La fine dell’umanità, di Adriano Favole
Il progetto di capire e riconoscere l’inità profonda del genere umano non scalda più i cuori. Non solo tornano le ideologie razziste, ma è in crisi proprio l’idea di un destino condiviso. La stessa specificità di esseri dotati di ragione è messa in dubbio dagli studi sulle altre forme di vita, oltre che dagli sviluppi della intelligenza artificiale. Forse solo riscoprendo la centralità delle relazioni si può trovare una via d’uscita.
In un’lntervìsta televisiva rilasciata a metà degli anni Ottanta, Claude Lévi-Strauss definì l’antropologia culturale come una continuazione del progetto umanistico rinascimentale. Se il Rinascimento, argomentava il celebre etnologo francese, si era caratterizzato come un progetto di conoscenza dell’essere umano attraverso la messa in prospettiva della sua epoca con le civiltà greco-romane; se quel progetto era poi proseguito con una riflessione sulle civiltà che l’Europa aveva incontrato nella sua espansione globale (dal Medio Oriente all’India, alla Cina), l’antropologia culturale consisteva in un tentativo di abbracciare l’umanità nella totalità delle sue espressioni, comprese società che appaiono «lontane e miserabili» e che un tempo si definivano «primitive».
Lasciando da parte una questione tutt’altro che marginale, ovvero quanto e come· quel progetto di conoscenza si sia intrecciato con le dinamiche coloniali dell’Occidente, viene da chiedersi, di questi tempi, che ne è di questo viaggio attorno all’essere umano. Ci interessa ancora l’umanità nella complessità e varietà delle sue forme? Oppure viviamo una sorta di «fine dell’umanità», una crisi profonda del progetto umanistico che sfocia, non a caso, nel risorgere di ideologie e prospettive razziste o comunque particolaristiche? Quanto incide la mancanza di curiosità e di strumenti per conoscere le varie umanità nella crescita di quello tsunami di odio verso l’altro a cui assistiamo attoniti ogni giorno?
Il sociologo tedesco Dietmar Kamper scriveva alla fine del secolo scorso che il concetto di «essere umano» è legato «a una pretesa che può venire disattesa, perciò sono necessari particolari sforzi teorici e pratici per mantenere il livello adeguato. ( … ) Tutte le antropologie di un certo rilievo arrivano a una conclusione negativa: l’essere umano non è definibile ed è “bene” che sia così. L’uomo è eccentrico anziché centrato: è artificiale per natura; è per sé stesso e per gli altri una domanda aperta, che non può trovare alcuna risposta conclusiva e definitiva». Kamper ci dice che il concetto di «umanità» richiede una continua manutenzione, una difesa sempre precaria e tuttavia essenziale, senza la quale l’unità del genere umano non è affatto garantita. Il dato biologico da solo non basta a racchiudere l’umanità in un recinto concettuale comune. Alle parole e ai dubbi del sociologo fanno eco quelle registrate dagli antropologi presso numerose società «lontane e miserabili», per dirla ancora con Lévi-Strauss. Come i BaNande del Nord Kivu (Repubblica Democratica del Congo), studiati a partire dagli anni Settanta da Francesco Remotti, i quali, al culmine del rito di iniziazione maschile, intonavano un canto in cui si chiedevano: «O Dio dei nostri antenati, l’Ordinatore (Katonga)/ in una casa, in una famiglia, in un villaggio,/ che cos’è un uomo? Noi chiediamo il vostro ritmo, il ritmo degli iniziati./ Che cos’è un uomo?».
Sono domande cruciali, se guardiamo a ciò che accade attorno a noi. L’unità dell’essere umano è minacciata sotto vari fronti. Tornano improvvisamente a manifestarsi ideologie razziste, è evidente. Ma soprattutto è entrata in crisi in questo inizio di millennio, complice la profonda crisi ambientale e delle risorse, l’idea di un destino comune e coridiviso. Pesa, senza dubbio, la fine dell’ideologia dello sviluppo, di quel sogno di diffusione globale del benessere economico e della democrazia: un’ideologia tutt’altro che priva di accenti imperialistici certo, ma che ha caratterizzato quasi un secolo di storia.
Ne è un chiaro segnale lo sdoganamento politico di atteggiamenti «anti-umanitari»: perché dovremmo aiutare chi attraversa il Mediterraneo o la frontiera degli Stati Uniti con il Messico? Perché accogliere i profughi che sbarcano nel nostro Paese?
La questione «umanitaria» è importante, come negarlo, in un’epoca segnata dai movimenti di massa che l’artista cinese Ai Weiwei ha magistralmente dipinto nel film Human Flow. Davanti alle tragedie dell’immigrazione, ci si divide tra indifferenti e sospettosi ( «perché dobbiamo aiutarli proprio noi?») da una parte e coloro che sono inclini all’accoglienza dall’altra. L’empatia, per fortuna, abita ancora questo mondo. Tuttavia Coltivare l’umanità (titolo di un libro di Martha Nussbaum edito da Carocci) richiede un prelìmìnare interesse verso gli altri che sembra mancare quasi del tutto in quest’epoca di fine dell’umanità. «Inter-esse» nel significato etimologico di «stare tra», di mettersi in prospettiva, tra «noi» e «gli altri». A chi interessano oggi i sistemi di parentela del Sud della Cina, la vivacità delle oltre mille lingue papua della Nuova Guinea, i rituali redìstrìbutìvì polinesiani o le cosmologie delle società amazzoniche? A chi interessano le abitudini alimentari o le relazioni di scherzo di una comunità di migranti in una città italiana? Non mi riferisco tanto agli studi specialistici, bensì al loro impatto sociale. Quanto poco la vìsìone di LévìStrauss è diventata progetto pubblico! E quanto si è indebolito, almeno nella rappresentazione collettiva, l’interesse per le questioni umanistiche in generale.
Certo, le società «miserabili» dell’etnologo francese non corrispondono, né oggi né nel secolo di LévìStrauss, al nostro immaginario di popoli isolati, lontani, fuori dal tempo. Che si tratti di popoli indigeni o di società che vivono nelle cosiddette aree interne dell’Occìdente, di saperi nativi o popolari, di città africane e melanesiane o di villaggi alpini, le trasformazioni subite , sono state continue e, come noi, quei nostri simili abitano le contraddizioni della contemporaneità. Nonostante la globalizzazione e il capitalismo però, gran parte di queste società non sono affatto scomparse, hanno piuttosto dato vita a una loro prospettiva di modernità, in stretta relazione con ciò che capitava nel resto del mondo. Le diversità e le somiglianze che hanno costruito, o preservato, meriterebbero tutt’altra attenzione, non l’odio, l’indifferenza o il semplice sguardo pietistico.
Trent’anni fa, quando ero studente e camminavo per i portici di via Po a Torino, le bancarelle di volumi usati erano piene di libri di viaggio o di cataloghi fotografici sull’Africa, sull’Oceania, sull’America Latina. Oggi trionfa la saga dei Savoia. Un mese fa, in seguito al rapimento di Silvia Romano in Kenya (tuttora è nelle mani dei rapitori), l’opinione pubblica si è divisa tra chi non capiva perché una giovane donna dovesse «fare volontariato» in Africa piuttosto che sotto casa a Milano e chi difendeva quel «sogno di gioventù». Ben pochi si sono chiesti se un’esperienza di vita e di lavoro in una comunità africana non possa essere dettata da interesse e curiosità per quella goccia di umanità, al di là delle intenzioni di aiuto. Convinti, di nuovo, di incarnare nel bene o nel male la forma di umanità che ha trionfato nel mondo, consideriamo le altre culture, al più, come contenitori di indigenti a cuì prestare soccorso.
La «fine dell’umanità» si intravvede in un’altra direzione, che ci porta a considerazioni piuttosto lontane dalle precedenti. Mi riferisco ai confini sempre più problematici dell’umano. Che cosa c’è nel nucleo dell’umanità che la rende radicalmente diversa dalle altre forme di vita? L’intelligenza? La progettualità? La mobilità? La cultura in senso antropologico? Nel suo libro Plant revolution (Giunti), Stefano Mancuso riconosce tutte queste caratteristiche anche al mondo vegetale. La botanica, gli studi sugli animali, persino la giurisprudenza che, in diversi Paesi, sta attribuendo diritti e qualificazioni di «persona» a fiumi, laghi e montagne, evidenziano un cambiamento di paradigma che incrina, in modo forse definitivo, la distinzione tra natura e cultura, tra l’essere umano e gli altri abitanti di Gaia, la Terra. È curioso: nell’epoca in cui la forza delle tecnologie è divenuta così dirompente da indurci a parlare di «Antropocene» (l’era in cui la stessa evoluzione geologica del pianeta è segnata dalle attività umane), è proprio l’antropocentrismo a essere messo in discussione. E, parallelamente, il postumano ridisegna i confini tra l’uomo e la macchina.
Un giorno Maurice Leenhardt, pastore protestante e antropologo in Nuova Caledonia agli inizi del XX secolo, chiese a un gruppo di nativi kanak, che frequentavano la sua missione, di descrivere un essere umano. Uno di loro disegnò un fitto insieme di linee che si proiettavano fuori da un centro vuoto, spiegando che si trattava delle relazioni che ci legano ai parenti paterni, a quelli materni, alle «tribù alleate», agli amici. Cancellando le linee, nel centro non rimaneva nulla. Nell’epoca della fine dell’umanità abbiamo ben poche certezze ( e forse è un bene così) su cosa ci sia al cuore dell’umanità, sappiamo però che coltivare le relazioni e l’interesse per gli altri, umani e non umani, è un buon modo per uscirne. Siamo esseri eccentrici, diceva Helmuth Plessner, tracciamo confini per poterli oltrepassare.
LA LETTURA 6 gennaio 2019-02-03