Quei tre giorni dopo la morte: l’ultimo mistero di Maometto, intervista di Lorenzo Cremonesi

La studiosa tunisina Hela Ouardi si è dedicata alla fase finale della vita del Profeta, dove nascono le rivalità fra le varie correnti della fede musulmana. «Mi sono attenuta scrupolosamente ai testi, non voglio una fatwa come Rushdie».

Un Profeta sconfitto, battuto di recente sui campi di battaglia, vecchio, malato e isolato tra i suoi fedeli che si fanno la guerra per la successione, in verità profondamente umano nella sua miseria terrena poco prima di esalare l’ultimo respiro. Non è strano che Hela Ouardi ricorra di continuo alle fonti più classiche della tradizione musulmana per puntellare nel modo più solido ed esegeticamente serio questo suo rivoluzionario ritratto-inchiesta su Les derniers jours de Muhammad («Gli ultimi giorni di Maometto»). «Se non l’avessi fatto, se non avessi infarcito continuamente il mio lavoro con le citazioni prese direttamente dai testi fondamentali della letteratura sunnita e sciita, oggi rischierei la vita in Tunisia e nel resto del mondo: verrei additata come blasfema dai nuovi fanatici, preoccupati solo di esaltare e glorificare la figura del fondatore dell’islam. Non vorrei finire vittima di una fatwa come Salman Rushdie a suo tempo. Per ora solo il Senegal ha vietato il mio libro», racconta a «la Lettura» a margine di una sua conferenza all’Università di Lugano, ospite del nuovo centro studi sul Medio Oriente diretto dallo studioso francese Gilles Kepel.

L’occasione è unica. Nata 43 anni fa a Sousse, docente di Letteratura all’Università di Tunisi, Hela Ouardi si muove in genere tra il suo Paese e le università parigine. Al momento è impegnata a scrivere un secondo libro concentrato proprio sui tre giorni che separano la morte di Maometto dalla sua sepoltura.

Gli antichi costumi arabi, per ovvi motivi igienici, imponevano di seppellire il morto entro la sera del decesso. L’islam trasforma la tradizione in precetto. Com’è possibile che proprio nel caso del suo fondatore, il Profeta, l’interramento avvenga addirittura tre giorni dopo?

«Strano, vero? Un fatto profondamente controverso, come del resto controversi e oggetto di infinite dispute sono gli ultimi periodi della sua vita. Possiamo affermare con ragionevole certezza che Maometto sia deceduto a Medina sessantatreenne verso il mezzogiorno dell’8 giugno 632, cioè 11 anni dopo l’Egira. La sepoltura avviene invece la sera tarda del 10 giugno in modo repentino. E una prima spiegazione si ritrova nella letteratura originaria, che riporta le testimonianze dei discepoli e dei familiari. Erano allora convinti che Maometto sarebbe asceso al cielo come Gesù, benché fossero in molti a sminuire la natura divina. Così lasciarono solo il cadavere sul letto di morte, poi si allontanarono per non disturbare l’eventuale intervento divino e la resurrezione. Quando ciò non avvenne, fu uno degli zii a dire alla moglie Aisha che il cadavere aveva iniziato il processo di decomposizione, addirittura rischiava di essere mangiato dai cani. Non ci furono obiezioni: emerse la spiegazione per cui, se Allah avesse voluto, avrebbe fatto risorgere Maometto anche da sottoterra. Intanto però andava sepolto subito per evitare lo scempio del cadavere, lo scandalo e la vergogna. Così lo seppellirono col favore del buio, di nascosto. Probabilmente, interrato sotto la sua stanza. C’è poi un’altra spiegazione».

Quale?

«È molto più politica. Il Profeta lasciò indicazioni molto vaghe sui criteri per la scelta dei suoi successori. Chi avrebbe avuto il compito di guidare i musulmani? Lo scontro era aperto e senza esclusione di colpi. Occorreva tempo per decidere. Ma per coloro che sarebbero poi diventati i padri fondatori degli sciiti non c’erano dubbi: Maometto era stato assassinato, forse avvelenato dalla stessa Aisha, per volere di quelli che sarebbero stati i primi due califfi sunniti, Abu Bakr e Omar Ibn el Khattab. Allo stesso modo, gli sciiti avrebbero accusato i sunniti della morte del nipote di Maometto, Alì, che loro consideravano invece legittimo successore per diritto di sangue».

Un Profeta solo, indifeso, alla mercé delle faide di potere, ben lontano dalla tradizione che lo vuole vincente sino all’ultimo?

«Per molti versi una figura tragica, come Gesù sulla croce, come Napoleone abbandonato a Sant’Elena. Prima della sua glorificazione è un uomo al crepuscolo. Alcuni discepoli ne esaltano addirittura l’infermità mentale pur di strumentalizzarne l’eredità».

Ma come è morto Maometto?

«Forse per una pleurite, negli ultimi giorni di vita è molto debole, quasi infermo a letto, i sintomi della malattia ai polmoni sono spesso menzionati sui testi dei contemporanei. Poi però le tesi del complotto violento si moltiplicano e si arricchiscono di dettagli, soprattutto da parte delle vittime sciite. Dietro tutto ciò si nasconde lo scontro tra il diritto di successione per sangue come nelle dinastie reali europee o per elezione in un’assemblea di notabili, dove trionfa il principio del primus inter pares ».

Allora i capi tribali arabi non erano scelti per diritto di sangue?

«Per nulla. Alla Mecca esisteva già da secoli una sorta di parlamento composto da leader delle tribù più importanti della penisola arabica, che si riunivano periodicamente per eleggere tra loro un capo supremo. E i criteri per vincere erano la ricchezza, la generosità nel donare, per esempio chi organizzava i banchetti più sontuosi per gli ospiti; oltre alla forza fisica dell’individuo, il suo stato di salute personale. E infine l’eloquenza, la capacità di persuasione, che significava intelligenza, padronanza della lingua».

Se è vero che il Maometto vivente è visto dai fedeli del tempo nella sua natura umana, quando viene divinizzato?

« Av v i e n e a p a r t i r e d a l l a d i n a s t i a Omayyade, che crea il proprio impero a Damasco verso la fine del VII secolo dopo Cristo. È allora che Maometto diventa un utilissimo strumento per legittimare il potere politico. Da allora la storia non ha fatto che ripetersi nel mondo arabo in modo più o meno intenso».

Dunque nulla di nuovo nell’esaltazione della sua figura fatta, per esempio, da Al Qaeda e ultimamente dall’Isis?

«Proprio nulla di nuovo. Il Profeta serve per fanatizzare i propri soldati, spiegare e giustificare la morte in battaglia. La novità dell’Isis non sta nei contenuti, quanto piuttosto nell’utilizzo degli strumenti della modernità. Per il resto, tutti i radicalismi islamici nei secoli sono tornati alle fonti della loro fede per glorificare l’età dell’oro dei primi califfati, dimenticando o stravolgendo la realtà storica del Profeta».

Che cosa l’ha spinta a occuparsi di questi temi?

«Una decina d’anni fa avevo deciso di studiare le origini dell’islam per pura cultura personale, dopo essermi occupata per tanti anni della letteratura francese e avendo un’ottima conoscenza dell’arabo classico. Fu allora che venni a contatto con il dramma molto umano, e molto poco noto nei suoi contorni storici, della morte di Maometto. Poi il Medio Oriente e la Tunisia furono sconvolti dalle Primavere arabe seguite dalla crescita del radicalismo religioso. Venni molto colpita dall’assassinio dell’ambasciatore americano a Bengasi, Christopher Stevens, l’11 settembre 2012. Due giorni dopo mi trovavo nella mia auto nel centro di Tunisi, dopo aver fatto lezione in facoltà, quando vidi la folla di salafiti radicalizzati nella nota moschea Fatah lanciarsi verso la sede della vicina ambasciata americana con l’evidente obiettivo di compiere lo stesso crimine. Inneggiavano ad Allah e Maometto, portavano taniche piene di benzina per dare fuoco all’edificio, ne fui terrorizzata. Se la nostra polizia non fosse intervenuta in forze, sarebbe stato un massacro. Fu allora che decisi di scrivere il mio libro».

Da LA LETTURA, 31 DICEMBRE 2017

 

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