IL FASCINO DEL MALE, di ALDO GRASSO

Unde malum? Da dove viene il male? E se nella vita il male sembra non avere senso, perché ne acquista uno solo nella narrazione?

Unde malum? «Mia moglie è incinta di sette mesi di una figlia che non avevamo programmato. Mio figlio ha quindici anni e una paralisi cerebrale. Io sono un insegnante di chimica al liceo, troppo qualificato per quel lavoro. Quando posso lavorare, guadagno 43. 700 dollari all’anno. Ho visto tutti i miei colleghi e i miei amici sorpassarmi in ogni modo possibile. E tra otto mesi, sarò morto. E tu ti chiedi perché lo faccio?». Che cosa fa Walter White, il protagonista di Breaking Bad? Fa il male, in attesa della morte, prepara nel suo laboratorio casalingo cristalli di metanfetamina e sbanca il mercato dei tossici di tutto il New Mexico. Morte chiama morte, l’orlo del baratro è l’unico sentiero percorribile.

Tutto il male che vediamo è da capire. Breaking Bad (2008- 2013) è la serie che più di ogni altra ha messo in scena il male, smisurata quanto impenetrata forza. Ci vuole un certo coraggio per seguirla e rifletterci sopra. Walter ha preso una direzione sbagliata e ha scelto, per ragioni diverse, di abbracciare il «lato oscuro». Difficile trovare altrove (in letteratura, al cinema, a teatro) un personaggio tanto vocato alla rovina da non opporsi alla rovina stessa. Succede così che lo spettatore sia catturato dall’antieroismo tragico del protagonista, dall’ambiguità morale dell’universo in cui si muove, dallo sfondo di un mondo al collasso etico ed economico (si potrebbe leggere Breaking Bad con un’altra serie, Mindhunter, 2017-2018, viaggio nei labirinti mentali del male).

Unde malum? Da dove viene il male? E se nella vita il male sembra non avere senso, perché ne acquista uno solo nella narrazione?

Quando sono uscite in America serie come The Wire, I Soprano, Breaking Bad e altre ancora, e in Italia Romanzo criminale, Gomorra, Suburra, in molti si sono chiesti se fosse giusto mettere in scena la violenza, la criminalità, il male. Dobbiamo far finta che non esistano? Dobbiamo produrre solo fiction agiografica per consolarci con un’immagine positiva, gratificante? Dobbiamo chiedere alla tv, al cinema e ad altre forme espressive di esimersi dal raccontare la criminalità, nel timore che ciò dia origine a comportamenti emulativi? Una conoscenza che non tenga conto del male, è una conoscenza in favore del male.

È dalla notte dei tempi che l’apocalisse esercita un fascino irresistibile sull’umanità. J. L. Borges in Finimondi si domandava: «Perché ci attrae la fine delle cose? Perché nessuno canta l’aurora? Perché preferiamo l’Inferno al Paradiso? Perché non ci convince il lieto fine?». Spesso sembra che la brutalità sia la sola retorica della nostra epoca, il solo modo con cui sappiamo esprimerci.

Il primo dovere che una serie deve porsi non è l’argomento trattato ma la scrittura, l’unica in grado di restituire la complessità del reale, di esplorare temi centrali rispetto alla sensibilità condivisa, di costruire un «racconto mondo» capace anche di rappresentare il male. Risposta accettabile? Solo in parte.

Sostenere l’esistenza di una connessione diretta tra l’esposizione ai messaggi dei media e il comportamento dell’individuo è teoricamente ingenuo (la teoria in voga negli anni Venti del secolo scorso, smentita poi da tutti gli studi sugli effetti dei media). Significa trascurare l’aspetto della fruizione, il peso del contesto e delle motivazioni degli individui, riducendo l’analisi a un conteggio della frequenza con cui un certo contenuto viene diffuso. Però ci sono psichiatri ancora convinti che la violenza che si manifesta negli adolescenti arrivi in gran parte da film, internet, videogiochi. Le cose sono molto più complesse: paragonare cinema e tv a un sistema di «totalitarismo dolce» è un’ingenuità; meglio interrogarsi sul suo essere uno strumento di mediazione, un dispositivo di conformismo e di massificazione del gusto.

Il vero problema, come sostiene Emil Cioran, è che «il male possiede il duplice privilegio d’essere fascinatore e contagioso». In tutte le narrazioni mitiche e religiose, il male è posto all’origine del cammino umano. Di questo dobbiamo prendere atto. Esiodo narra come il mondo ebbe origine dal Caos, una voragine immensa e tenebrosa. La Genesi racconta del peccato dei Progenitori, che cedettero per un atto di superbia alla tenzione di mangiare il «frutto proibito», con tutte le :o nseguenze del caso. Ci sono stati transiti nella storia – Auschwitz è uno di questi – dove gli uomini sono giunti a un tale grado di abiezione da apparire inspiegabile: abyssus abyssum invocat.

C’è una pagina memorabile di Giorgio Colli che introduce la nascita della tragedia di Nietzsche. Dice: “La sensazione moderna “questo è soltanto uno spettacolo” è l’inverso dell’emozione della tragedia greca che faceva dire “questa è soltanto la realtà quotidiana”». I vivi devono raccontare i morti come nutrimento della memoria, come rito e come catarsi.” Invece, con l’invasione dei media, qualcosa si è spezzato e quel qualcosa permette al male di presentarsi come spettacolo, come stallo permanente.

Raccontandolo, la narrazione riesce a contenere il male, a esorcizzarlo? Per cercare di comprendere la fascinazione del male, cerco di aiutarmi con due libri appena usciti.

Il primo è del filosofo Salvatore Natoli, “L’animo degli offesi e il contagio del male” (il Saggiatore). È un libretto prezioso sui Promessi sposi: sottraendo il padre nobile della nostra letteratura agli schematismi da antologia scolastica, Natoli ci spiega come il cuore del romanzo sia il male. Non un romanzo consolatorio, ma un romanzo di morte che ha per protagonista il male. Un male che ammala, che fa diventare i buoni cattivi, che si trasforma spesso in vendetta, che si presenta sotto forma di enigma, di intrigo, di ipocrisia. Scrive Natoli: «Certo, il male è pervasivo, ma chi lo compie ne è responsabile e non solo di quello che fa, ma – peggio – delle conseguenze: come dice Manzoni di Renzo, degli offesi che perverte. Renzo, a fronte di un diritto negato, vuol farsi giustizia da sé e la sua, come in tutti, è una reazione spontanea, è frutto di un impulso naturale; ma ogni atteggiamento reattivo replica il misfatto, non lo riscatta: lo spirito di vendetta ne è la mimesi».

Il fascino profondo dei Promessi sposi si dispiega in una vicenda inquietante, dove prevale l’arbitrio, dove il potere è di per sé stesso prevaricatore. A ciò, conclude Natoli, si aggiungano l’indigenza, la fame, la peste, la morte. La Provvidenza, dunque, non è un generatore di storie a lieto fine, ma è solo la ferma fiducia di Manzoni in un piano divino: la vittoria sul male è possibile.

Il secondo libro è un saggio di Oriana Bìnìk, “Quando il crimine è sublime” (Mimesis). Attraverso quattro casi di studio (tra cui il programma Quarto Grado e il turismo nei luoghi del crimine), la Binik ci spiega perché siamo così affascinati dal crimine, perché ci piace travalicare ogni limite, sia pur seduti in poltrona, perché contrastiamo il «sublime addomesticato» della tv rovistando nelle trasmissioni che si fondano sulla ricerca dell’estremo. Scrive Binik: «La fascinazione per il crimine è molto presente nella società contemporanea perché i media sono molto presenti ed esercitano un ruolo centrale nel coniugare la realtà con l’immaginario, riflettendo e moltiplicando all’infinito quel che più ci turba, nel tentativo di tenerlo sotto controllo. Difatti, identificando le strategie ottimali per creare dei “eventi emotivi” in cui elementi di realtà e di fiction mescolano tra loro in un intreccio sempre più fitto e con-fusivo, i media non fanno’ altro che mettere in scena il Reale, la morte, il non senso».

L’aspetto più interessante di Quando il crimine è sublime è che si occupa della programmazione normale della tv. Se Natoli affronta un capolavoro della letteraira, Binik lavora sul quotidiano televisivo, sui palìnsestì e sui canali che si occupano di crimine, sulle nuove forme della «banalità del male» e cerca di risponde ad alcune domande che mi sono posto più volte. Perché la tv si occupa più dei carnefici che delle vittime? Questa «celebrazione» dei carnefici, ovviamente, passa molto di più attraverso la quotidianità televisiva, quella che «finge» di occuparsi della realtà, quella che costruisce continuamente processi mediatici, in contrapposizione a quelli «veri». Perché tutta questa enfasì morbosa nei confronti di chi ha ucciso?

Una risposta semplicistica potrebbe essere questa: si parte sempre dal presupposto che i protagonisti delle storie non siano mai completamente positivi o negativi: per quanto immorali possano apparire, hanno qualcosa di affascinante che attrae e, viceversa, per quanto siano persone rette, covano un lato ambiguo e fuori dalle regole che attende solo di uscire allo scoperto.

Ma la risposta tecnica più convincente ci viene da Nietzsche che ha assunto come atto di nascita della filosofia non lo stupore di fronte alle cose, secondo la classica tesi di Aristotele, ma lo stupore di fronte all’orrore dell’esistenza, al di là del bene e del male. E il suo celebre aforisma – «E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te» – va letto oggi soprattutto in chiave mediatica, come un fascinoso e perverso gioco di specchi.

La LETTURA, 15 aprile 2018

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