genova come con il seggio parlamentare due volte conquistato (nel 1876 – l’anno che segnò anche l’esordio della sinistra storica al potere – e nel 1890, per un quadriennio la prima volta e per appena due anni la seconda), senza dire – e invece bisogna dire – del seggio vitalizia al Senato che egli onorò dal 1901 alla morte.

Ormai va implementandosi – dacché, ormai trenta e più anni ne scriveva Marina – la bibliografia relativa a Ponsiglioni. Soprattutto la pubblicazione, ad opera del caro e compianto Tito Orrù e di Marinella Ferrai Cocco Ortu, delle Memorie autobiografiche 1842-1889 di Francesco Cocco Ortu (così dalla cagliaritana AMD nel 2012), ha fornito un apporto eccentrico eppure rilevante (per le circostanze riferite) e soprattutto autorevole per la fonte, onde integrare le notizie già in nostro possesso e, con riferimento specifico ai miei particolari interessi di studio della storia della Massoneria sarda, illuminare situazioni e personalità che tanto più negli anni ’60 del XIX sec. hanno marcato i tratti partecipativi di Cagliari e della Sardegna alla appena compiuta unità nazionale.

Ma prima di arrivare a Cocco Ortu e ai suoi riferimenti massonici ed accennare anche alla nuova e alla vecchia bibliografia, vorrei qui richiamare anche un bel contributo, non granché valorizzato, di Pietro Leo: non però quello consegnato a Sardegna e Risorgimento, pubblicato dalle edizioni de Il Convegno in occasione del centenario della unità italiana, bensì quello di apparenza meno canonico ma di sostanza non meno valida affidato alla terza pagina de L’Unione Sarda il 19 novembre 1961, nel maggior quadro delle rappresentazioni delle “figure del Risorgimento”. In quella puntata, Ponsiglioni comparve con Patrizio Gennari, l’accademico al quale Cagliari deve l’impianto del suo orto botanico in area Palabanda.

Universitario appena diciassettenne, alla notizia della spedizione garibaldina in Sicilia «vendette orologio, libri e perfino indumenti per procurarsi quanto occorreva per il viaggio» ed unirsi all’impresa dei volontari. Dopo sei giorni di mare tempestoso e d’ogni altro genere di difficoltà, il veliero in cui s’era imbarcato attraccò a Palermo: indossò la camicia rossa, partecipò all’ultima, decisiva e massacrante (500 morti, 1.300 feriti) battaglia del Volturno. Avrebbe scritto: «in quel momento che mi fu dato di incontrare lo sguardo di Garibaldi che passava framezzo ai volontari acclamanti, come la più splendida visione di gloria e di bontà celeste, io tutto dimenticai, io tutto compresi la sublime voluttà del sacrificio per la Patria».

Di lui si ricorda qualche esperimento poetico ed in particolare si ricordano i versi de “Il canto dei Garibaldini” pubblicato nella cagliaritana Gazzetta Popolare del giugno 1860.

Alla pubblicistica – a proposito di testate giornalistiche – fu in gioventù attratto particolarmente e molte energie spese (con Cocco Ortu, compagno d’età e di studi) nella redazione de La Bussola, punta avanzata del liberalismo allora con molte sfumature democratico-mazziniane. Le ostilità registrate verso queste prove di pensiero libero e di civismo anticonformista, insieme con la necessità di intraprendere la sua carriera professionale, lo costrinsero ad un certo punto a lasciar perdere ed a puntare tutto sull’avvocatura e l’insegnamento. Democratico sarebbe stato in altro modo, un domani anche nel Parlamento.

Laureatosi nel 1863, ventunenne appena, subito concorse alla cattedra disponibile a Catania, e trovò nel tempo riconoscimenti e gratificanti posizioni nell’università ora per le competenze maturate nelle scienze giuridiche ora per quelle economiche. Siena e Genova furono le tappe maggiori dei suoi successi accademici.

Ricordò Leo: «Quantunque ne fosse lontano da anni, Cagliari, che ne aveva seguito con simpatia la rapida ascesa, con votazione plebiscitaria lo mandava al Parlamento nelle elezioni del 1876… Pur essendo molto diligente e scrupoloso nell’adempimento del mandato politico la sua vita parlamentare fu breve: rieletto infatti nel 1890, alla vigilia delle elezioni del 1892 ebbe l’ingenuo coraggio di dirigere ai suoi elettori una lettera programma in cui fra l’altro è detto “io ho rifuggito assolutamente per indole dal passare le giornate nelle anticamere dei Ministri col pericolo certo di lasciare a brandelli per gli usci la dignità dell’ufficio, confido che in ciò avrò il plauso della immensa maggioranza dei miei concittadini”. Ma l’immensa maggioranza dei suoi elettori pare la pensasse diversamente e l’aula di Montecitorio si chiuse per lui definitivamente…».

Venne poi la nomina senatoriale (quando però il male s’era già presentato nel suo fisico) ed ecco la morte, i funerali in Genova (e la sepoltura a Staglieno, non lontano dal Mazzini della sua gioventù), la commemorazione in Senato, l’eco di un lutto che si affacciò nella redazione dei maggiori giornali d’Italia. Nell’anniversario della morte fu solennemente ancora una volta commemorato presso l’università di Genova che lo aveva visto docente e rettore: parlò di lui il prof. Pasquale De Murtas.

Nuovi cenni su Ponsiglioni massone

Non compare, il nome di Ponsiglioni, nei goccius de is framassonis, che dal chiacchiericcio urbano piluccarono, chissà come, qualche nome, nel 1865. Ma Cocco Ortu ne scrisse così, dopo aver detto degli studi condivisi con il suo amico, sia quelli giuridici, in vista degli esami universitari ancora da sostenere, sia quelli letterari, condotti per puro diletto ( «ci esercitavamo [nei] classici latini, volgarizzando Orazio e Virgilio ed altri classici e in letture degli italiani prosatori e poeti»), ed aver detto anche dei primi cimenti giornalistici, allievi di Gavino Fara, ne L’Imparziale (fra 1861 e 1862, da neolaureati) e poi ne La Bussola, testata ripetutamente esposta ai sequestri della magistratura:  «essendosi bandito un concorso per esami per cattedre vacanti negli atenei siciliani, decidemmo di porre la nostra candidatura, egli per l’economia politica, io per il diritto amministrativo nell’Università di Catania […]. Nessuno dei concorrenti al posto cui aspiravo ebbe la nomina a ordinario. Anche il Ponsiglioni non la conseguì (perché fu conferito dal ministro al Maiorana Calatabiano per titoli), nonostante la Commissione esaminatrice in cui erano Giuseppe Ferrari e il Broglio, gli fosse favorevole, tanto che il Ferrari gli scrisse che gli si offriva la cattedra di diritto romano vacante nell’Università di Siena, e riuscì ad ottenerla. Egli non la voleva, ma io lo indussi ad accettarla e non la tenne a lungo, perché ebbe il passaggio a quella di economia nello stesso ateneo.

«Era un atto di giustizia riparatrice, dovuto per il saggio lodevole. Ma a provocare l’interessamento caldo prima spiegato, influì la fraternità massonica di alcuni membri della commissione con il Ponsiglioni, del quale seppi poi che faceva parte della Loggia di Cagliari.

«Egli, sebbene fossimo inseparabili, me ne fece un mistero. Soltanto al mio ritorno a Cagliari, dopo l’assenza di alcuni mesi trascorsi in campagna [per malanni grastro-intestinali che ne rinviarono la discussione della tesi all’inizio del 1863], mi parlò delle persone della massoneria e della convenienza di entrare nella loggia costituita in Cagliari dall’avvocato consigliere di appello Lachenal, un savoiardo ex deputato, che volle conservare la cittadinanza italiana. Ma essendomi espresso in termini recisi contrari ad ogni associazione segreta nella quale sarebbe stata vincolata la mia libertà, egli lasciò cadere il discorso. Non fece più motto, sicché né allora né poi sospettai neppure lontanamente la sua appartenenza; anche perché ignaro della formazione della loggia cagliaritana. Ne fui informato dopo qualche anno, dopo che entrai in collaborazione col Fara nell’ufficio suo d’avvocato.

«Questi mi confidò che sotto l’apparenza di costituire una società filantropica di beneficenza era stato invitato a farne parte insieme con altri cittadini notevoli, tra i quali il padre Piga, un dotto religioso dei minori che fu poi procuratore generale dell’ordine. Accortisi però del trucco, fecero sciogliere l’associazione ed il Fara che ne aveva gli atti se li tenne e li fece andare a male. E ciò mi disse a spiegare la guerra».

Si tratta di notizie – queste ultime in particolare – già trattate dal prof. Del Piano nel suo Giacobini e Massoni del 1982. Esse meriterebbero forse nuovi approfondimenti e nuove chiavi interpretative, se, per esempio, quella mancata formalizzazione della ipotizzata «società filantropica di beneficenza» fosse riferibile, nel concreto, a quella certa accademia umanistico-scientifica che era entrata nei programmi della loggia Vittoria – fondata alla fine del 1861 appunto dal de Lachenal in chiave piuttosto ecumenica, ancorché con una missione liberal-unitaria e cavouriana – e che non aveva poi potuto infine concretarsi nel 1864. Si trattava di riunire – analogamente a quanto operato in più capoluoghi di provincia del continente – le migliori intelligenze regionali nei campi classici tradizionali ma poi anche in quelli più orientati al futuro, di natura scientifica, onde sviluppare pratiche applicazioni di scoperte e invenzioni (così nella ingegneria e nella medicina, nella botanica o nella chimica ecc. per gli usi, mettiamo dell’agricoltura, fra concimi e mezzi meccanici).

Per il resto sembra utile recuperare, ed avere conferma della circostanza già segnalata dall’archivio storico del Grande Oriente d’Italia, il nome di Ponsiglioni quale membro della prima stagione della Vittoria: interpretando la mancata sua inclusione nei goccius con la sospensione della frequenza delle tornate di loggia a causa del suo trasferimento in continente, a Siena, quale titolare di cattedra (18656-1875), prima del definitivo approdo all’università di Genova. Colpisce la precocità degli arrivi: e la stessa militanza massonica cagliaritana, fra le colonne della loggia Vittoria – forse operante fin dall’inizio a palazzo Villamarina, ad un passo dalla cattedrale – parrebbe potersi combinare ad un’età anagrafica giovanissima, configurando l’enfant prodige quale in effetti egli fu e fu riconosciuto. (Invero altrettanto giovani erano anche altri di quell’originario piedilista formato per il più da medici e avvocati e docenti universitari: fra essi quel Pietro Ghiani Mameli, anch’egli classe 1842, destinato a successi e insuccessi nel business del credito oltreché nella politica).

Certo è che di Ponsiglioni forse fu la primissima stagione della sua vita di adulto (fra gli anni dello studio universitario e quelli del cimento sia accademico che professionale) a presentarlo bene: patriota democratico a mezzo fra Mazzini e Garibaldi e pubblicista in giornali malvisti dall’occhiuto potere prefettizio e giudiziario: La Bussola, in particolare, fu tribuna avanzata di un’istanza democratica e perciò bersagliata con sequestri a ripetizione. Firmandosi “Becero” egli rispose, colpo su colpo, con versi satirici, alle disposizioni del magistrato (cf. sul punto le ampie note di accompagno alle Memorie coccortiane, curate da Tito Orrù e Marinella Ferrai Cocco Ortu).

Del giornale furono collaboratori assidui sia Giovanni Battista Tuveri sia i due fratelli Uda – Felice e Michele – entrambi artieri della loggia Vittoria, la stessa del giovanissimo Ponsiglioni.

Quest’ultimo – seguendo la traccia che ne lascia Francesco Cocco Ortu – lo si ritrova ancora “azionista”, presente in quella «corrente rinnovatrice… inizio sicuro e presagio dell’indipendenza e dell’unità nazionale, e insieme speranza per le future sorti dell’isola»: qui il riferimento è ad una «sezione» sì di scarso numero fra gli studenti universitari ma capace egualmente di osare farsi «interprete del pensiero e delle aspirazioni dell’isola, delegando il deputato Giorgio Asproni a rappresentare la sezione sarda nei congressi dei comitati di provvedimento e delle associazioni del partito d’Azione, i cui gruppi erano focolari che tenevano viva la fiamma dell’ideale e l’agitazione per il compimento dell’unità nazionale». Lo scrive esplicitamente, l’ormai anziano parlamentare, inscrivendo se stesso e Ponsiglioni (con un altro collega della facoltà di Medicina) fra coloro che, in quei primi anni ’60, sentivano «che la vita sarda movevasi in un orizzonte più ampio dell’atmosfera regionale in cui era stata fino a quei giorni circoscritta, in cui si respirava un’aura vivificatrice di libertà».

Fattosi, col tempo, ministeriale – quando la sinistra governativa era quella di Depretis e poi di Crispi, non di Zanardelli (per la quale invece tirò allora e dopo Cocco Ortu) – ebbe, Ponsiglioni, alterna fortuna elettorale; certamente però – bisognerebbe dire – il centro dei suoi interessi pubblici era divenuto ormai l’insegnamento e non più la politica.

Marina Valdès guarda, nel suo profilo biografico, all’uomo forse più che al politico e al parlamentare e pare voglia anticipare così dell’uomo pubblico e delle istituzioni rappresentative un più ampio tratteggio, quello che ancora manca. E che sarebbe bene trovasse oggi chi ci si applicasse.

Avvocato, professore e politico, massone liberaldemocratico

“L’Unione Sarda” del 29 agosto 1892 scriveva: «Già prima delle 7,30 la sala del Teatro era affollata e la massima animazione regnava…Il banchetto incominciò verso le 9 e si protrassi sino a circa la mezzanotte in mezzo alla più viva animazione. Il menù era il seguente: zuppa alla reine; aragoste in salsa olandese; filetto di bue alla Villeroy; patées di piccioni all’italiana; verdura; piselli con crostini; arrosto; tacchino con insalata alla russa; crema alla portoghese alla vaniglia; frutta, formaggio; vini: Seui, vernaccia, moscato; caffè; cognac».

Questo banchetto – tenutosi due giorni prima al Teatro Civico e che qualcuno si affrettò a definire “geniale” – costituisce il momento più significativo della campagna propagandistica svolta da Antonio Ponsiglioni in vista delle elezioni del successivo 5 novembre. Il che non deve stupire in quanto, nella seconda metà del secolo scorso, l’accreditamento del candidato presso il corpo elettorale avveniva, proprio, attraverso pantagrueliche mangiate, seguite dall’immancabile discorso, cui prendevano parte quelli che, oggi, comunemente, vengono chiamati galoppini. Ponsiglioni non poteva sfuggire alla regola; pertanto, i suoi sostenitori si dettero convegno nel tempio cittadino della lirica per partecipare alla libagione ed ascoltare le parole dell’uomo che intendevano mandare alla Camera.

Ma, chi era questo Antonio Ponsiglioni che si presentava al giudizio degli elettori sardi? Oggigiorno, tra, il grande pubblico, il suo nome dice poco; a conoscerlo sono soltanto gli specialisti di storia sarda. Tuttavia, all’epoca, fu una delle più eminenti personalità isolane e raggiunse grande notorietà sia come uomo politico che come studioso.

Ponsiglioni era nato a Cagliari l’11 febbraio 1842 da Michele, benestante, e da Lucia Orrù di S. Raimondo, ultimo di sette figli; e, nella sua città, aveva compiuto gli studi coronati dal conseguimento della laurea presso la facoltà di Scienze politico-legali, allievo del grande giurista Antioco Loru. Giovanissimo, con l’amico Francesco Cocco Ortu e l’avv. Gavino Fara, aveva fondato “La Bussola”, un giornale d’opinione cui collaboravano anche Giovanni Battista Tuveri ed i fratelli Felice e Michele Uda. Il foglio ebbe, però, vita molto breve: sequestrato, una prima volta, per aver pubblicato una lettera di Giuseppe Mazzini e divenuto oggetto di vivacissime polemiche in seguito ad un commento sull’episodio di Aspromonte dovette cessare le pubblicazioni per mancanza di tipografie disposte a stamparlo. Nel frattempo – siamo negli anni 1862-1863 – seguendo una prassi comune all’ala più democratica della classe risorgimentale, aderì alla loggia massonica “Vittoria” fondata a Cagliari dal magistrato di origine savoiarde Pietro Francesco Lachenal.

La passione politica era nata in lui precocemente, con gli ideali di patria, libertà, fratellanza che tanto fascino dovevano avere sui giornali del suo tempo. Il 26 giugno 1860 aveva pubblicato, nel quotidiano cagliaritano “La Gazzetta Popolare”, un “canto dei garibaldini”: «Noi siam figli dell’itala terra / pei fratelli e alla guerra / pei fratelli incontriamo il martir».

Ma il tributo del diciottenne Antonio Ponsiglioni alla causa nazionale non doveva limitarsi alla retorica. Subito dopo, infatti, insieme ad altri giovani, si imbarcava per Palermo per arruolarsi volontario nelle file dei garibaldini che, poi, seguì nelle successive imprese. Nell’ottobre dello stesso anno partecipò alla battaglia del Volturno che, 22 anni dopo, ricorderà con queste parole: «Permettetemi, o Signori, un ricordo che è il più prezioso della mia vita. Nel 1° ottobre, su quelle sponde del Volturno, santificate dal sangue di 506 morti e 1328 feriti, mi trovavo anch’io al pari di tutti i giovani d’Italia, a cui la opportunità delle circostanze ha acconsentito di accorrere: non v’era molto merito in ciò: era caso, era fortuna. Durante la campagna un pensiero doloroso mi stava fitto come un coltello nel cuore: il pensiero della mia madre che avevo lasciata a Cagliari, senza poterla salutare, vecchia ed inferma e della quale non avevo avuto notizie. Ma in quelle ore della inebbriante vittoria, e segnatamente in quel momento che mi fu dato incontrare lo sguardo di Garibaldi, che passava fra mezzo ai volontari acclamanti come la più splendida visione di gloria e di bontà celeste, che sia mai apparsa a fantasia umana, io tutto dimenticai, io tutta compresi la sublime voluttà del sagrifizio per la patria».

Quando il periodo della lotta armata ebbe termine, Ponsiglioni smise la camicia rossa ma la conservò come preziosa testimonianza di un’epoca di grandi passioni e idealità; e, alla sua morte, il cimelio fu gelosamente custodito dalla vedova unitamente ad un autografo del marito, «ricordo della campagna del 1860-’61 nell’Italia meridionale, questa camicia indossata mentre ero garibaldino in Napoli, ed usata nel giorno della battaglia del 3 ottobre 1860 al Volturno, fu da me smessa in Genova ed affidata al fratello Enrico nel 2 marzo 1865».

Nello stesso tempo, l’attività politica di Ponsiglioni subì un rallentamento, vuoi per gli impegni connessi all’insegnamento vuoi per la situazione generale. Essendo un esponente della Sinistra, la sua affermazione politica avverrà più tardi, in seguito alla caduta della Destra Storica. Candidatosi a Cagliari nelle elezioni del 1876, fu eletto deputato; ma, un voto contrario da lui dato nel 1878 al ministero Zanardelli provocò furibonde reazioni che ne determinarono la bocciatura nelle successive consultazioni; sarà rieletto solo quattordici anni dopo, nel 1890.

Ma torniamo al banchetto. Nel 1892, Ponsiglioni si ripresenta candidato a Cagliari. “La Sardegna” di Sassari ce ne offre questo ritratto: «non è ancora cinquantenne; è tarchiato; ha uno sguardo acuto che rivela l’ingegno. Parla poco alla Camera, il che dopo tanti discorsi inutili che si infliggono al rispettabile pubblico – non è merito… comune. Deputato o no, Antonio Ponsiglioni rimane uno dei sardi – e sono forse più di quel che gli spiriti volgari credono – che sono molto stimati al di là del mare». Ma i suoi avversari non sono di questo avviso e lo attaccano con decisione, accusandolo di assenteismo dal collegio elettorale e contestandogli l’appoggio incondizionato a Crispi sulla politica tributaria e l’opposizione al ministero di Rudinì. Il discorso-fiume, pronunciato in occasione del banchetto al Civico e pubblicato in versione quasi integrale da “L’Unione Sarda” del 29 agosto, rivela l’esigenza di rintuzzare, punto per punto, le pesanti critiche. Rievocati gli avvenimenti e le scelte da lui operate, Ponsiglioni rivendica la sua coerenza di uomo e di politico: «d’altronde io, uomo di sinistra, dovevo votare contro Crispi, mentre la destra di sollevava contro di lui? E votai per lui obbedendo innanzi tutto alla mia coscienza e nella certezza altresì di rispettare la volontà degli elettori che pochi mesi prima m’avevano dato il suffragio sotto gli auspici del nome di Crispi». Quanto al programma, reputa necessaria una riforma del sistema tributario che corregga l’iniqua distribuzione delle imposte e si dichiara contrario all’estensione della politica coloniale: «finché l’isola nostra non sia tolta alla miseria e all’abbandono in cui si trova, è un delitto; è un’onta che i denari dei contribuenti italiani si profondano e di disperdano in terre lontane e inospitali. Che se a taluno parrà di poter contestare il fatto col pretesto del decoro nazionale, gli si chieda qual decoro possa vantar l’Italia mentre lascia deserte e incolte le sue province più benemerite». L’oratore concludeva il discorso con la frase: «Viva l’Italia, il cui bene è inseparabile dal bene della Sardegna, viva la Sardegna redenta economicamente…».

Ma, alle urne, non gli arrise il successo sperato; la debàcle gli costò l’uscita dalla vita politica che sarebbe stata definitiva se, nel 1901, Vittorio Emanuele III non l’avesse nominato senatore del Regno. Ponsiglioni aveva, oramai, raggiunto i sessant’anni e ricopriva la prestigiosa carica di rettore dell’Università di Genova dove si era svolta buona parte della sua brillante carriera accademica, precoce almeno quanto la passione politica. Già nel 1864, appena ventiduenne, aveva concorso all’Università di Catania per la cattedra di Economia Politica, presentando una monografia dal titolo “Lavoro e Scambio” che fu molto apprezzata dalla commissione e gli consentì di piazzarsi a pari merito con Maiorana Calatabiano, economista affermato, cui fu assegnata la cattedra. L’anno dopo prese servizio presso l’Ateneo di Siena dove insegnò Diritto romano e, successivamente, Economia politica. Durante la permanenza nella città toscana pubblicò il “Trattato di economia sociale”, quasi un compendio delle dottrine liberali e liberistiche sulla produzione, la circolazione e la distribuzione della ricchezza che, non a caso, riporta sul frontespizio una frase di Adam Smith. E pure di questo periodo il bel discorso ai laureati di Siena del 1867 in cui, facendo il punto sulle esigenze dell’Italia unita, mette al primo posto il risorgimento scientifico e morale, affidato a quei giovani che credono profondamente nella verità e nella scienza. Seguono alcune “letture” che l’editore Treves stamperà nella colonna settimanale “La scienza del popolo” con titoli accattivanti quali “Il banchetto della vita”, “Istruzione e temperanza”, “Il giuoco del lotto”, “L’avvenire dell’operaio”, “La fisiologia del credito”. Nelle ultime due, ancora pone l’accento sui problemi del lavoro libero e della libera circolazione dei capitali, garanzie di una giustizia sociale che avrebbe comportato la «redenzione di ogni classe sociale dalla schiavitù dei bisogni più permanenti e più inesorabili della vita». Questa la ricetta per raggiungere l’ambizioso obiettivo: drastica diminuzione delle imposte anche per le aziende, eliminazione di vincoli e monopoli, riduzione della burocrazia.

Nel 1875, Ponsiglioni fu chiamato a Genova come successore del senatore Gerolamo Boccardo nella cattedra di Economia Politica. E, nel capoluogo ligure, sua patria d’adozione, si fermerà per il resto della sua vita. Qui si sposerà con Anna Secondi; qui nasceranno i suoi due figli, Giorgio e Maria; qui si affermerà definitivamente in campo accademico. Fu, infatti, preside della facoltà di Giurisprudenza per dieci anni e, per sei, rettore. A Genova si affermò anche nella professione forense (civile e penale) e come oratore, tanto che la “Società delle letture e conversazioni scientifiche” lo elesse ripetutamente presidente e gli conferì l’incarico di commemorare Garibaldi e Mazzini. A proposito del suo eloquio, il già citato “La Sardegna” rilevava: «Antonio Ponsiglioni è oratore elegante; la sua voce è talvolta un po’ stridula, ma l’uditore resta incatenato dalla profondità dei concetti, dalla frase incisiva e corretta».

Morì a Quinto al mare all’alba del 14 marzo 1907 e fu sepolto nel cimitero di Staglieno. Il giornale genovese “Caffaro” si espresse: «Con Antonio Ponsiglioni scompare una nobile figura di scienziato severo, di maestro affettuoso e zelante. Depongono oggi sulla bara il fiore del più grato ricordo centinaia di giovani giuristi che dalla sua bocca appresero a studiare con coscienza, a vivere il sacro ideale di una patria spiritualmente dominatrice». Che cosa significasse per lui il termine “patria” lo lasciamo alle sue parole che rappresentano anche la sintesi del suo pensiero politico e scientifico: «Qual è dunque la patria che noi vogliamo? È l’Italia degl’Italiani, che alfine prende posto nel mondo delle nazioni, giusta la famosa espressione di Vico. È l’Italia che comprende i nuovi tempi, e non si pasce di vane metafisiche astrazioni; alla più forte unità politica vuol congiunta la più ampia libertà interna; la libertà che è sì cara, e per la quale ben si rifiuta la vita da’ migliori cittadini, quando è ordinata, feconda e indefinitamente svolgentesi per l’azione benefica del progresso. E l’Italia che nelle leggi e nelle instituzioni né rompe ogni gloriosa tradizione del passato per cupidigia di subiti ed effimeri innovamenti, né rinnega l’avvenire per cieca idolatria di epoche oramai spente. È l’Italia della nazione e delle più larghe franchigie municipali, della scienza e dell’arte, dell’agricoltura, della navigazione, del libero commercio, della libera industria. È l’Italia investigatrice di ogni regione del pensiero, che depone le vecchie spoglie de’ pregiudizii religiosi, senza abbandonarsi alle lusinghe di uno sterile e volgare scetticismo. E l’Italia della famiglia, de’ costumi rigenerati, della virtù adorata. È l’Italia della pace operosa e della fratellanza umanitaria, che non aspira più a farsi temere ed esecrare dagli altri popoli ma che porge soccorrevole la mano a quanti vogliono seguirla nella via della civiltà. È l’Italia, senza odii e senza vendette, che è generosa abbastanza per obliare le durate oppressioni, e abbastanza forte per mantenere agli antichi nemici la promessa fatta ne’ giorni dell’infortunio: “Passate l’Alpi e tornerem, fratelli!”. Ecco la patria, come la intende il secolo XIX, ecco l’avvenire che dobbiamo apparecchiare al nostro paese».

Ponsiglioni non fu, dunque, un ideologo ma piuttosto un fedele interprete della temperie del Risorgimento e della società liberale – cui, come abbiamo visto, aveva dato il suo personale contributo – nella quale riponeva la massima fiducia. In lui sono assenti folgoranti intuizioni così come idee nuove circa l’avvenire della Sardegna: lo sviluppo del Paese e dell’isola dovevano necessariamente passare attraverso l’applicazione di quei principi di libertà politica ed economica e di sano spirito nazionale che avevano fatto da base al processo unitario.

Da qui la cieca fede in un sistema che, di lì a poco, avrebbe subito tremendi scossoni a causa dell’acuirsi del problema sociale e dell’irrompere delle masse nella scena del mondo. Ma, questi fenomeni Ponsiglioni non poteva certo prevederli. Per uomini come lui, ciò che contava erano la creazione del Regno d’Italia e l’affermazione della libertà come metodo per reggere la società civile; tutto il resto, dalla crescita economica e culturale alla giustizia sociale, sarebbe venuto a tappe, senza traumi e senza rivoluzioni. Cosicché, Ponsiglioni può essere assunto a modello di una certa categoria di intellettuali dell’Ottocento. Ma, come abbiamo visto, il personaggio merita anche d’essere ricordato per l’elevato impegno profuso negli studi, i non comuni risultati conseguiti in campo professionale ed una vita specchiata, ispirata ai più rigorosi principi morali.

 

 

 

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