Auguri di nuovo compleanno a Gianni Filippini, direttore per destino e vocazione a L’Unione Sarda ma non solo, di Gianfranco Murtas
Io debbo molto a Gianni Filippini, fino a pochi mesi fa direttore editoriale del gruppo L’Unione Sarda, così come debbo molto a Fabio Maria Crivelli, l’indimenticato direttore che il futuro suo successore, allora appena 22enne, accolse ed accompagnò nel proprio apprendistato al giornale in un ormai remoto 1954. Debbo loro la fiducia con cui entrambi accolsero me fuori dai ranghi, e la disponibilità generosa, da veri liberali, a collaborare con me e i miei circoli in occasioni diverse della vita associativa e culturale cagliaritana.
Filippini pubblicò il mio primo editoriale politico, era il 1976 (e il PCI aveva pareggiato alle elezioni parlamentari con la DC, riducendo a poca casa il resto della democrazia “intermedia”, o riformatrice, nella quale mi riconoscevo da sempre); Crivelli gli altri, dopo, restituendomi da par suo un Pascal e Voltaire tutto filtrato non soltanto dalla sua dottrina, ma soprattutto dalla sua personale sensibilità di uomo che andava ormai per consuntivi di vita offrendone, con commossa innocenza, la più intima delle elaborazioni. E con Pascal e Voltaire molto altro, che vorrei un giorno condividere, ordinato, con chi ama Cagliari, la Sardegna, le idealità etico-civili della nostra democrazia repubblicana. Il rapporto con l’uno e con l’altro – che mi aprì all’inizio alle… convivialità di biblioteca con Tito Orrù, Carlino Sole e Lorenzo Del Piano, con Fernando Pilia e Francesco Masala, con Antonio Romagnino e Mario Ciusa Romagna e altri ancora – si sviluppò nel tempo, su binari autonomi, coprendo aree ideali e anche sentimentali, private, d’amicizia.
Ebbi un osservatorio impagabile e registrai – con gli alti e i bassi della storia di ciascuno, e anche quelli delle aziende e delle redazioni – le dinamiche del giornale e della stampa in generale, della stampa sarda presente che zampillava però da esperienze perfino remote, dalla pubblicistica postunitaria perfino e giolittiana, liberaldemocratica. Le relazioni personali, in bianco e in nero, con professionisti stimati come Giorgio Melis e Giorgio Pisano, con Vindice Ribichesu fuori dallo stretto giro di Terrapieno – e mi accorgo che vado elencando personalità che tutte ho cercato, con insistenza, di onorare in questi tempi più recenti – anch’esse mi orientarono sulle cose specialmente della maggior testata giornalistica isolana, in questi ultimi cinquant’anni quasi…
Fu naturale, nelle condizioni date, il passaggio della staffetta, a L’Unione Sarda, da Crivelli a Filippini, alla fine del 1976. La loro vita professionale correva in parallelo da oltre due decenni, giusto dal 1954, in quello stabilimento del viale Regina Elena che l’allora giovane direttore, istriano di nascita e romano (quartiere Trieste) di formazione, ora giunto a consumare la sua prima quiescenza, avrebbe evocato, in un bellissimo articolo del 1983 (uscito nel quarantesimo dei rovinosi bombardamenti su Cagliari), così: «… mi pare di aver trascorso i miei primi due anni cagliaritani come in un piccolo cantiere dentro un cantiere più grande. Al mio arrivo la palazzina sul Terrapieno che oggi ospita “L’Unione Sarda” era appena agli inizi della costruzione. Gli uffici e la tipografia del giornale erano tutti raccolti al pianterreno, di fianco alle fondamenta del nuovo edificio; si lavorava tutti, giornalisti, impiegati, tipografi in due immensi androni, ex magazzini, dove una diecina di tavoli si allineavano fra le cataste delle bobine che facevano anche da tramezzi fra un reparto e l’altro. Le ventiquattro ore della giornata erano equamente ripartite fra chi fabbricava il giornale e chi costruiva la sede: di giorno lavoravano i muratori, gli idraulici, i tecnici che preparavano la piattaforma per la nuova rotativa in arrivo; di sera e di notte i giornalisti che facevano il giornale e lo stampavano su una ansimante rotativa datata 1912.
«In quel magazzino che solo le cataste cartacee separavano dal freddo dell’inverno e dalla calura della estate, “L’Unione” nasceva ogni notte nell’affannoso ritmo dettato dalle mille difficoltà della situazione: le scarse apparecchiature di comunicazione, l’insufficiente numero di linotypes, i frequenti guasti dell’antiquata macchina stampatrice, erano gli ostacoli che si frapponevano alla nostra baldanzosa volontà di rinnovare e migliorare di continuo la vecchia testata. Aspettando con ansia i nuovi mezzi superavamo la emergenza con un entusiasmo che cementava ogni rapporto con i vincoli dell’amicizia fraterna.
«Ci sembrava, tutto sommato, che i muratori di giorno e noi nel nostro lavoro notturno fossimo impegnati in una comune impresa: quella di fabbricare un nuovo giornale in cui si riversava e si rifletteva l’ansia di rinascita di un’intera città…».
Era stato chiamato dai Sorcinelli allora, il direttore Crivelli appena 33enne, strappato dalle funzioni di redattore capo del romano Giornale d’Italia che aveva anche, nella sua ampia foliazione, una pagina tutta sarda, così com’era stato prima del fascismo e addirittura della grande guerra, fin dal 1912. Almeno sotto questo profilo la Sardegna non fu una novità assoluta per il neodirettore continentale, che subito trovò, oltreché in generale fra i colleghi, soprattutto in Antonio Ballero e Francesco Alziator i suoi Virgilio locali, le sue guide d’esplorazione della sua nuova realtà sociale e ambientale di lavoro e di vita. Né a tanto poterono restare estranee le annate del giornale da compulsare con interesse e santa curiosità, perché nessuno che abbia tanta propensione a costruire il futuro – come fu per quei giovani che s’affermarono professionalmente nel secondo dopoguerra e lungo ancora gli anni ’50 – potrebbe mai illudersi di poter prescindere dalla storia pregressa. E nelle annate del giornale da cui alcuni dei colleghi presenti già affacciavano chissà da quando – si pensi a Franco Porru e Antonio Ballero, o Mario Pintor il corsivista – erano la città e l’Isola intera, con le loro realtà resistenti e le loro memorie. Anche nel giornale e del giornale erano alcune delle memorie più care e rispettate: fra esse, ancora calde, quelle di Tarquinio Sini e Luigi Filippini, scomparsi entrambi nel fatidico 1943. Il giornale avrebbe ricostruito le tele generazionali proprio sotto la direzione pensosa e dinamica di Fabio Maria Crivelli.
Gianni Filippini, dunque. Stampacino studente di giurisprudenza con progetti di carriera in magistratura e comprensibili urgenze… di autonomia, egli aveva presentato domanda di collaborazione o assunzione in diverse “ditte”: dalla prefettura al comune e alla provincia, a, appunto, L’Unione Sarda, a Radio Sardegna anche. Dava più probabili, forse, risposte positive dalle amministrazioni che non dal giornale dove pure avrebbe potuto riannodare, con sentimento tanto umile quanto eroico, il filo spezzato che rimandava a suo padre, del quale era rimasto orfano ad appena undici anni.
Fu lesta la chiamata del giornale, e precedette le altre. E fu come un nuovo battesimo, questo civile e da adulto, per la vita professionale o anzi per la vita, tout court per la vita.
Se sfogli le annate del giornale di quel decennio che fu costruttivo del cosiddetto “miracolo” italiano, le sue firme le trovi prima su L’Informatore del lunedì – … palestra doppiamente sportiva per il giovane cronista – che su L’Unione Sarda. Con l’intenzione di fargliene, un giorno, dono, ho raccolto i primi cento articoli firmati o siglati da lui, nelle due testate. In questa gradevole ricerca ho trovato anche il precoce affidamento al cronista in rapida maturazione di servizi importanti, taluno a tutta a pagina, e lo svolgimento di inchieste assolutamente impegnative, anche per l’oggetto che si situava assai lontano dal mondo praticato, quello cittadino. Mi riferisco in particolare al banditismo barbaricino o alle potenzialità turistiche del nord Sardegna.
Inquadrato come redattore mi pare già dal 1955, la formalizzazione della sua iscrizione all’albo sarebbe venuta, lenta nel tempo, soltanto nel 1960. L’albo professionale era allora quello romano; con quello sardo si sarebbe partiti mi pare nel 1964, al congresso di Cagliari, avendo Aldo Cesaraccio presidente e uomini de L’Unione Sarda, come Franco Porru e Vittorino Fiori o Mario Mossa Pirisino, nel direttivo (Porru fu allora anche presidente dell’Ordine, il primo della serie).
Di recente ho ricordato la figura umana e professionale di un giovane collega, allora ancora precario, passato a riconoscimenti più tardi e quasi in contemporanea con l’incidente che disgraziatamente gli tolse la vita, dico di Vladimiro Marchioni. In quel tempo la concorrenza, per L’Unione, era data da Il Quotidiano Sardo (a direzione Lepori, redazione in via San Lucifero) in città, da Il Corriere dell’Isola (organo democristiano dell’ETFAS) oltreché da La Nuova Sardegna felicemente rilanciata, a Sassari, come storica Frumentaria. La Gazzetta Sarda, ancora a Sassari, cercava di contenere l’appeal de L’Informatore del lunedì sugli sportivi turritani nel vuoto settimanale del quotidiano di Satta Branca e Cesaraccio. Qualche periodico di vita più o meno breve e di radice ora ecclesiale ora sportiva o di categoria produttiva, faceva da contorno nell’edicola locale.
Da provinciale L’Unione Sarda affidata a Crivelli voleva diventare rapidamente regionale, conquistare un avamposto a Sassari (e Manlio Brigaglia, brillantissimo dal primo giorno, sarebbe entrato presto nella partita), tendenzialmente equilibrare il peso de La Nuova nel Nuorese: cosa piuttosto facile, forse, in Ogliastra o nel Sarcidano, nel Mandrolisai, perfino nel Marghine o in Planargia – tutte terre cuscinetto –, più complicato in Barbagia e Baronia. D’altra parte si sa, il Nuorese era stato a lungo, prima della dittatura, circondario della provincia di Sassari, e al liceo Azuni e poi all’università di Sassari s’erano formati i migliori del territorio, di Seuna o Santu Predu, di Bitti e Siniscola, fattisi avvocati e medici e pubblici funzionari…
A Terrapieno una decina appena i redattori, forse qualcuno di più, suscettivi anche di una certa mobilità per incarichi di ufficio-stampa che andavano allora in progress ad affacciarsi, magari alla presidenza della Giunta regionale (vedi Mossa), e anche fuori, al Quirinale – si pensi a Filippo Canu, repubblicanissimo amico di Clelia Garibaldi arrivato a Cagliari dopo le collaborazione alla Terza de La Nuova – o alla RAI (Peppino Fiori)… Si ricordino i nomi del patriarca Antonio Ballero, di Mario Pintor alla segreteria di redazione in compartecipazione di scrivania con la Camera di Commercio. Naturalmente i fratelli Fiori, i due Antonio – Cardia (l’uomo delle recensioni teatrali) e Castangia (pencolante fra Cagliari e Sassari) –, Angelo De Murtas, Tatano Ponti, Franco Brozzu allo sport (inizialmente in partnership con Mossa Pirisino, e anche con Joseph Vargiu, Angelo Carrus, e altre collaborazioni fisse come quelle, bellissime, di Ubaldo Nieddu e quelle… nascoste, dense e spumeggianti, di Peppino Fiori che si firmava Beppe Vercellotti), Alberto Aime…
Si presentavano allora i giovani, da Tarquinio Sini a Giorgio Melis, e Clavuot dopo, che la firma intanto la conquistavano, prima che nella bianca o nelle inchieste, nelle cronache sportive de L’Informatore… Salvatore Cambosu e Nicola Valle, Francesco Masala e Mario Ciusa Romagna, Attilio Maccioni e quant’altri firmavano le loro collaborazioni alla terza pagina, insieme con Francesco Alziator e Marcello Serra chiamati a dar gusto di lettura ai più fedeli e prestigio alla testata che, giorno dopo giorno, cercava, non soltanto nell’aumento della foliazione ma anche nel miglior riparto del notiziario, di offrire un menabò graficamente più allettante e uno spazio più adeguato alle province e alla cultura come allo sport (e anche alle lettere dei lettori)… Nell’ufficio di corrispondenza romano declinava, dopo la sua riconversione democratica, la figura di Vitale Cao di San Marco, che del giornale era stato redattore capo (di fatto direttore, essendone formale responsabile Rafaele Contu) per lunghi anni – dal 1930 al 1939, quelli del consenso al regime di dittatura da lui vissuti anche come segretario generale della Camera di Commercio (anzi del Consiglio Provinciale dell’Economia Nazionale) e poi ispettore generale del Ministero dell’Industria.
Genero di don Vitale era Sergio Valacca, che aveva tenuto la direzione formale de L’Informatore del lunedì, per cinque anni, dopo la morte prematura di Nando Sorcinelli, che a sua volta, editore-direttore, aveva raccolto il testimone da Giuseppe Susini, il funzionario del Banco di Napoli prestato a L’Unione Sarda nel 1946 per mille giorni. A Valacca, che dirigeva/non dirigeva il settimanale (egli stava a Roma), subentrò allora l’ozierese Franco Porru che de L’Unione Sarda, nella cui redazione era entrato addirittura nel 1933 ed era tornato dopo la guerra combattuta da ufficiale di artiglieria e dopo la prigionia, costituiva l’autorevole ed impagabile uomo-macchina e vice direttore.
Se ne andò poi anche lui, Franco Porru, all’inizio del 1973. Ed a coprirne immediatamente il vuoto lasciato fra tanto sincero dolore di tutti venne chiamato, con funzioni di reggenza, Gianni Filippini (e dopo un mese circa Vittorino Fiori). Nello stesso contesto temporale, su proposta del direttore Crivelli, Filippini – caporedattore dal 1969 – fu incaricato anche della vicedirezione del quotidiano.
Ecco, caporedattore. Non glielo ho mai chiesto nei nostri innumerevoli conversari, ma forse a quel giovane redattore che da dieci e più anni ormai aveva marciato regolare e sempre rispettoso e anzi cordiale, naturaliter signore, producendo centinaia di articoli, molti dei quali davvero importanti e, come detto, sviluppati in più puntate, i galloni glieli offrirono, o se li conquistò, già nel 1966, quando venne inviato a tenere una conferenza al Gremio dei sardi a Roma, al tempo presieduto dall’on. Salvatore Mannironi. Si trattava di intrattenere i suoi corregionali di stanza ormai nel continente sulla storia de L’Unione Sarda “nel quadro del giornalismo isolano”.
Quella certa conferenza al Gremio dei sardi a Roma
Ne era stato delegato dall’amministratore delegato Roberto Sorcinelli ed aveva parlato alla presenza anche degli stati maggiori delle istituzioni isolane riunitesi apposta nella capitale. Il racconto fu piano e istruttivo: «Dalle duemila copie tirate con una macchina piana Duplex acquistata da un giornale di Como e da una cerchia ristrettissima di lettori che a quel tempo rappresentava l’élite della provincia, si è passati via via ad una sempre maggiore tiratura fino ad arrivare alle 50mila copie dell’attuale periodo», così esordì. Piacque la contestualizzazione delle vicende della testata, nata coccortiana ed antibacareddiana, nell’ultimo decennio dell’Ottocento e nel primo del Novecento, la rimodulazione della linea editoriale – con Raffa Garzia direttore (al posto di Marcello Vinelli) – all’indomani dei moti del 1906, quando alla galassia notabilare liberale convenne conglobarsi, se e come possibile, per la maggior tema del socialismo o di certo radicalismo affacciatosi populista, con Umberto Cao e Ciro Guidi, sulla scena cittadina… E’ storia che si conosce e non si conosce, questa del giornale, che si capisce soltanto se la riunisci alle dinamiche politiche e civili del suo tempo variabile.
Seguirono altre svolte e altri assestamenti, lo spostamento tipografico e poi anche redazionale da palazzo Marini a Terrapieno, l’innovativa direzione di Ascanio Forti il più laico dei grandi giornalisti piovuti nell’Isola, lui dal carducciano Il Resto del Carlino, l’incrocio di destini nel dopoguerra con Ferruccio Sorcinelli, teso quest’ultimo a liberarsi dai pesi dell’icona in cui era stato calato – pescecane di guerra, per i colossali arricchimenti connessi alla vendita di combustibile alla industria bellica – e in tattico-strategico riposizionamento da radicale a fascista, e fascista della prima ora, fascista duro e puro. Nato banchiere (i suoi sportelli della SBS furono il nucleo sardo del Credito Italiano) e impostosi industriale minerario nell’Iglesiente, si mostrò editore politico di muso, combattente contro le ipotesi, fattesi poi vincente realtà, del sardo-fascismo. Morì ancora giovane nel 1925, dopo aver assistito al successo pieno dei suoi avversari – i sardisti entrati nel PNF e padroni ormai della deputazione parlamentare, delle amministrazioni locali, della Camera di Commercio… e della stampa. L’Unione aveva subito anche l’onta, fra il gennaio e l’aprile 1924, della sospensione delle pubblicazioni, per quei biglietti inneggianti a Lenin e ai bolscevichi che qualcuno, forse quello stesso che ce li aveva messi, aveva fatto trovare in tipografia alla polizia… Era uscito allora Il Popolo di Sardegna, che poi era L’Unione Sarda con un altro nome, ma forse più grave ancora – non più per Sorcinelli però, ma per la sua memoria – sarebbe stata nel 1926 la cessione del comando redazionale ai fasciomori. Quando appunto il quotidiano, con la doppia testata che richiamava anche il trascorso organo dei sardo-fascisti di Paolo Pili (Il Giornale di Sardegna finanziato dalle grandi compagnie industriali e bancarie già consegnatesi alla dittatura in formazione) si autopresentò ai suoi lettori e all’universo mondo come organo ufficiale della Federazione cagliaritana (o cagliaritano-oristanese) del Partito Nazionale Fascista…
Vent’anni così, con un giornale grigio politicamente, forse assurdo politicamente, ma non privo certamente di collaborazioni di qualità, di pagine di cultura e di ripassi storici, di cronache d’arte e teatrali ecc. di ottima scrittura e di riconoscibile diffuso interesse.
Questa visione della storia del giornale dagli anni ’20 a quelli del secondo conflitto mondiale è mia, e come tale mi sento di presentarla. Nella sintesi offerta poi ai lettori del giornale, la relazione di Gianni Filippini pareva in verità aver assorbito – forse anche per comprensibili ragioni aziendali (i Sorcinelli nel 1966 erano ancora i proprietari della testata) – le criticità obiettive del periodo: «Il giornale che aveva all’inizio una veste tipografica e soprattutto un contenuto provinciale, ricevette un decisivo impulso nel 1923 quando la proprietà passò alla Società Tipografica Sarda, capeggiata dall’avv. Ferruccio Sorcinelli al quale va il merito di aver fatto un giornale sardo per tutti i sardi. L’Unione allora superò la barriera della provincia e si diffuse in tutta l’Isola battendosi sempre per un miglioramento delle condizioni del popolo sardo e trattando tutti quei problemi che angustiavano la vita dei sardi. Anche nel periodo fascista il giornale ha svolto la sua opera senza fiancheggiare il regime ma facendo solo gli interessi della Sardegna per quanto gli fu possibile».
Venne dunque la guerra, venne la caduta della dittatura, venne l’affidamento del giornale, alla ripresa delle pubblicazioni, dopo la sospensione (da maggio a novembre 1943) causa bombardamenti, e per circa mille giorni, ai partiti della Concentrazione antifascista… E all’indomani dell’esito referendario favorevole alla repubblica ed all’indomani anche dell’elezione della Assemblea costituente, la restituzione della libera amministrazione aziendale alla legittima proprietà, la famiglia Sorcinelli cioè. Venne quella sequenza dei direttori, dopo Susini il bancario e critico letterario e poeta, Giulio Spetia il conte umbro, Fabio Maria Crivelli infine, che rappresentò allora il futuro e rappresentava nel 1966 il pieno presente. Un intellettuale garbato e autorevole, in giusto riscontro alla sua mole fisica, commediografo concentrato e insieme brillante, un passato di prigionia in dodici campi ora polacchi ora tedeschi per non aver voluto aderire, lui allora giovane di 22 anni, alla Repubblica Sociale Italiana… un liberale vero, con radici cristiane nella sua formazione, con una visione tutta laica degli ordinamenti… L’Unione Sarda fu molto il suo specchio, negli anni fra ’50 e ’60 (e successivi), e Gianni Filippini relatore a Roma poteva esserne anche testimone diretto. Polemico con le impuntature clericali di monsignor Botto e con le mediocrità delle giunte regionali “sdraiate a destra” (quelle presiedute dal prof. Brotzu), cauto con il centro sinistra sardo, all’inizio preoccupato (ingiustamente secondo me, molto ingiustamente!) per l’associazione dei socialisti al patto di governo con i Fanfani ed i Moro, i Saragat, Reale, Ugo La Malfa… Più sereno dopo la metabolizzazione della nazionalizzazione della energia elettrica e la nascita dell’ENEL, il passaggio all’ENEL delle onerose miniere di carbone del Sulcis… Certamente dalla parte della Regione – non però senza capacità di rilevarne le insufficienze e le contraddizioni fra tanta clientelare, asfittica democristianeria – nella dialettica con lo Stato dei ministeri, negli anni dei piani attuativi della Rinascita. Una storia in divenire, allora, in quel 1966, quando l’attualità più bruciante forse era quella del banditismo che allora aveva accelerato, avvitandosi sul fenomeno Mesina, fra sequestri ed assassini, evasioni e latitanze, sfida allo Stato e lutti.
«Ma il periodo più florido, anche perché mutate erano le condizioni di vita ha avuto inizio indubbiamente nel 1954 quando a dirigere il giornale è stato chiamato Fabio Maria Crivelli coadiuvato da una équipe di redattori e collaboratori tutti qualificatissimi sul piano professionale e culturale – aveva detto l’oratore, volgendo al termine della sua relazione –. L’Unione di oggi raffrontata con quella anteguerra, ha cambiato letteralmente volto: ha innanzi tutto acquistato una veste tipografica nuova, modernissima e, per quanto concerne l’informazione, ha abbandonato quella piattaforma provinciale sulla quale aveva agito ed operato prima, portandosi su un piano decisamente nazionale, pur agitando, con rinnovato impulso, i problemi dei sardi e della Sardegna, senza interferenze di sorta, nella più assoluta indipendenza ed obiettività. Quello della indipendenza da questo o quel gruppo politico rappresenta un fatto di capitale importanza e sta a dimostrare, senza tema di smentite, la forza e la continuità de L’Unione. Informazione completa sia dall’interno che dall’estero, servizi sobri, dal contenuto essenziale, contraddistingue il nostro giornale che nella graduatoria dei 68 fogli nazionali viene oggi classificato per importanza e tiratura al 16° posto, cioè subito dopo i grandi quotidiani nazionali…». Le prospettive: «Nel prossimo anno una nuova e modernissima rotativa verrà a potenziare ancor più l’opera del giornale… Una marcia incessante dunque e una battaglia per tutti i sardi e per la Sardegna…».
Ancora un anno e, si sa, Rovelli – l’uomo forte, con Moratti, della industrializzazione “sporca” della Sardegna – avrebbe acquistato la proprietà de La Nuova Sardegna; ancora tre anni e la “zampata” avrebbe stretto anche L’Unione Sarda, ponendo alla democrazia isolana nuovi problemi circa il monopolio informativo.
Fu, a vederla ex post, una gestione onesta e… difensivista della propria libertà professionale, naturalmente con tutti i limiti della nostra natura, quella espressa ancora nei primi anni ’70 dalla direzione Crivelli, con Gianni Filippini coinvolto ormai pienamente nel vertice redazionale. Così fino al 1976. Dalla crisi del centro-sinistra registrata alle politiche del 1968, alle incertezze dei nuovi equilibri politici registrati dallo sfaldamento doroteo e dagli spostamenti a sinistra di Moro, alle sperimentazioni dei governi Colombo e Rumor e Andreotti (con i liberali nel 1972-73), agli approdi del governo Moro-La Malfa fino al “colpo di testa” irresponsabile e boomerang dei socialisti di De Martino nel 1976… Nel mezzo, le nuove guerre del Medio Oriente e la crisi petrolifera, la crisi monetaria mondiale, in Italia le nuove normative sui diritti dei lavoratori, i faticosi percorsi dei prossimi onerosissimi provvedimenti detti di “ristrutturazione e riconversione industriale”, la rivolta plebea della Calabria, l’avvio della spirale stragista e di quella terroristica, dei soldati neri e rossi, le leggi di controllo accolte esse (!) da molti come eversive dello Stato democratico, i passaggi parlamentari e poi referendari, la contesa sul divorzio… In Sardegna la sequenza delle giunte, dopo le contestative di Dettori e Del Rio, a presidenza Giagu, di marca consociativa e di clientelare all spending…
In un nervoso dicembre 1976, Salvadori del Prato – la voce udibile della proprietà nascosta – vendicò gli interessi aziendali della Rumianca (gruppo SIR-Rovelli) ch’egli aveva ritenuto allora lesi dall’esercizio materiale del diritto di cronaca de L’Unione (circa l’inchiesta giudiziaria sui presunti abusi edilizi negli stabilimenti industriali di Assemini). Li vendicò scaricando la responsabilità del vulnus – che per il vero era una gloria! – sul direttore. L’uscente sacrificato, abile negoziatore, ottenne fosse il suo vice a raccogliere “in pace” la patente di comando…
Ceduta dunque la direzione del giornale a Filippini, per nove anni e qualcosa la linea editoriale del quotidiano restò ancorata ad una certa visione ancora critica e insieme confidente verso i poteri costituiti. Così alla Regione, dove iniziava allora – in parallelo agli indirizzi nazionali della solidarietà nazionale (in costanza dei picchi terroristici) – la politica dell’unità autonomistica, e dopo le elezioni del 1979 si sperimentavano i primi esecutivi di sinistra (a presidenza Rais) e si registravano quindi i successi del sardismo o del neosardismo alla conta delle urne (amministrati con prudenza e misura dalle giunte Melis). Così nel capoluogo, dove l’instabile durevole centro-sinistra democristiano/socialista variamente si articolava a seconda che il tricolore fasciasse un sindaco rosso come Salvatore Ferrara od uno bianco come Mario De Sotgiu, Bachisio Scarpa, Michele Di Martino o Paolo De Magistris… Così ancora e di più, si potrebbe dire, circa la scena nazionale che dalle alleanze di larga maggioranza passava alle nuove provocazioni dottrinarie comuniste (con la minaccia dell’occupazione della FIAT, cui si sarebbe risposto con la famosa marcia “dei quarantamila”), all’inquietante vicenda dei mille tesserati dalla P2 di Licio Gelli, alla limpida presidenza Spadolini, ai conflitti di puro potere fra De Mita e Craxi… Ma intanto era crollata la SIR di Nino Rovelli che aveva pupillato il Cagliari dello scudetto e il Brill del basket, proprietaria ultima, attraverso una e forse due fiduciarie, de L’Unione Sarda così come, piuttosto spudoratamente s’è accennato, de La Nuova Sardegna. Tempi di riassetti importanti in campo editoriale, con l’intervento complesso e complicato di Carlo Caracciolo e del gruppo L’Espresso per il giornale di Sassari (con quanti contraccolpi anche in Consiglio regionale! con un ex-presidente messo sotto accusa per pura vendetta politica), e quello successivo di pochi anni – del 1985 – di Nicola Grauso appunto sul pacchetto azionario de L’Unione.
Una stagione storica grave e, per tanti aspetti, greve, impegnativa di responsabilità non tutte raccolte, dai protagonisti dell’azione pubblica, con il senso pieno dell’onore istituzionale e dell’interesse generale. Non poteva bastare allora la presidenza Pertini a rovesciare un declino che in vari modi già si annunciava (mentre uno dopo l’altro uscivano di scena – taluno anche dalla scena della vita – i grandi “padri” repubblicani dopo il sacrificio di Aldo Moro: da Ugo La Malfa a Pietro Nenni, da Giorgio Amendola e Ferruccio Parri a Giuseppe Saragat… Nel novero anche Enrico Berlinguer. E in Sardegna si perdevano uomini che avevano marcato di dignità la loro esperienza pubblica: da Titino Melis ad Anselmo Contu, a Luigi Oggiano, a Bellieni anche…
Tornò Fabio Maria Crivelli a dirigere il giornale di Terrapieno per due anni circa, fra il 1986 ed il 1988, proprio quando L’Unione ormai a proprietà Grauso aveva avviato la sua radicale trasformazione telematica (e informatica). A Filippini furono allora assegnati incarichi manageriali, prolungati nel tempo e confermati anche dall’editore subentrato a Grauso (tre lustri dopo); egli li combinò utilmente, allora, per cinque anni, con la direzione delle relazioni esterne del Credito Industriale Sardo e con un gradito impegno televisivo, protrattosi per oltre 16 anni (e per qualcosa come ottocento puntate) sui canali di Videolina, nella proposta settimanale di libri di vario genere in uscita dai laboratori tipografici dell’Isola.
Poi la direzione editoriale del gruppo, una gran quantità di iniziative e fra esse il lancio della Biblioteca dell’identità L’Unione Sarda, la ripubblicazione di classici sardi e di lavori inediti, i cd e i dvd anche nell’offerta al pubblico. Un successo. Con tirchierie e miopie anche, e inevitabili, del gruppo e del giornale, non certo addebitabili a Filippini, tirchierie e miopie che forse limitarono le ricadute benefiche delle produzioni. Nel frattempo, anch’essa credo non riportabile a decisioni del direttore editoriale, una linea politica assunta dal giornale che avrebbe fatto arrossire (non di felicità) Francesco Cocco Ortu sr., il fondatore, come Francesco Cocco Ortu jr. – il referente illuminato degli anni ’50 e ’60 del giornale –, così come i vari Jago Siotto e Giuseppe Musio o il Cesare Pintus della stagione del riscatto democratico, dopo tanta personale cattività nelle celle fasciste e l’esclusione dall’esercizio professionale. Dai Cocco Ortu e Pintus, dal Crivelli già galeotto nei lager burgundi il giornale era passato, dopo un confuso tourbillon di direttori (come nel Cagliari di Cellino!) a uomini di direzione che, almeno a me, parevano corifei del nulla valoriale di Forza Italia e sodali “riciclati” nella sua sgraziata stagione di potere, voce inconsapevole forse di quelli che insultavano il tricolore nazionale e l’inno di Mameli, ed erano stati iniziati in politica da uomini che nelle restrizioni erano finiti non con le stesse imputazioni di Cesare Pintus.
Pagine di arretramento ideale del giornale di cui – è sempre una opinione strettamente personale quella che espongo da liberaldemocratico e repubblicano, con Mazzini e l’azionismo antifascista nel cuore – io salvo certamente il direttore Filippini, accompagnato con ogni simpatia e spirito di colleganza anche negli anni della esperienza amministrativa, fortunatamente da lui vissuta con robusto spirito di indipendente civico, e incontrato sempre con empito di cordialità agli Amici del libro, negli studi televisivi e in mille altri luoghi ed occasioni di partecipazione.
Oggi Gianni Filippini compie 87 anni, uomo della classe 1932; e ne compie 65 di giornalismo, contandoli da quel giorno in cui mise piede nello stabilimento di Terrapieno, poco dopo che il piede ce lo aveva messo quell’indimenticato direttore venuto dal continente, giovane anche lui, assai più fratello maggiore che padre, pur se allora gli scarti delle età pesavano più di oggi.
Sono cinquanta, tu moltiplica per dieci, anzi per cento (forse per mille)
Nelle collezioni riprodotte del giornale e riunite nel mio Archivio generale il suo nome in calce ad un articolo appare per la prima volta – ma chissà se ci azzecco davvero – su L’Informatore del lunedì del 12 luglio 1954. “Esordio della stagione balneare” fu il titolo. Beppe Vercellotti – alias Peppino Fiori, ho detto – firmò o siglò gli altri due: “Un film sul Poetto” e “Secondo tempo del film sul Poetto”. Quel «Il vecchio cronista può registrare tante cose. Ma noi?», che rimanda all’età giovane di chi scrive, e un riferimento a Il Lunedì dell’Unione – il settimo numero del giornale nel quale, negli anni ’30, ebbe parte di rilievo il segretario di amministrazione (dal 1929) e brillante pubblicista di vocazione sportiva Luigi Filippini («La rotonda? Si: ma è cronaca di ieri. Del cronista di allora – è il 18 agosto dell’anno 1930: ed esce il Lunedì dell’Unione in carta azzurrina – resta un autoritratto di poche righe…») – anche questo riporta al giovane Filippini. Il quale in due successivi articoli del 15 novembre e del 5 dicembre, ed ancora l’anno successivo, si firmò proprio così: F.jr., una volta per dire di “Valerio Pisano pittore e incisore”, un’altra dei “Nove anni di ricerca nella mostra di Fantini [agli Amici del Libro]”, e un’altra ancora per dar conto di “Carlo Argiolas, maestro di se stesso” (30 gennaio 1955), così i titoli.
Siglato “G.F.” uscì anche, sempre su L’Informatore di quelle settimane, nella pagina della cronaca cittadina, “L’università di Cagliari non fa eccezione alla regola: la crisi degli studi superiori” (11 ottobre) mentre a tutta firma, nelle pagine sportive, “Pareggio all’Amsicora per un gol inventato disana pianta dall’arbitro [CRAL Marina-CUS Cagliari]” (15 novembre), “Primi orientamenti dopo sei giornate: promozione regionale” (il 29 novembre), “Occorre incrementare il calcio in Sardegna: sui campi minori” (6 dicembre), “il Bosa travolto dal CUS” (20 dicembre)…
Ripercorrere il corso professionale di Gianni Filippini sarebbe, è, impresa complicata. E però, anche soltanto per accenni, per… piluccamenti, qualcosa si potrebbe accennare, con tanti prima e tanti dopo (ma qui al risparmio), per il gusto di far festa con lui.
Vado al 1958: in prima pagina su L’Unione, egli firma la cronaca della visita di Gronchi nell’Isola: “Conclusa la visita in Sardegna del Presidente della Repubblica” (4 febbraio). Da inviato speciale alla Corte d’Assise di Nuoro per la strage di San Cosimo: “Tratto in arresto in aula un teste accusato di falso”, “Martedì il P.G. conclude la prima fase del processo” (23 marzo, 6 aprile).
Vado al 1962: in 7 puntate su L’Informatore: “La storia del Banditismo in Sardegna tracciata da un maresciallo dei carabinieri” e così in sequenza: “Scritta col sangue delle vittime la legge degli inesorabili assassini”, “Il massacro di monte Maore: come belve i banditi fecero strage dei carabinieri”, “Una settimana di sangue ad Orgosolo dopo l’arresto di Liandru e Liandreddu”, “Operazione Supramonte: i carabinieri all’assalto della roccaforte insanguinata”, “Pietro Tandeddu: l’amore per una ragazza fa crollare all’improvviso un tragico mito”, “Mani tese sul Crocefisso: basta con la morte ma i mitra sparsero altro sangue a Orgosolo”, “Dalla giornata della pace alla morte di Pasquale Tandeddu due anni di terrore e di morte nelle campagne del Nuorese” (22 e 29 ottobre, 5, 12, 19, 26 novembre, 3 dicembre).
Vado al 1964 in prima su L’Unione rispettivamente come editoriale e come corsivo (“Motivi del giorno”): “Banditi e turismo”, “Sarà ma non ci credo” circa le dietrologie del pubblico davanti ai casi di cronaca, (26 agosto, 16 settembre).
Vado al 1965: “Alle nove della sera”, ampio corsivo settimanale su L’Unione impaginato con le notizie di varietà e programmi di Teleradio nell’inserto domenicale che comprende anche le pagine sportive puntate sul Cagliari in A: “Alla Tv gli anni non contano, “Sbadigli e vecchie pellicole”, “I nuovi servizi del Telegiornale”, “Almanacco ha pagine interessanti”, “Il video ha bocciato Marchesi”, “Sportivi scontenti del video”, “Di Sordi soltanto la voce” e così altri cento o duecento… a partire dal 24 gennaio.
Vado al 1967: “La Maddalena esalta con il silenzio le sue bellezze”, “La vita esplode piccante e parigina nel sereno Eden delle vacanze: al Club Mediterranée di Caprera il turismo ha il significato della libertà”: “Dietro l’angolo di Costa Smeralda mettono in vendita il ‘paradiso’” [Baja Sardinia], “Fu pagata ventimila lire l’isola che oggi può valere molti miliardi” [L’Asinara], speciali a tutta pagina de L’Unione sui beni costieri della Sardegna (16, 17 e 23 luglio, 3 settembre). E ancora, su L’Informatore: “Vuol andare a vivere in carcere l’ultimo giovanotto di Stintino” (4 settembre).
Vado al 1968: all’insegna di “Il voto dei giovani: un tema-chiave di queste elezioni” sei editoriali che seguono, su L’Unione, con i titoli “50mila sardi per la prima volta vanno alle urne”, “Fermenti benefici”, “Il ‘malessere’ nasce a scuola”, “La protesta negli atenei”, “Guardando al domani” (25 e 27 aprile, 1°, 5, 10 e 15 maggio), con extra su L’Informatore del lunedì “Importanza di un voto: i sardi alle urne” (13 maggio).
A tutta pagina, il 6 giugno 1968, “Un volto nuovo per l’America: ancora una mano criminale contro un difensore della giustizia sociale”, riferito alla campagna elettorale di Robert Kennedy, presto stroncata da un mortale attentato.
Vado al 1972: in prima, su L’Unione, ed all’insegna di “I partiti davanti al sette maggio”, una serie di interviste con i leader delle forze politiche in competizione, così: “I socialisti: ovvero la grande incognita” (Giuseppe Tocco), “I missini: ovvero la facciata e dietro” (Alfredo Pazzaglia), “I liberali: ovvero una scelta ragionata” (Raffaele Camba), “I comunisti: ovvero l’ansia del potere” (Mario Birardi), “Il PSDI: ovvero no ai doppi binari” (Antonino Defraia), “Il Psiup: ovvero l’unità a sinistra” (Carlo Sanna), “I democristiani: ovvero il dovere di governare” (Pietro Soddu), “I repubblicani: ovvero la politica dei fatti” (Armando Corona): il 9, 13, 16, 20, 23, 27 e 29 aprile e 4 maggio.
Naturalmente si tratta qui di estrapolazioni quasi casuali dalle ingiallite collezioni de L’Unione Sarda e del suo fratello minore del lunedì: estrapolazioni che raccontano l’impegno di penna – del “mestiere” –, prima di quello stretto di direzione. Dalla metà degli anni ’60 a Filippini redattore è commesso l’incarico di curare la pagina culturale, che già può contare su collaborazioni prestigiose, ma si allarga a numerose firme dei circuiti letterari ed editoriali nazionali (le famose agenzie). Nella stessa logica viene strutturata, con uscita settimanale il sabato, la pagina che reca la testatina “Nel mondo dei libri” con recensioni a largo spettro ed in mix sempre Sardegna/Italia (o universo mondo). Filippini (che una rubrica tutta sua – “Panorama” e “Notiziario” – se la riserva fin dall’inizio) continuerà nel tempo, anche quando smetterà non soltanto di curare la terza pagina (o comunque la pagina culturale ormai mobile nella foliazione) ma anche di dirigere il giornale, a seguire le produzioni editoriali isolane (credo che “Scaffale Sardegna” sia stata l’ultima rubrica consegnata per gli aggiornamenti dei lettori occasionali o seriali, dei bibliofili d’ogni obbedienza).
Il giornale vive una fase di indubbio sviluppo, anche con la formalizzazione dei contratti a nuovi redattori entrati in famiglia. Anche “Gli spettacoli” hanno ormai (e già dal 1960) una loro pagina – s’era iniziato con le recensioni cinematografiche e poi televisive di Peppino Fiori – e a cadenza ora settimanale ora quindicinale cominciano ad uscire gli speciali “della donna” od “Arte Scienza Tecnica” (dal 1963)… Nel 1964, proprio affacciandosi alla più “filippiniana” della pagine, un box avverte: «Con un accordo raggiunto in questi giorni L’Unione Sarda si è assicurata la collaborazione di molte fra le maggiori firme del giornalismo e della letteratura italiana. A partire da domani collaboreranno a L’Unione Sarda, in particolare alla “Terza pagina” ed alle pagine speciali “Arte Scienza Tecnica” e “Nel mondo dei libri” Guido Aristarco, Giovanni Arpino…» e altri trenta o quaranta fra cui – cito qui qualcuno dei miei preferiti – Maria Bellonci, Giuseppe Berto, Alba de Cespedes, Oreste Del Buono, Gillo Dorfles, Enrico Falqui, Franco Fortini, Natalia Ginzburg, Primo Levi, Gianna Manzini, Elsa Morante, Sandro Penna, Edoardo Sanguineti, Leonardo Sciascia, Maria Luisa Spaziani, Bonaventura Tecchi… Per concludere: «L’Unione Sarda ha in corso nuove trattative per assicurarsi la collaborazione di altre fra le più qualificate firme italiane che andranno ad aggiungersi alla già numerosa schiera di valorosi scrittori, giornalisti e pubblicisti che da anni collaborano al nostro giornale».
Tanto altro, e di eccellente qualità – inimmaginabile ne L’Unione di oggi, purtroppo –, verrà con l’associazione di Alberto Rodriguez alla redazione e successivamente alla direzione.
Ed a proposito. La storia del giornalismo sardo ricorda la vicenda di Tuttoquotidiano, nell’estate 1974. Il giornale edito dalla SEDIS (Moratti-Giuntelli-Rocca, poi Ragazzo-Giuntelli-Rocca) venne affidato alla direzione di Piercarlo Carta, per lunghi anni corrispondente da Cagliari de Il Giornale d’Italia (ancora Il Giornale d’Italia!), professionista di salda cultura liberale e di penna raffinata, uomo di mille esperienze ed entrature tanto nell’industria privata quanto nella pubblica amministrazione.
Al di là di quanto avrebbe nel tempo investito, nel bene e nel male, la nuova testata (gestita dal 1976 e per quasi tre anni da una cooperativa di giornalisti) è qui importante ricordare le ricadute che quella uscita nell’edicola sarda produsse sul maggior quotidiano (avviato allora ai suoi primi novant’anni)… il quale si trovò costretto a rimodulare la propria linea politica, per meglio gareggiare sul mercato dei lettori ed intercettare un’opinione di tendenze significativamente progressiste – in quel contesto entrarono in redazione svariati giovani e brillanti cronisti – e procedere anche ad un restyling grafico, ad un ampliamento della foliazione, ad una più efficace e puntuale copertura degli spazi rimasti fino ad allora ai margini. Belle pagine speciali settimanali o quindicinali, innumerevoli rubriche, una terza pagina fattasi agora, luogo del dibattito civile e culturale impegnativo delle migliori energie dell’università, della politica, delle professioni…
Un collaboratore di lusso: penna semplice ed elegante, frasi brevi e chiare
Fra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90 – al termine della sua esperienza operativa o di “mestiere” a L’Unione Sarda – chiesi a Gianni Filippini di partecipare ad alcune iniziative di studio ed editoriali che promossi per sostenere la cultura politica della “democrazia”, di quell’area ideale cioè che, a differenza del liberalismo e del socialismo – per andare adesso alle categorie canoniche delle scienze politiche – non vedeva il centro della libertà nell’economico (ora per la libera impresa o il mercato, ora per l’unità proletaria e la rivendicazione di classe) ma nel civile e nell’istituzionale. Dalla democrazia, non dal liberalismo né dal socialismo, è venuta storicamente l’istanza del suffragio universale e del voto anche femminile, dalla democrazia è venuta la prospettazione delle intese federative continentali e la separazione cordiale ma assoluta fra Stato e Chiesa, dalla democrazia è venuta l’istanza repubblicana ed è venuta – con il comunalismo di Mazzini o il federalismo di Cattaneo – l’istanza autonomistica con la devoluzione dei poteri di legislazione e governo alle rappresentanze territoriali.
In tempi però in cui l’autonomismo regionalista era diventato nazionalitarismo indipendentista fra i sardisti e pagano padanesimo fra i leghisti del dio Po, mentre il degrado progressivo (affaristico e di potere) dell’intero arco costituzionale anticipava la strage valoriale, non soltanto giudiziaria, di Tangentopoli e poi del berlusconismo, importava a me riproporre i fondamentali etico-civili e democratici della politica, tanto più lo specifico ideale e culturale modernissimo dell’area di derivazione radical-repubblicana e mazziniana, attraversando l’azionismo e ricongiungendosi, nell’Isola, al miglior sardismo delle origini e di “Giustizia e Libertà”, della fase costituente del 1946 e del 1949 e delle prime esperienze della incompiuta specialità statutaria…
Con pubblicazioni – diverse delle quali promosse dall’associazione intitolata a Cesare Pintus – e con dibattiti aperti, mi sforzai di coinvolgere anche diversi giovani studenti e studiosi che poi avrebbero fatto molta strada nelle professioni più varie, dall’insegnamento all’avvocatura al giornalismo. Per un intero decennio si susseguirono numerosi titoli, con produzione anche di inediti credo di imponente rilevanza, e occasioni di approfondimento tematico e libera e critica interpretazione offerta al generale confronto. Con l’ansia anche, senza per questo voler decontestualizzare, di collegare storia e attualità, o meglio rinvenire nelle idealità della democrazia risorgimentale e novecentesca, nel focus antifascista, le spinte necessarie alle indebolite soggettività sulla scena inquieta del fine secolo.
Gianni Filippini si concesse, con liberalità esemplare e sempre cordiale, alla collaborazione con me e i miei giovani amici. Con lui anche altri di altrettanta autorevolezza, da Elena Melis allo stesso presidente Mario Melis ed a Paolo De Magistris, da Fausto Cara e Antonietta Garippa a Franco Farina e Lello Puddu, a Vindice Ribichesu e Giuseppe Melis Bassu… E naturalmente i giovani, molti giovani: Francesca Carta, Massimiliano Rais, Vito Biolchini, Elio Masala, Maurizio Battelli, Marco Piredda, Simona Zonchello, Martino Contu, Salvatore Sollai, Matteo Sardu, Giuliano Guida, Martino Salis, Andrea Soddu, Piero Cossu, Armando Serri, Massimiliano Messina, Gianpiero Carta, Andrea Piga, Antonio De Giudici… quanti altri ancora, allora ventenni ed oggi sindaci comunali o signori del foro giudiziario, pubblici funzionari o professori e professionisti di valentia riconosciuta.
Alla tribuna delle presentazioni dei nostri lavori di studio (collettivo) ed editoriali, molti e cari amici e personalità d’eccezione, di vario orientamento ed esperienza: da Giuseppe Serri a Manlio Brigaglia, da Antonio Romagnino a Giuseppina Cossu Pinna, da Salvatore Cubeddu a Gian Giacomo Ortu, da Tito Orrù a Lorenzo Del Piano, da Giorgio Macciotta a Romano Cannas, da Giancarlo Ghirra a Filippo Peretti, e ancora Ribichesu, De Magistris, Crespellani, Tuveri, Sirchia, Angioi, Cauli, Simonetta Giacobbe… (ne recupero i nomi dalla memoria, non dalle carte, e per tanti la commozione di gratitudine sale spontanea).
Qui di seguito – omaggio puro e fraterno a Gianni Filippini nell’occasione del suo nuovo compleanno – riporto alcuni dei contributi scritti ed orali (sbobinati) da lui offerti all’impresa comunitaria di anni addietro.
Altri suoi interventi, e scritti e a voce, puntualmente sbobinati, ancora riferiti alle attività degli esponenti della democrazia repubblicana e sardista (da Ugo La Malfa a Giovanni Battista Melis) lungo molti decenni della vita nazionale e regionale spero di poterli riproporre nelle prossime settimane.
Cesare Pintus, nella trincea di Terrapieno
(da “Cesare Pintus e l’Azionismo lussiano”, Cagliari 1990)
La mia può essere soltanto una testimonianza di seconda generazione o, se si preferisce, di seconda mano. Per colpa del mio dato anagrafico non posso infatti riandare alle vicende che hanno Cesare Pintus per protagonista con il velato compiacimento di un partecipato “c’ero anch’io”. Il mio è inoltre un intervento tutto vicino all’Unione Sarda. Infatti, ho conosciuto – conosciuto tra virgolette – Cesare Pintus nel 1954 quando sono entrato all’Unione Sarda. È allora che ho cominciato a ricostruire – parlandone con i protagonisti e con i testimoni, leggendo e studiando la storia più recente, diciamo gli ultimi 10-11 anni, del giornale nel quale aveva lavorato mio padre e nel quale mi accingevo a consumare un’intera vita professionale ma del quale – avevo allora ventidue anni – poco o nulla sapevo.
In particolare mi appassionai – avvertendo di trovarmi nella privilegiata condizione di studente in una scuola di libertà e di giornalismo – alla lettura dell’Unione Sarda degli anni 1943-44-45. Quel malandato foglietto, che in qualche modo impallidiva davanti ai giornali che nel 1954 già uscivano a sei-otto pagine decorosamente stampate, aveva lo spessore di un’antologia, fors’anche di un’enciclopedia. Le principali “voci” erano libertà, antifascismo, democrazia, autonomia, pluralismo, rigore.
In attesa di avere il tempo di andare o tornare alla storia remota, a partire dal lontano 1889 che aveva segnato la nascita dell’Unione Sarda, per quella mia prima ricostruzione, per quel mio primo sforzo di capire per cosa e come fare il giornalista, ho preso le mosse dal momento in cui l’ Unione Sarda – chiusa la parentesi del “Dove il duce vuole” e delle bombe – aveva ripreso le pubblicazioni: dal 14 novembre 1943, appunto da quando il giornale ricomparve come organo della Concentrazione provinciale antifascista sotto la direzione di Jago Siotto affiancato da Giuseppe Musio, capo di una pattuglia di redattori più o meno effettivi che con Cesare Pintus comprendeva Giuseppe Licheri, Sergio Massacci e, qualche tempo dopo, Luigi Pirastu, Paolo Mulas, Gaetano Ciuffo ed altri.
Dell’Unione Sarda di quel periodo – sfogliai e risfogliai il giornale ricevendone forti emozioni e indimenticabili ammaestramenti – mi piace ricordare una mirabile descrizione che ne fece, anni dopo, mi pare nel 1975, Luigi Pirastu nella premessa dell’interessantissimo studio di Piero Sanna su “I quotidiani nel periodo del CLN”.
«La nuova Unione Sarda – racconta Luigi Pirastu – era un foglietto fatto con mezzi di fortuna da giornalisti quasi tutti improvvisati ma nuovo, vivo, ricco di fermenti ideali».
Verissimo! Luigi Pirastu – che, come ho ricordato, del giornale di allora fu uno dei redattori di punta, caporedattore con Giuseppe Musio, e che lo diresse anche fra il 2 dicembre 1944 ed il maggio 1945, sostituendo Antonio Dore che non aveva assunto l’incarico assegnatogli – Luigi Pirastu, dicevo, ha detto molto bene, in sintesi felicissima. Davvero quel foglietto formalmente malandato era vivo e ricco di fermenti ideali.
Già al terzo numero della nuova Unione Sarda, alla data del 16 novembre 1943, “incontrai” Cesare Pintus. La firma di Cesare Pintus, voglio dire, sotto un articolo intitolato “La nostra via”.
Per me quell’articolo è stato, ed è – per la forza di allora e per l’attualità che conserva – un punto di riferimento: come cittadino e, soprattutto, come giornalista. «Il giornale è sorto – scriveva Cesare PIntU – per moralizzare la vita politica del Paese. E tale moralizzazione – soggiungeva – non può avvenire se non estirpando con azione energica e tempestiva la malapianta della corruzione e dell’imbroglio».
Avrei ritrovato poi, in altri scritti, anche su altri giornali (a cominciare dalla Voce Repubblicana di cui fu corrispondente) questa rigorosa attenzione di Cesare Pintus per la questione morale. E forse sul Solco che scrisse, ad esempio, «lasciatemi dire che io sono profondamente convinto che la politica senza morale è brigantaggio». Una lezione elevata, un’affermazione da sottoscrivere ancor oggi poiché conserva, purtroppo, una bruciante attualità.
Nell’articolo sull’Unione Sarda del 16 novembre 1943 Cesare Pintus dava inizialmente conto del proprio, irriducibile antifascismo. Liquidazione totale del passato – gridava – con severo azzeramento del fascismo, dei fascisti e dei pro-fascisti. Ma – scriveva subito dopo – anche Immediato impegno per una nuova costruzione del Paese in generale e della Sardegna in particolare.
E quell’articolo – nel quale avvertii, allora indistintamente, l’eco di Carlo Cattaneo – indicava a questo proposito una delle strade sulle quali incamminarsi: quella delle autonomie regionali. Che non dovevano essere, diceva Pintus, un decentramento calato dall’alto od equivoca indipendenza ma la naturale piattaforma di autentici poteri sulla quale trionfare l’idea federalista.
In un articolo scritto dopo la consultazione del 2 giugno 1946, avrei “sentito” Cesare Pintus gridare ancora: «Ci siamo battuti per la Repubblica e per l’Autonomia. Abbiamo la Repubblica, avremo l’Autonomia».
Nella parte finale dell’articolo del 16 novembre 1943 Cesare Pintus apriva e sollecitava un dibattito a più voci. Perché lo riteneva, in particolare, un dovere verso i giovani, che, scriveva, «rivolgono a noi non più giovani con l’ansia dell’infermo cui si tolgono le bende dagli occhi dopo l’intervento chirurgico che gli ha ridonato la vista e chiedono che la nostra esperienza indichi loro la via da battere».
E dibattito fu, serrato, vivace, con uno straordinario confronto di idee. Un dibattito con gli interventi di Angelo Corsi, Giuseppe Musio, Beniamino Piras, Elisio Zanda Loy, Venturino Castaldi, Jago Siotto, Peppino Frongia, ecc. Un lungo dibattito fino ad un articolo a puntate, intitolato «Rispondendo e precisando», di Jago Siotto, il direttore che mi veniva descritto – da qualcuno di coloro che andavo interrogando sul passato recente dell’Unione Sarda – come «vecchio antifascista, socialista un po’ romantico e populista ma dall’assoluto rigore morale, dalla profonda sensibilità umana».
Tutti articoli interessanti. Ma dalla “Nostra via” ero rimasto colpito in modo particolare. Dalla sostanza e dalla forma trassi la convinzione – richiamo ancora la mia assoluta ignoranza di allora – che dietro quello scritto doveva esserci non soltanto qualcuno che mi aveva preceduto nella redazione dell’Unione Sarda ma un uomo straordinario, fuori dal comune. Così, colmando una lacuna di cui mi vergognavo anche se ero incolpevole, feci la “conoscenza” di Cesare Pintus. Ne ricostruii in qualche modo la biografia grazie al racconto, alla testimonianza, alla conoscenza diretta di molte persone. E fui colpito, ricordo, dal coro di stima incondizionata che circondava Cesare Pintus, anzi Cesarino Pintus. Anche quelli che non condividevano le sue idee, che magari le avversavano duramente, si levavano il cappello davanti alla figura morale di un repubblicano, di un azionista nel dopoguerra, di un democratico che aveva subìto la persecuzione fascista per le sue denunce coraggiose, che di quelle persecuzioni si portava dentro i segni dolorosi. Ai primi di settembre 1948 la parte più commossa di uno dei pochissimi necrologi diceva: «Egli ha vissuto ed è morto povero».
Sulla mia sensibilità – anche o soprattutto di giovane giornalista – fece presa, fra i tanti, un episodio particolare narratomi per descrivermi Cesare Pintus: un tentativo di assalto all’Unione Sarda, episodio che in qualche modo avrei rivissuto, negli anni roventi della contestazione studentesca. Era un episodio che restituiva la fermezza di Cesare Pintus, quella stessa che l’aveva opposto alle violenze fasciste.
L’opinione pubblica era divisa sull’opportunità di inviare giovani sardi sulla penisola per partecipare alla guerra di liberazione. Scoppiarono dei tumulti. Un certo numero di oppositori a quell’ipotesi andò a manifestare violentemente davanti alla redazione dell’Unione Sarda. Una delegazione incontrò Cesare Pintus che si trovava in redazione e tentò di imporre una linea contraria all’invio di giovani per liberare definitivamente l’Italia. Cesare Pintus affrontò gli scalmanati senza battere ciglio. Ne respinse la richiesta, rifiutò persino la pubblicazione – perché sollecitata appunto con la violenza – di un ordine del giorno di quegli oppositori. La decisione fu poi condivisa da Luigi Pirastu e da Giovanni Lay. Ci fu anche un tentativo di assalto al giornale. Furono lanciate delle bombe. I carabinieri dovettero sparare in aria per fermare e disperdere gli assalitori.
Nel mio taccuino mentale scrissi quest’esempio di coraggio – anche quest’esempio di coraggio – in difesa delle proprie idee e del pacifico confronto fra sostenitori di idee diverse. E per me fu l’approccio con il difficile problema della libertà in generale e della libertà di stampa in particolare. Con la lezione di un’intera vita dedicata a questo ideale, la libertà appunto, da Cesare Pintus.
Voglio concludere richiamando ancora la testimonianza preziosa di un redattore dell’Unione Sarda di allora. «Sfogliando le pagine ingiallite dell’Unione Sarda di quei lontani anni, rileggendo alcuni articoli si riscontrano ingenuità, errori e si possono scorgere illusioni. Nonostante questo ritengo che quegli anni siano stati utili e che anche quell’Unione Sarda un po’ ingenua e un po’ provinciale, abbia dato un contributo sia pure piccolo alla ricostruzione della democrazia e dell’autonomia in Sardegna».
Sono affermazioni che condivido, salvo un punto. Secondo me quel contributo – al quale Cesare Pintus diede tutta la sostanza della sua intelligenza, della sua fede, del suo coraggio, dei suoi ideali – non fu piccolo. Tutt’altro.
Alla presentazione di “Cesare Pintus e l’Azionismo lussiano”, Cagliari 25 aprile 1990
Certo le parole dell’amico Salvatore Ghirra danno il senso della presenza non soltanto mia ma anche vostra e in particolare dei due illustri relatori, il sindaco Paolo De Magistris e il professor Manlio Brigaglia, per richiamare quello che nel titolo di un capitolo del libro di Gianfranco Murtas è reso esplicito: ricordare Cesare Pintus è un dovere.
Gianfranco Murtas in questo suo nuovo, denso, libro ha scritto nella presentazione che questa sua opera, che con molta modestia definisce un quaderno, ma che è assai più di un quaderno, si propone come un episodio di gratitudine verso un grande democratico sardo e cagliaritano soprattutto. Anche io ho posto il mio rapporto, ovviamente indiretto, soltanto culturale, soltanto psicologico, soltanto morale, il mio rapporto con Cesare Pintus, in questa ottica di gratitudine, come uno che sente il dovere di onorare un debito che ha contratto con questo grande personaggio che ormai si è consegnato alla storia della nostra città e non soltanto della nostra città, perché, anche a me, sia pure discepolo molto periferico, e certamente indegno, Cesare Pintus ha dato grandi lezioni di onestà, di coraggio, di coerenza, di democrazia e, per il particolare riferimento alla mia professione, anche di giornalista. Per questo avevo accolto con disponibilità sincera l’invito che mi era stato rivolto da Salvatore Ghirra e dagli altri che con lui hanno fondato l’Associazione “Cesare Pintus”, l’invito a partecipare, a svolgere una relazione sul primo sindaco di Cagliari restituita alla libertà, nella metà del 1988. Mi sembrava un episodio importante, mi sembrava un appuntamento al quale meritasse partecipare, poi però quell’avvenimento, lo dicevamo poco prima di iniziare questa manifestazione, appunto con Salvatore Ghirra, questo avvenimento ha dato dei frutti che forse vanno al di là di quelle che erano le aspettative, perché un valoroso ricercatore e studioso come Gianfranco Murtas ha preso spunto da quell’incontro, appunto, per realizzare questo libro, che ci restituisce tutto il percorso umano di Cesare Pintus, questo breve, brevissimo percorso, soltanto 47 anni, drammaticamente, tragicamente segnato, ma così denso, così pieno di significati, una vita veramente che ha lasciato il segno.
Il messaggio che Cesare Pintus ci ha lasciato è simbolicamente, per una voluta coincidenza, sottolineato dal 25 aprile, dalla giornata d’oggi, dalla festa della Liberazione, e Cesare Pintus può essere a buon diritto definito il sindaco dei 25 aprile, il sindaco che rappresenta, non certo da solo, ma come rappresentante di quella pattuglia che rappresentò negli anni bui del regime fascista, quella che sarebbe stata la premessa di coscienza, di democraticità, di coerenza, di coraggio appunto, per le generazioni che sarebbero venute dopo, per le nostre generazioni. Gianfranco Murtas rende omaggio convinto, da ammiratore sincero e dichiarato, a Cesare Pintus e ce ne restituisce corposamente il ricordo, ridisegnandone la vita, ridefinendone l’impegno politico, la milizia antifascista, restituendo alla nostra riflessione quelli che sono stati gli scritti, e in particolare gli scritti giornalistici di Cesare Pintus, ed anche la sua esperienza di sindaco per 17 o 18 mesi, appunto, dall’ottobre 1944, sindaco nei momenti certamente più difficili, quelli dell’inizio della ricostruzione di Cagliari, che era stata sì restituita alla libertà, ma che per questa libertà aveva pagato il grande tributo di distruzioni e di morti.
Nelle pagine dense, ripeto, molto appassionate, mi piace sottolineare questa caratteristica del libro di Gianfranco Murtas, che è, lo ha detto molto bene Salvatore Ghirra, un ricercatore infaticabile – io credo di poterlo definire un missionario laico della ricostruzione di vicende e di personaggi del nostro passato: ho ritrovato, esaltato, proprio questo profilo alto di Cesare Pintus, la sua divisa morale, l’intransigente limpidezza dei suoi valori, la sua straordinaria dimensione etico-politica, e naturalmente per quello che ha fatto, non soltanto con le sue idee ma con i suoi comportamenti, con i suoi atteggiamenti, a cominciare – sempre per stare ai bordi della mia professione – da quel momento in cui difese la dignità e la libertà di una professione, opponendosi a una pattuglia di facinorosi, chiamiamoli così con un gentile eufemismo, che tentò di assaltare “L’Unione Sarda” per imporre la pubblicazione di un documento oggettivamente eversivo. Ancora nelle pagine di Gianfranco Murtas su Cesare Pintus mi hanno colpito la corale considerazione, l’unanime rispetto, l’ammirazione che si coglie nelle testimonianze orali raccolte da Murtas, o direttamente scritte dai personaggi che hanno avuto il privilegio di conoscere Cesare Pintus. A differenza di tanti necrologi, velati di ipocrisia o dettati da generosità di occasione, negli scritti per la morte di Cesare Pintus, che sono appunto riportati nel libro, ho colto accenti di vera sincerità, di straordinaria, eccezionale sincerità. Per esempio in “Riscossa Sardista” si leggeva: «scompare uno dei compagni migliori e cessa di battere un grande cuore. Chiunque l’ha conosciuto sa che egli era una grande anima».
Pintus è quindi un «virtuoso della pazienza», come si intitola il capitolo scritto da Paolo De Magistris, «uno spinto di bambino buono e onesto», come ha detto Andrea Borghesan, che era ed è amministratore de “L’Unione Sarda” e che quindi con me ha, nonostante la differenza di età, una lunga frequentazione.
La figura di Cesare Pintus, che in qualche modo mi aveva preceduto nelle stanze de “L’Unione Sarda”, io credo che sia rimasta, per quelli che svolgono la professione di giornalista, sforzandosi di assegnarle una specifica dignità, come un punto di riferimento preciso. E proprio sulle pagine ingiallite de “L’Unione Sarda” avevo trovato – quando avevo cercato di ricostruire per me stesso, giovane poco più che ventenne, che nel 1954 aveva iniziato la professione, il passato del mio giornale – avevo trovato le testimonianze dirette del breve ma significativo passaggio di Cesare Pintus ne “L’Unione Sarda”, quando la sua scomparsa venne comunicata e ricordata ne “L’Unione Sarda”. Furono parole molto semplici quelle che gli vennero dedicate, ma io credo che a ciascuno di noi, se pure in lontana prospettiva e a futura memoria, piacerebbe essere ricordato sulle pagine di un giornale una volta cessato di vivere.
«Cesare Pintus», scrisse “L’Unione Sarda”, era «una delle figure più schiette dell’antifascismo sardo, non piegò mai al regime incalzante, sopportò con animo virile il processo, la condanna, il carcere per lunghi anni, e scontò senza mai pentimento le gravi conseguenze fisiche della carcerazione ed anche economiche». Questo perché si può essere dei libertari, si può essere dei convinti democratici, ma la misura si ha soltanto quando si affrontano prove difficili, dolorose come quella che ha sopportato e affrontato Cesare Pintus. Ha davvero ragione Gianfranco Murtas quando rileva che figure come quelle di Cesare Pintus erano poche e rare allora e sono poche e rare anche adesso.
In questi giorni di vigilia elettorale, questo libro di Murtas, queste pagine su Cesare Pintus hanno un significato ovviamente particolare, lo diceva Salvatore Ghirra. Anche a Cesare Pintus toccò di misurarsi, come all’amico Paolo De Magistris, con i problemi di questa nostra città, con le difficoltà di guidarla, con le critiche strumentali, con le opposizioni fatte soltanto per essere opposizioni. Gianfranco Murtas lo ha chiamato «il sindaco del 25 aprile» e dà conto anche degli sfoghi che Cesare Pintus fu costretto a fare davanti all’opinione pubblica, proprio per rilevare quanto difficile fosse tradurre in fatti concreti le idee. E spontanei però nascono, dalla lettura di questo libro in questo periodo particolare, i confronti e gli accostamenti, le distanze, le profonde differenze fra quei giorni, tra il 9 ottobre 1944 e il 17 marzo 1946, il periodo in cui Cesare Pintus è stato sindaco della nostra città, e quelli di questa nostra stagione così poco affollata di figure con lo stesso spessore morale, con la stessa coerenza e fede nella libertà e nella democrazia, con la stessa dedizione al bene collettivo, con la stessa abnegazione senza limiti all’impegno e ai sacrifici, ed è forse per la indiretta suggestione del clima elettorale che nel libro di Gianfranco Murtas ho trovato – provandone un profondo sincero compiacimento – pagine riconducibili ad un gruppo di giovani collaboratori. Certo ho letto e riletto con viva emozione le testimonianze di Giovanni Lay, di Virgilio Schinardi, di Efisio Melis, di Fausto Cara, di Andrea Borghesan ed Antonino Lussu, ed altre testimonianze, ma nel contributo di ricerca e di analisi di questa pattuglia di giovani, che si è coagulata intorno all’opera di Gianfranco Murtas, ho colto un segnale di speranza.
C’è certamente una situazione di degrado sul versante dell’onestà, della moralità, del rispetto sempre e comunque dei principi etici e morali ancorché politici. La speranza è che la straordinaria lezione di Cesare Pintus abbia ora, e soprattutto per quanto riguarda il futuro, degli allievi attenti sensibili, e soprattutto convinti. Di questi giovani mi piace ricordare, soltanto perché la conosco, una delle collaboratrici di Gianfranco Murtas, Simona Zonchello, perché ha ricordato tra gli altri un episodio che mi tocca da vicino, un episodio che riguarda un tema che mi è sempre stato caro, anche se ho sempre dovuto misurarlo con una realtà che a questo tema e a questo principio dava, si sforzava di dare delle grosse smentite: il tema della libertà di stampa.
Richiamando la descrizione di Pintus, la Zonchello ha rifatto la storia breve di un episodio che riguarda la nostra città, ed era l’indegno comportamento dello Stato nei confronti di quelli che erano partiti volontari, volontari tra virgolette, per andare a colonizzare la Libia; questi erano tornati a Cagliari, e Cesare Pintus, corrispondente della “Voce Repubblicana”, li descrive in maniera giornalisticamente di grande efficacia, «laceri con le vesti a brandelli, sporchi di una sporcizia araba, avviliti e delusi», eppure questi disperati di una guerra disperata, di una guerra che era ingiusta, trovarono la forza di reagire alla mascalzonata di chi gli negava il soldo promesso, e sfilarono per le vie di Cagliari, e andarono a gridare «abbasso il governo» sotto le finestre della Prefettura. Il prefetto di allora, si chiamava Gandolfo, si mosse in tre direzioni: fece delle promesse, che sapeva false, a quei reduci, dicendogli che sarebbero stati pagati loro i soldi promessi; convocò i direttori dei giornali perché dell’episodio non si parlasse; fece una relazione al Governo per dire che a Cagliari non era successo niente. L’unico, o se non l’unico, certamente quello che fece il dovere di giornalista, confermando di avere una schiena dritta, e robustamente dritta, fu Cesare Pintus che raccontò esattamente quello che era successo e denunciò quella che era l’ennesima prevaricazione del regime. Quindi un segnale che vale per chi fa il giornalismo, ma per chi fa della propria vita, della propria professione uno spartiacque etico e soprattutto di dignità.
Bisogna attrezzarsi per pagare, come Cesare Pintus ha pagato, tutti i prezzi che si devono pagare, perché anche quando raccontò giornalisticamente quell’episodio della protesta dei reduci, Cesare Pintus sapeva di lanciare una sfida nella quale sarebbe stato soccombente al regime, una sfida che lo avrebbe portato alla condanna, alla lunga detenzione e a pagare poi il prezzo più duro, piegato nel fisico, morendo in un tubercolosario. Quindi questo spesso volume di Gianfranco Murtas, riproponendoci Cesare Pintus in tutta la sua straordinaria dimensione, sa ricordarcelo in tutti questi aspetti che ce lo fanno esempio luminoso, un esempio che dalle pagine di Gianfranco Murtas ritorna per metterci davanti ad una alternativa secca: o ci sforziamo di imitare Cesare Pintus o ci vergogniamo profondamente.
[interventi di Paolo De Magistris e di Manlio Brigaglia]
Chiedo scusa se rubo ancora un secondo per dare una risposta a un quesito che ha posto Manlio Brigaglia. Qui dovrei chiedere io aiuto a don Paolo per sapere, quando un sindaco fa delle dichiarazioni pubbliche, quanto è insincero e quanto è veritiero. Comunque nell’aprile del 1945 Cesare Pintus faceva il conto delle distruzioni di Cagliari: gli edifici allora censiti erano 7.000, 4.000 furono complessivamente danneggiati dalla guerra, 862 completamente distrutti, 1.647 danneggiati molto seriamente. A sei mesi dalla nomina a sindaco poteva affermare che 2.000 appartamenti colpiti erano già stati rimessi a posto e riutilizzati, quindi un pezzo della ricostruzione piuttosto grossa…
Le geometrie del Brancaccio
(da “Sardismo e Azionismo negli anni del CLN”, Cagliari 1990)
Quel giorno – era il 19 settembre 1944 – il teatro Brancaccio di Roma era certamente affollato. In molti, e non soltanto della Sezione romana, avevano accolto l’invito del Partito d’Azione. Erano trascorsi quattordici mesi dal primo e clandestino “convegno nazionale” di Firenze e appena cento giorni dal congresso di Cosenza. Ed erano spazi che s’erano riempiti di tanti momenti importanti. Tutto avveniva in sequenza veloce, i fatti si incalzavano a ritmi convulsi, le ore dovevano colmare il vuoto di decenni. Mentre la guerra scriveva gli ultimi capitoli della tragedia mondiale e della definitiva liberazione dell’Italia, c’era una gran fretta di mettere la prima pietra della “nuova stagione”, del governo, della Costituzione. Molti gli ingegneri e gli architetti per il progetto del domani italiano e molte e diverse le idee sul complesso e sui dettagli della costruzione. Confronti e scontri cli opinioni, dunque. Nei partiti, vecchi e nuovi, una gran voglia di occupare spazi politici e consensi popolari. Anche il Partito d’Azione, che di anni ne aveva soltanto due più qualche mese, sentiva questa legittima voglia. Ma con grave carenza di compattezza. Già per il dibattito sui “sette punti” definiti dai fondatori, Emilio Lussu aveva memorizzato una malinconica considerazione: «Si può dire che non vi fossero cinque o sei compagni che potessero riconoscersi intorno ad una stessa tesi». Si era tentato il miracolo della moltiplicazione dei “punti”: dieci, ventuno, sedici… ma era fallito nell’obbiettivo di fondo: azzerare gli eccessi di divergenza. Per fare un solo esempio, «Silvio Trentin aveva tratto dai contrasti una sgradevole impressione e ne aveva riferito, proprio a Lussu, senza peli sulla lingua: gli pareva che il Partito d’Azione avesse finito per diventare una raccolta di sbandati, dove le lingue più diverse e incomprensibili determinavano disorientamento, confusione e paralisi».
Così, il discorso di Emilio Lussu s’annunciava particolarmente importante. Molti ascoltatori erano certamente pronti all’applauso, ma erano molti anche quelli – per così dire – con il fucile puntato, pronti a sparare l’ennesima polemica. Lussu lo sapeva e, da grande politico e con la responsabilità del leader, della situazione non sottovalutava i pericoli. Per questo aveva pensato ad un discorso che pur «riconfermando i punti della maggioranza al congresso di Cosenza» fosse di «intonazione unitaria». Insomma, per buttarla giù spicciola, voleva giocare la carta dell’unità tentando di convincere la minoranza, con qualche concessione, ad abbandonare le posizioni di più aperto dissenso. Alla vigilia di importanti appuntamenti istituzionali, voleva evitare che tutto precipitasse in una crisi irreversibile, che le divisioni interne mettessero il partito fuori gioco.
Scottanti, dunque, i temi da affrontare: la linea del partito, il giudizio sugli altri partiti, le ipotesi di collaborazione politica, la scelta istituzionale e, soprattutto, l’indicazione della strada da imboccare e percorrere per la ricostruzione dello Stato (al di là dell’ obbiettiva importanza, un argomento quest’ultimo molto caro a Lussu che gli aveva dedicato anni di studio, che l’aveva già affrontato nell’opuscolo stampato e diffuso a Roma, riprendendo l’edizione clandestina fattane in Francia da “Giustizia e Libertà”, e che sempre metteva al centro dei suoi interventi).
Alle prime battute del discorso l’oratore prende atto della folla di ascoltatori: «Io mi ripromettevo di parlare in un piccolo ambiente, in un ambiente ristretto, ai compagni della Sezione romana del Partito d’Azione… senonché mi sono lasciato convincere a parlare in un grande teatro come questo, da cui sono partiti discorsi che hanno avuto vaste ripercussioni nazionali e internazionali». Emilio Lussu non lo dice ma è certamente soddisfatto del vasto uditorio. E non soltanto perché il suo «modesto e onesto tentativo di contribuire alla chiarificazione del partito e, se è possibile, ad una chiarificazione della situazione generale» avrà molti testimoni, ma anche perché gli sarà assicurata l’eco adeguata che lo stesso giornale del partito, L’Italia Libera, aveva in pratica negato alle relazioni ed al dibattito di Cosenza: due righe il 4 agosto, niente il 5, dieci righe ma con notizie imprecise il 6, silenzio il 7, l’8 e il 9, infine mezza colonna il 10 per riferire sugli interventi di De Martino, Caracciolo, Dorso, Armino e, appunto, Lussu («Mi è persino venuto il dubbio, peraltro respinto a fatica – scriverà Lussu ventiquattro anni dopo nel volume Sul Partito d’Azione e gli altri – che tanto ermetismo fosse da attribuirsi all’allora direttore del quotidiano, Carlo Muscetta, della minoranza»; al momento si era però «ufficialmente accontentato» della versione che scaricava i silenzi sulle malandate linee telefoniche e telegrafiche).
C’era stato anche di più e di peggio dell’equivoca reticenza del giornale (alla quale Lussu aveva cercato di rimediare con tre articoli pubblicati in successione il 13, il 15 e il 18 agosto ma scritti, almeno due e per sua stessa ammissione, «piuttosto affrettatamente»). Del congresso – Federico Comandini alla presidenza, circa duecento convenuti (compresi, come osservatori, alcuni rappresentanti del Partito Sardo d’Azione al quale peraltro, con «licenza di doppia tessera», apparteneva lo stesso Lussu), una trentina di interventi, forti contrasti sul programma politico, un ordine del giorno approvato a maggioranza, persino «una reazione spiacevole» dello sconfitto La Malfa ed alcune dimissioni – s’erano perse le tracce scritte «a somiglianza del convegno di Firenze, per una serie di incidenti stradali, fra Cosenza e Napoli, nel rientro a Roma dei convenuti»: l’auto con i documenti della segreteria congressuale finita in un canale, di notte; le poche carte recuperate trasferite in un’altra auto a sua volta coinvolta in un incidente «anch’ esso notturno, ancora più increscioso del primo» («Solo Bruno Visentini – racconterà poi Emilio Lussu – uscì salvo dallo sfascio degli atti del congresso, ma non incolume, ché rientrò a Roma fasciato di bende»).
Insomma, del congresso di Cosenza fra consensi e critiche, polemiche e messe a punto, si era detto praticamente tutto e il contrario di tutto e lo stesso Lussu – riferendosi all’ordine del giorno vittorioso ed «alle quattro o cinque tendenze socialiste che vi erano» – ne aveva tratto lo spunto per una significativa battuta privata con Adolfo Omodeo: lo paragonava al sacco in cui, per la legge romana sul parricidio, con il condannato venivano rinchiusi un gallo, una vipera e una scimmia. In pubblico si affannava invece a sostenere che «finito il congresso non si ebbero né risentimenti eccessivi e neppure malumori notevoli» e di essere comunque deciso «ad evitare in qualsiasi modo un ulteriore scontro tra maggioranza e minoranza». Gli bruciava però che si andasse dicendo che «le conclusioni del congresso erano una violazione dei 16 punti» (cioè del programma – affermava – messo a punto ed approvato «da pochi compagni riuniti a Roma» e invece rivisto da «un congresso di mezza Italia, con la partecipazione dell’esecutivo nazionale e della direzione centro-meridionale»).
Insomma, molti stimoli per il dirigente di Armungia, molte sollecitazioni ad offrire un contributo al processo di chiarificazione politica all’interno ed all’esterno del partito. E fra gli stimoli e le sollecitazioni, certamente non ultima, una recente, pubblica, articolata presa di posizione di Ugo La Malfa, “voce borghese” del partito, che aveva parlato due mesi prima – il 17 settembre – al Cinema Teatro di piazza Sonnino su “Il problema della democrazia e il Partito d’Azione” e che aveva raccolto consensi ma anche scatenato, dentro e fuori il partito, altre e violente polemiche. Molti infatti erano stati i giudizi fortemente critici e molte le dure bacchettate distribuite da La Malfa nell’affermazione coerente delle proprie idee sulla linea del partito, sugli altri partiti e soprattutto sul futuro dell’Italia. Comprensibili le reazioni. Tra le altre, durissima, quella di Mario Pannunzio: «Il discorso ci è sembrato, nel suo insieme, scoraggiante e problematico… Il Partito d’Azione ci sembra oggi avere scarse probabilità di vita, perché non è mai stato né può essere un partito… Nato dalla critica sia del vecchio liberalismo che del vecchio socialismo rivoluzionario e statolatra ha cercato la “terza via” affannosamente, senza trovarla. O, meglio, ha fatto finta di trovarla nel liberalsocialismo, nella conciliazione cioè delle due correnti che hanno dottrine e metodi francamente inconciliabili… Se il Partito d’Azione intende fondere concretamente liberalismo e socialismo non può che rifare da capo l’esperienza del fascismo, o anche del nazismo».
Una bordata pesante: la sponda Risorgimento liberale negava ipotesi d’approdo. Come L’Avanti, del resto, che – per polemizzarci – del discorso di La Malfa aveva in particolare sottolineato questa frase: «Rispetto ai movimenti socialista e comunista il Partito d’Azione ha una posizione non classista ed essa è più vicina alla realtà di quanto non sia quella di Nenni quando afferma che la società di domani sarà una società socialista marxisticamente intesa». Invece a Guido Gonella, in complesso, il discorso di La Malfa non era parso del tutto negativo. Con le critiche al «liberalismo vecchia maniera», gli era piaciuta decisamente la parte dedicata al socialismo ed al comunismo: «Netta e rigorosa è l’avversione di questa ala del nuovo partito ad ogni ritorno a schemi socialisti, ed il La Malfa non solo respinge il presupposto classista e marxista, ma pure condanna il socialismo sul terreno storico».
Con la soddisfazione di vedere la sala affollata («Non è vero che siamo un partito di generali senza soldati o di generali con pochi soldati»; in ogni caso «altri sono partiti di molti soldati e di pochi generali, forse di assai pochi generali»), anche per La Malfa c’era stato il problema di portare il discorso oltre gli iniziali confini. «Vi avrei dovuto parlare – aveva infatti esordito – di come è nato il Partito d’Azione, perché si è chiamato così; vi avrei dovuto parlare dei 16 punti che rischiano di diventare famosi come i 14 punti di Wilson! Ho preferito allargare l’oggetto della conferenza e illustrarvi come il Partito d’Azione e come la democrazia moderna nascano dalla crisi storica che attraversiamo da 30 anni… È un’esperienza di errori: errori politici di popoli, delitti di classi dirigenti, errori di civiltà».
Di quei trent’anni Ugo La Malfa aveva proposto una ricostruzione e soprattutto una interpretazione. E di certo l’una e l’altra erano finite, con vistose e irate sottolineatura, soprattutto nel taccuino di molti esponenti della maggioranza del Partito d’Azione. In quello di Lussu, in particolare. La “voce borghese” aveva taciuto sui tormenti del partito, sulla crisi che stava attraversando e sulle fragili prospettive che si attribuiva con le lacerazioni, i contrasti. Apparentemente almeno, La Malfa aveva evitato, negandosi i riferimenti diretti, di polemizzare con le altre voci del partito. Ma, nel solco delle più recenti prese di posizione, nelle righe e tra le righe era stato esplicito nei messaggi che voleva lanciare all’esterno e soprattutto all’interno del partito, era stato limpido e appassionato nell’illustrare le sue idee: «Quando alla fine della prima guerra mondiale, il socialismo, movimento critico della società democratico-liberale, salì all’assalto, fallì alla prova. Noi conosciamo la storia della lotta socialista in Italia; conosciamo l’incertezza di questa lotta socialista fra il desiderio di prendere il potere e di esercitarlo in nome di una maggioranza democratica e il desiderio di una rivoluzione totale; conosciamo l’errore di aver portato dalla parte della reazione ceti e classi che dovevano servire la democrazia; conosciamo l’errore di aver coltivato, in seno ai partiti popolari, demagoghi e avventurieri che sono passati al campo avverso; abbiamo così visto nascere in Italia il fascismo… Noi dobbiamo molto al movimento socialista, ma il socialismo è mancato alla prova suprema: alla prova politica. Irretito in una visione classista della società umana, in una visione marxista… spaccando la società in due parti il socialismo ha mancato al suo dovere di creare lo Stato democratico».
Ed ancora: «Nei confronti della società occidentale, di una complessa civiltà in cui i ceti sociali degradano l’uno nell’altro, si intrecciano l’uno all’altro, in cui un operaio è e non è un operaio, un contadino è e non è un contadino, un piccolo borghese è e non è un piccolo borghese, in cui una civiltà millenaria dà l’impronta alla collettività; in confronto a questa realtà il socialismo non ha risolto il problema fondamentale. Il socialismo non è diventato idea di Stato, di governo, di rappresentanza di popolo, di amministrazione di popolo».
Ugo La Malfa aveva anche proposto un personale, sommario identikit del Partito d’Azione, o meglio della sua “intuizione politico-sociale”: «Esso indica tutto quello che è da demolire, ma indica altresì tutto quello che è da ricostruire, perché oltre a questa demolizione vi è una visione della società democratica di domani e questa visione è una visione di vaste collettività umane che lavorano in servizio sociale; di vaste collettività umane che creano il loro stato democratico». Poi – rimarcato con forza il confine fra contrari e favorevoli alla sopravvivenza della monarchia – aveva proceduto per ammissione o esclusione di affinità con le altre forze politiche, non solo italiane. Qualche esempio: «Non v’è dubbio che il movimento degaullista in Francia sia più vicino ai motivi politici e sociali del Partito d’Azione che non alla visione classista, marxista e socialista di Pietro Nenni e delle correnti socialiste»; «Il Partito democratico cristiano nella sua corrente di sinistra modernamente democratica potrà essere uno dei grandi partiti che sosterranno la democrazia in Italia; potrà avere una visione politica e sociale dei problemi molto vicina a quella che il Partito d’Azione, sul terreno laico, ha oggi in Italia»; «Col Partito Repubblicano il Partito d’Azione avrebbe assoluta affinità di scopi se il Partito Repubblicano facesse sua una visione più moderna dei problemi dell’economia e della vita sociale».
Evidentemente, Emilio Lussu deve tener conto delle affermazioni di Ugo La Malfa. La volontà di farsi sarto per ricucire sull’abito del partito gli strappi più vistosi è forte e convinta. Ma ha ovviamente dei limiti: cucendo da una parte c’è il rischio di fare nuovi strappi dall’altra. E lui, comunque, alle sue idee non vuol certo rinunciare. Se ne erano dovuti convincere, su un altro versante, anche i sardisti, negli incontri con il leader rientrato nell’Isola, dopo diciassette anni, proprio qualche mese prima, a luglio (da meno di un mese, in una Roma appena liberata, Lussu ha potuto sposare Joyce; da un palo di settimane è padre di Giuannicu). Per il “cavaliere dei Rossomori” tanti bagni di folla, tanti riscontri di un carisma ancora forte. Eppure, non fa alcuna concessione opportunistica. Tra gli altri, discorso a Radio Sardegna il primo luglio, comizio da un balcone del largo Carlo Felice a Cagliari il 2, e a Carbonia il 7: parole forti e appassionate sul riscatto dell’Isola e sull’autonomia; però sull’indipendentismo e sul separatismo pollice verso («Il partito si mostrò deluso di me – scriverà lui stesso – ed io fui molto deluso del partito: il Partito Sardo d’Azione era diventato separatista… i tre quarti del partito erano separatisti. Quanta confusione e quanta decadenza! Nel mio discorso di Nuoro impegnai tutto il mio prestigio contro il separatismo perché avevo vergogna del separatismo e del partito diventato separatista». E Mario Brigaglia, con una significativa pennellata: «Al ritorno di Lussu in Sardegna, Mastino ed altri capi sardisti inorridirono sentendosi chiamare compagni». Per la confluenza degli azionisti sardi nel Partito Sardo d’Azione, e per il patto federativo tra Partito d’Azione e Partito Sardo d’Azione, deliberati a Macomer in quello stesso luglio, le basi, insomma, non erano delle più limpide e promettenti. Scriverà Giuseppe Fiori: «Le incomprensioni si stratificano. Lussu ha rispetto per l’onestà dei dirigenti e di gran parte dei quadri del Partito Sardo d’A zione, ma non li stima e non riesce a nasconderlo… Un paradosso… è che nel Partito d’Azione la linea socialista di Lussu riesce a prevalere sulla corrente liberaldemocratica di Parri-La Malfa essenzialmente per il grande peso che gli deriva dalla rappresentanza d’un partito di largo seguito qual è il PSd’Az., dove peraltro la linea socialista di Lussu è minoritaria»).
In avvio di discorso, Lussu dà l’impressione di raccogliere e prolungare l’eco delle affermazioni di La Malfa. A qualcuno, addirittura, sembra aver ragione l’americano Charles Delzeil che ha chiamato i due “Mogols, mandarini, del Partito d’Azione a Roma”. Certo, Lussu mette le mani avanti: «Tutti i partiti hanno bisogno di chiarificazione; molte incertezze esistono in ciascun partito. Io credo che la situazione oggi sia tale che in nessun partito un dirigente, per quanto autorevole sia, possa parlare in modo tale da esprimere un pensiero politico che corrisponda al pensiero di ciascun iscritto. E quello che avviene in tutti gli altri partiti, a maggior ragione avviene nel nostro che esce dal dizionario delle formazioni politiche italiane tradizionali». Poi, subito dopo, un’affermazione in sintonia con La Malfa e la sua «linea di rottura con tutto quello che è da demolire del passato»: «Il Partito d’Azione fu costituito da tutti noi che sentivamo che il fascismo non era piovuto dalle stelle, ma veniva dalla insufficienza politica della democrazia italiana di allora, dalla insufficienza dei partiti tradizionali, e che quindi questi non potevano avere in sé la capacità di risolvere la profonda crisi creata dal fascismo… Per il loro contenuto ideologico, per certi loro orientamenti politici, questi partiti tradizionali, riorganizzati attraverso lo sforzo di volontà dei dirigenti che in questi vent’anni non hanno mai piegato al fascismo, sono oggi, malgrado i loro sforzi, la continuazione di quello che erano venticinque anni fa. Malgrado le cure, essi conservano inevitabilmente le tare ataviche: i figli perpetuano i padri».
L’oratore affronta quindi il nodo delle divisioni interne. E subito mette mano ad ago e filo per il difficile ruolo di “sarto degli strappi” che si è attribuito («Ero talmente deciso – racconterà – a non creare sconvolgimenti interni, anche per non portare nessun disturbo alla soluzione repubblicana e alle elezioni per l’assemblea costituente, che non feci pesare mai la mia posizione di segretario del partito»): «Si dice che dal congresso di Cosenza sia uscita una destra e una sinistra. Questo è certo. Ma intanto ne è uscita una destra e una sinistra in quanto vi sono entrate… Ma così fatte che, per adoperare l’espressione antitetica ad ambidestra, il partito potrebbe benissimo definirsi ambisinistro. Perciò nel nostro partito esiste un’unità interiore seria più di quanto non gli estranei ma noi stessi possiamo immaginare».
Il passaggio suscita forti applausi. Lussu può ritenersi incoraggiato a far calare sulla platea la “voce socialista” del partito, diversa e lontana da quella “borghese” della minoranza, da quella di Ugo La Malfa. Il richiamo all’ “unità interiore” ha fatto presa come atto di fede e come necessità per andare avanti. Almeno una parte della platea non sembra avvertire quello che l’oratore certamente sente: che l’unità più che una constatazione è una speranza, più che una convinzione un auspicio. Nel partito la realtà del momento – e non solo per le distanze fra maggioranza e minoranza; forse già per quel profondo malessere che di lì a qualche tempo sfocerà nell’ “operazione ali spuntate” – è diversa.
Lussu, comunque, ritiene di aver offerto all’unità ogni possibile contributo. Ora deve spiegare ciò che pensa. Così prosegue: «C’è una forte corrente socialista nel nostro partito. È la posizione nettamente anticapitalistica e antiborghese del nostro partito. La ragione è da ricercarsi nella stessa composizione sociale del partito. Esso non è fatto solo di intellettuali, ma di operai, di artigiani, di contadini. La ragione è nella formazione dei suoi primi gruppi originari, cui affluirono repubblicani, socialisti, democratici, radicali e liberali rivoluzionari. I socialisti, sia pure criticando profondamente il marxismo, sono rimasti socialisti. Liberali e democratici di sinistra hanno fatto la stessa evoluzione. I provenienti dal movimento in Sardegna, per quanto non si definissero tali, erano dei socialisti. I repubblicani erano e sono, in sostanza, un movimento originale di democrazia socialista. “Giustizia e Libertà” era un movimento socialista non marxista. E poi vi è stato il movimento socialista liberale… Il socialismo marxista è stato sopraffatto in tutta Europa dal fascismo, ma il socialismo rinasce più vivo in altra forma. E che la critica alla società fascista porta irresistibilmente alla libertà, ma anche al socialismo… È che la civiltà moderna va verso il socialismo».
Se quella dell’unità era una strada indicata, a questo punto del discorso Lussu ha già imboccato un possibile bivio. Ed è percorso che La Malfa e quanti sono d’accordo con lui non possono pensare di seguire. Ed ancor meno quando il leader sardo-azionista lo precisa ulteriormente: «Quando in un paese come la Russia si è realizzato il socialismo chi potrà mai impedire che questa suggestiva aspirazione verso il socialismo, sia pure in nuove esperienze e in nuove forme, arrivi agli altri paesi d’Europa? Questo titanico esperimento, che non ha fallito, ma trionfato, malgrado l’avversione dei reazionari d’ogni paese, parla con la suggestione delle grandi realizzazioni storiche alla fantasia non solo dei proletari ma di gran parte dei lavoratori tutti, dei tecnici, degli intellettuali e di quanti altri sono assetati cli vita moderna».
Ancora applausi per Lussu. Il dissenso, in quella sala, è fatto di silenzi che non si notano. A buona parte della platea quelle parole che sanno di “vento del nord” piacciono. E l’oratore ne accentua il significato: «È il socialismo un prodotto della civiltà europea, non tanto tecnico o scientifico, ma spirituale ed etico». E il pubblico ancora lo applaude, in questo e nei passaggi successivi di un discorso, lungo e denso, che affronta con lucida analisi quasi tutti gli aspetti d’attualità e quelli di prospettiva. Forse pochi, in quel momento e in quel locale affollato e rimbombante d’ovazioni per il leader, pensano che nel discorso di Lussu può intravvedersi il futuro incerto del Partito d’Azione; che anche nelle tesi di Lussu, come in quelle di La Malfa e di altri valorosi azionisti, può leggersi, almeno nel controluce della loro inconciliabilità, il tormentato segreto di un partito dal corto destino.
I “mali oscuri” del Partito d’Azione
(da “Bastianina, il sardoAzionismo / Saba, Berlinguer e Mastino”, Cagliari 1991)
A quarantacinque anni di distanza forse non è lecito – o è addirittura inutile e sciocco – chiedersi quale sarebbe oggi il panorama politico italiano se il Partito d’Azione fosse stato veramente, e come tale si fosse affermato, quel «grande partito della democrazia laica» ipotizzato o forse soltanto sognato ad esempio da Giuliano Pischel nel 1945: un partito senza pregiudiziali confessionali o classiste e senza spirito settario, un partito forte di un antidogmatismo dottrinario, di un realismo progressista, (un un umanesimo morale e sociale, di un intrinseco liberalismo critico.
E che Italia sarebbe stata quella attuale se un partito come questo l’avesse governata per oltre quattro decenni o avesse comunque svolto un ruolo primario e determinante nel governarla? Se cioè si fosse avverata, come sperava Ugo La Malfa, «la repubblica democratica gestita da forze progressiste, con il Partito d’Azione nerbo principale se non forza politica maggioritaria»?
Quesiti accademici e risposte impossibili, almeno per chi non fa mestiere di storico o di politologo. E risposte impossibili per molte ragioni. A cominciare dalla scarsa aderenza alla realtà della visione ottimistica di Pischel. Una visione, appunto, clamorosamente smentita dai fatti nello stesso momento in cui veniva proposta e più ancora da quelli verificatisi, in serrata sequenza, nel corso del 1945 e sino ai giorni del febbraio 1946 quando il congresso nel romano Teatro Italia fu, in pratica, «l’atto notarile, la registrazione della fine di una stagione politica e del Partito d’Azione, suo più fervente sostenitore».
Una sequenza eccezionale sul palcoscenico politico. Per parlare soltanto dei governi, quello di Bonomi (il secondo, vissuto sei mesi), quello di Parri (dal 21 giugno al 10 dicembre) e il primo della serie degasperiana (e democristiana) con tutto ciò che significavano sul piano politico, in termini contingenti e di prospettiva, soprattutto per l’affermarsi delle linee strategiche dei comunisti e dei democristiani e con il dissenso sul ruolo del CLN e sull’ipotesi di un fronte democratico, considerati invece dal Partito d’Azione come fondamentali obiettivi della propria politica (la “svolta di Togliatti”, in particolare, si rivelò «un vero e proprio trauma all’interno del partito» soprattutto al nord, a Torino e Milano).
Così, appare più realistica l’immagine del Partito d’Azione «vaso di coccio tra i vasi di ferro democristiano e comunista»: perché le sue capacità di guida politica, la sua aggregante novità, la sua forza propositiva erano state già in gran parte vanificate e mortificate – oltre che dalle esterne opposizioni – dalle interne contraddizioni, dalle continue lacerazioni, insomma dai “mali oscuri” che le diatribe sui “punti programmatici”, la spaccatura ideologica di Cosenza, le divergenti valutazioni sui governi Bonomi, Parri e De Gasperi avevano messo in evidenza.
Persino la presidenza del Consiglio a Ferruccio Parri – che poneva gli azionisti al centro della più autorevole ribalta nazionale e avrebbe dovuto dar loro la gratificazione e lo stimolo di un importante successo – non fu sottratta ai debilitanti veleni delle polemiche. Sono sufficienti due richiami. La Malfa si era opposto già in fase di trattative ritenendo «il partito troppo esiguo per l’assunzione dl tale onere». Alberto Bertolino qualche anno dopo, di un’identica convinzione proponeva questa lucida sintesi: «Fu un esperimento sbagliato, che ebbe conseguenze assai dannose per il partito, nel suo interno e nella sua posizione rispetto al Paese: allontanò alcuni dei migliori dall’opera di organizzazione del partito per bruciarli in posti di amministrazione governativa; e affievolì la simpatia al partito di molti amici che si aspettavano dall’esperimento governativo degli azionisti un ardito rinnovamento dello Stato. Il governo Parri fu, invece, un governo di saggia amministrazione, un esempio di perfetta, direi quasi insolente, onestà, un’azione di arbitrato fra partiti diversi: fu insomma un non-governo politico».
I “mali oscuri” del Partito d’Azione, dunque. Quei “mali” che di lì a poco tempo, e malgrado le terapie di volta in volta inventate da medici generosi, avrebbero provocato – cause di un’agonia più o meno avvertita – una frattura ancora più grave e drammatica e quindi, ovviamente anche per il concorso determinante di altre circostanze, la morte del partito: la difformità di matrici ideologiche; il diverso bagaglio di esperienze politiche di vita e di lotta; i contrastanti riferimenti geografico-culturali; le divergenti analisi del presente e del futuro; la varietà dei temperamenti dei suoi uomini di vertice, insomma le inconciliabili identità delle tante anime e la ragione profonda del loro agitarsi, confrontarsi, unirsi, scontrarsi in un continuo defatigante valzer di incomprensioni, insoddisfazioni, convergenze, alleanze, fratture, inimicizie, persino ripicche e risentimenti personali.
Anime liberali socialiste liberalsocialiste mazziniane. E non solo queste dietro contingenti e fragili paravento di unità, per cento distinguo, per mille sfumature, per infinite sfaccettature. Insomma, il “momento felice”, annotato da Guido Calogero alla fine del 1944, proprio nel 1945 si andava spegnendo. Dal 1942 il Partito d’Azione era stato veramente «il principale artefice della politica italiana». Il suo contributo eccezionale di uomini alla lotta partigiana (con figure emblematiche come Ferruccio “Maurizio” Parri), il porsi come simbolo di rinnovamento democratico della vita del Paese, la sua verginità rispetto al passato, il suo presentarsi in termini di critica allo stesso Stato liberale prefascista, le incertezze dei tradizionali partiti ancora condizionati (ma per poco) dalla contraddizione fra il “peccato originale” dell’incontrastato avvento del fascismo e i contributi alla lotta di liberazione, ma soprattutto le capacità politiche di molti suoi dirigenti ne avevano fatto il partito leader nella lotta al fascismo ed alla monarchia con una funzione di rilievo nell’ambito del CLN. Un CLN che il Partito d’Azione o meglio alcuni suoi uomini-guida ancora nel 1945 e malgrado i vistosi segnali di isolamento, vedevano come «quadro istituzionale da potenziare e attraverso il quale realizzare il passaggio dal vecchio Stato liberal-fascista al nuovo Stato democratico». Un CLN, insomma, da considerare «presidio della nascente democrazia italiana, come garanzia dell’unità dei partiti democratici contro il permanente pericolo della reazione, come il mezzo più adatto a sostenere e stimolare il governo».
Perché, allora, quel progressivo scivolare verso la scomparsa? Per molte cause, naturalmente. Non soltanto l’esito finale di un lento suicidio. Anche altri colpi mortali. Anche cause esterne, cioè. Quelle cause che altri partiti hanno legittimamente definito, nella loro storia, «operazioni di strategia o tattica politica tese alla eliminazione di un avversario».
Nel 1945, ad esempio, molti azionisti (anche i socialisti, del resto) oltre ad insistere nel puntare sul CLN come «elemento nuovo e definitiva rottura con il passato» consideravano ancora un obiettivo strategico l’aggregazione, su una piattaforma unitaria delle forze democratiche omogenee», cioè la costituzione di un «fronte che costituisse l’asse politico del nuovo Stato repubblicano». Comprensibile che su questo disegno politico non si riconoscessero le forze moderate (e quelle monarchiche) e che quindi lo osteggiassero. Di più complessa decifrabilità il no di altri partiti. Comunque, un’avversione variamente motivata ma obiettivamente convergente di forze moderate e di una forza, quella comunista, che parlava dalla parte opposta. Togliatti – secondo un’accettabile interpretazione – voleva legittimare il PCI «agli occhi di tutti – Paesi alleati e monarchia compresi –, come un partito “nazionale”; non voleva soprattutto che il PCI si ritrovasse con «un ruolo subalterno o comunque da semplice comprimario all’interno di un ampio fronte di forze democratiche». Togliatti era convinto anche, in lunga prospettiva, che «sarebbe stato più comodo collocarsi all’opposizione o comunque a sinistra di un regime moderato». Per questo non gli andava proprio di navigare sulla “barca CLN” assieme alle «forze democratiche omogenee» di un eventuale fronte.
La Democrazia Cristiana, dal canto suo, come espressione significativa del fronte moderato, liquidava – o ci provava, ma i fatti le avrebbero dato poi ragione – «ogni richiamo ciellenistico riproponendo la supremazia istituzionale dell’inquilino del Quirinale». Ed alla svolta del primo governo De Gasperi, sul finire del 1945, allungava una mano ai socialcomunisti. Era la mano dell’esordiente Giulio Andreotti: «Esiste una solidarietà in atto fra tutti I poveri che deve legare i partiti cosiddetti di massa in modo ben più saldo che non un patto di unione politica».
Partito d’Azione vaso di coccio, appunto, fra vasi di ferro. Anche le prese di posizione e le iniziative concrete di comunisti e democristiani furono quindi spallate durissime per l’instabile equilibrio interno del Partito d’Azione e per il suo ruolo e la sua immagine sulla scena politica nazionale: perché furono giustamente lette come sconfitte e perché alimentarono altri contrasti e altre lacerazioni.
Insomma, il “male” delle polemiche non più acuto ma cronico, certo lucidamente diagnosticato ed anche curato ma in pratica, nei fatti, incurabile. L’essere una formazione politica nuova: senza una precisa tradizione di partito – è stato acutamente osservato – creava in molti azionisti quasi un complesso di inferiorità al quale reagivano impegnandosi in una serrata, complessa, quotidiana definizione ideologica. Una «vera e propria ossessione», secondo Adolfo Omodeo (che peraltro, dal canto suo, portava il contributo polemico del «mazzinianesimo rinnovato nel quale non vi è nulla di socialistico»). Un «terreno di esercitazione – secondo altri – certo molto congeniale alla schiera di professori e intellettuali che costituivano l’ossatura del partito ma che non teneva minimamente conto che necessità primaria era non una filosofia della vita ma l’azione politica quotidiana, il confronto con i mutevoli atteggiamenti delle altre forze politiche, la mediazione e il compromesso, se si volevano ottenere risultati politici».
Insomma, al calar del 1945 ed alla vigilia del congresso di Roma, le premesse del tonfo finale: la scissione e la diaspora, poi l’amaro insuccesso alle elezioni per la Costituente (soltanto nove deputati, sette nel collegio nazionale e due – Lussu e Pietro Mastino – per il Partito Sardo d’Azione, con Ferruccio Parri ed Ugo La Malfa eletti in rappresentanza di un’improvvisata formazione di democrazia repubblicana che non sopravvisse alla consultazione). Infine la dissoluzione. «Il Partito d’Azione – scriverà Emilio Lussu in un’opera pubblicata dall’editore Mursia nel 1968 – va considerato finito al congresso di Roma. Ma, si può aggiungere, finito anche senza scissione. Con esso è finito anche lo slancio della Resistenza, ed è finito il suo CLN, è finito il periodo storico delle speranze e delle illusioni di tutta un’epoca… La scissione era presto o tardi inevitabile. Un movimento interclassista, anche se di sinistra, è portato dalle contraddizioni interne che lo lacerano alla scissione, in Italia e altrove. Solo una fede religiosa può legare gli associati di un partito interclassista più lungamente, ma non per sempre. Tuttavia, la scissione non si sarebbe avuta se quelli che l’avevano provocata fossero stati di maggiore esperienza politica».
C’è da chiedersi il perché di questo destino. E magari cercare le risposte non nelle analisi e negli studi che gli ultimi quarant’anni hanno doverosamente riservato al Partito d’Azione. Alla fonte, piuttosto. Per esempio, nei discorsi che Emilio Lussu ed Ugo La Malfa, ancora protagonisti, ancora antagonisti, pronunciarono nel febbraio 1946 a Roma, nell’incandescente atmosfera del congresso al Teatro Italia, consapevoli di essere le “ali da spuntare” (Lussu: «L’eliminazione dalla direzione del rappresentante della maggioranza socialista e del rappresentante della minoranza definita della borghesia era un segreto di vertice ma un segreto all’italiana»).
Emilio Lussu – dichiaratamente dissociandosi dai punti principali della relazione di Vittorio Foa («Non posso non dissociare la mia posizione da quella dei compagni della segreteria politica ai quali stanno attorno altri amici che io considero di destra») – pose ai congressisti il drammatico interrogativo sin dalle prime battute dell’intervento: «Come mai un partito che ha posto il problema dell’antifascismo e della democrazia in Italia e in Europa, come mai un partito che ha avuto il movimento di “Giustizia e Libertà”, che ha avuto i suoi partigiani in Spagna e nella lotta clandestina, come mal un partito che ha dato alla causa della liberazione 50.000 uomini con circa 4.500 morti, come mai questo partito che ha espresso tanta forza di azione non è il grande partito politico che dovrebbe essere?».
Poi, nell’intima, sofferta convinzione di una fine dietro l’angolo, la ricerca delle risposte nella ricostruzione dei diciassette mesi trascorsi tra I due congressi. Con i toni e gli accenti appassionati propri dell’uomo, un intervento tutto giocato (malgrado l’appello alla «indispensabile unità prima delle battaglie che seguiranno, che sono battaglie storiche») su una coerente ma proprio per questo lacerante difesa delle posizioni assunte a Cosenza e dopo quel tormentato congresso: «VI è una parte, una grande parte del Congresso dl Cosenza che è qui anche oggi, la quale non accetterà mai che il Partito d’Azione diventi partito della borghesia, sia pure della media borghesia estremamente morale e progressista. E su questo problema non si frapponga nessuna autorità perché si tratta di un problema cli coscienza». E, tanto per farsi capire, garbata ma pungente digressione dedicata a Mario Berlinguer: «Caro amico e compagno, tu ci hai parlato un dolce linguaggio simpatico sotto tutti i punti di vista ma non politico. Con quello spirito sentimentale certamente encomiabile si possono compiere matrimoni e fare testamenti, ma non risolvere i problemi politici».
Quindi, il dopo-Cosenza: «Abbiamo fatto la politica dei blocchi, abbiamo fatto la politica di sbloccamento ma ogni volta che si è presa una posizione politica si sono avuti i socialisti e i comunisti da una parte e dall’altra sempre la Democrazia del Lavoro, i liberali e la Democrazia cristiana». Insomma, l’accusa o quanto meno l’indicazione di un fallimento dal quale prendere le distanze: «Al congresso di Cosenza io ho portato, come io porto qui, lo spirito di “Giustizia e Libertà”, lo spirito dell’azione, lo spirito della critica e del pensiero. Soprattutto la cura morale che deve influenzare la vita politica e senza la quale si cade nei compromessi. Per un uomo come me si potrebbe concludere col dire: il mio dovere l’ho fatto, chiudo serenamente la mia giornata come operaio che ha compiuto il suo dovere onestamente. Spetta agli altri continuare il compito».
Lussu introduce poi un richiamo diretto alle polemiche interne ed in particolare a quelle fra Roma e il nord Italia: «E vero che gli amici del nord hanno fatto grandi cose e noi abbiamo fatto cose modeste. Tuttavia rimarrà nella storia politica del nostro Paese che i suonatori di mandolino, i contemplatori di astronomia del Sud e del centro hanno fatto un’azione politica estremamente seria per lo sviluppo della democrazia italiana… Io affermo che se non ci fosse stata la nostra direzione politica quel groviglio di matasse di acciaio della corruzione italiana avrebbe portato il Paese ad una situazione drammatica. Noi spezzammo quel filo».
Una concessione non del tutto ingiustificata all’orgoglio di parte. Ma riaffermazione, neppure tanto indiretta, di una delle spaccature del partito. Come quella, subito dopo, delle lacerazioni provocate dalle decisioni relative ai governi del dopo-Badoglio ed in particolare alla presidenza Parri: «Per un uomo politico appare evidente che non era Parri il presidente del Consiglio. Egli era messo lì arbitro, ma in fondo non era espressione di forze politiche. E così, quando le forze politiche hanno creduto di farlo, Ferruccio Parri se n’è andato». E ancora: «Vi sono parecchi tra voi per i quali uscire dal governo in qualsiasi momento è come andare a nozze. Però permettetemi di farvi osservare che ci sono anche delle nozze con i fichi secchi».
Un altro passaggio del discorso che smentisce la dichiarata volontà unitaria. Tema: il Partito d’Azione forza classista o aclassista. Bersaglio diretto: Altiero Spinelli ed i suoi amici. «Che cosa significa – grida Lussu richiamando in particolare le affermazioni di Michele Cifarelli – l’aclassismo? Un partito aclassista non è che un partito eunuco. Non c’è al mondo un partito che sia aclassista. Tutti i partiti sono classisti… La denominazione politica è soltanto una forma esteriore, è una definizione letteraria. Il marxismo ha insegnato a tutti, anche agli antimarxisti, che un partito rappresenta prevalentemente interessi, interessi, interessi».
Quindi una bordata per Carlo Levi: «Non presenta ideologie, ma facoltà creative. Ebbene questo è il grosso pericolo, poiché sono i partiti di destra, anche se progressisti, che si formano con questa mentalità».
Altro che mano tesa all’unità! Ma a Lussu gli uomini interessano relativamente. Ad infiammarlo è la difesa delle proprie convinzioni. E attacca con foga: «Che cosa significa – esplode strappando l’applauso – questo sprezzo dell’ideologia? Ciò mi fa paura. Sappiamo dove vanno i partiti che non vogliono saperne di ideologia. Dove mai è esistito un grande movimento politico storico che si sia affermato cambiando la storia del suo paese e segnando una pietra miliare nella civiltà del mondo e che non abbia espresso una Ideologia?».
Dopo aver ricordato come e perché non era riuscito nel tentativo insurrezionale in Sardegna («Vi erano immense forze morali e avrei potuto tentare la rivoluzione contro i fascisti se gli avvenimenti politici mi fossero stati favorevoli») Emilio Lussu con richiami che più che un sapore profetico rivelano la piena consapevolezza della situazione – ammonisce il congresso: «Dove è andato a finire in Inghilterra il partito liberale? E scomparso quasi completamente. E in Francia, la grande forza dei partito radicale, arbitro della Terza Repubblica, dove è andata a finire? Pochissimi uomini si sparpagliano tutti e vanno a destra o a sinistra; quelli poveri a sinistra e quelli meno poveri a destra».
Quando affronta il nodo della struttura del nuovo Stato democratico, nel discorso dl Lussu c’è anche l’eco delle istanze autonomistiche della Sardegna («Ho giurato di portare la Sardegna all’autonomia. Ve la porterò. Io credo che non si possa disconoscere il diritto ad avere un’autonomia che deve avvicinarsi, al massimo possibile, alla struttura federale»). «La trasformazione dello Stato burocratico e dispotico – afferma con forza – diventa un principio religioso. Per me è una questione simile a quella della Santissima Trinità per un cattolico. Questa forma dello Stato centralizzato deve essere sfasciata, è la premessa della democrazia italiana. Se Il partito non facesse suo questo principio con grande dolore abbandonerei ogni posto di responsabilità nel partito e il giorno dopo mi dimetterei dal governo».
Infine, come a riassumere il senso sostanziale del discorso, un’ultima dichiarazione di schieramento: «Mi sono accorto che la parola socialismo dà ad alcuni di voi scandalo. Tuttavia la democrazia moderna se non è socialista non è democrazia. Ma dev’essere il socialismo come noi l’intendiamo. La concezione politica della trasformazione del socialismo tradizionale l’abbiamo portata noi molti anni fa. E la frantumazione del totalitarismo che è sempre lo stesso sia nel classismo comunista sia nel classismo socialista».
Emilio Lussu, dunque, saldamente, coerentemente sulle proprie posizioni e per niente disposto, nella sostanza, ad arretramenti, concessioni, compromessi. Esattamente come Ugo La Malfa. Con una differenza: che La Malfa gioca le sue carte congressuali – tutte, o quasi – contro Lussu.
C’è un’ampia e approfondita analisi dell’articolata società italiana, e non solo italiana, nell’avvio del discorso lamalfiano. Poi, una ricostruzione della “storia” del partito, delle sue prese di posizione sui governi (e su quello di Ferruccio Parri in particolare), sulle prospettive immediate o di breve periodo (Costituente ed elezioni amministrative), sui rapporti con gli altri partiti.
Quindi, senza girare attorno al bersaglio, le armi della polemica puntate contro Lussu: «Prima del congresso di Firenze io non lo conoscevo, direi che conoscevo vagamente o non conoscevo esattamente la sua posizione politica. Io pensavo, entrando nel Partito d’Azione, che il movimento di “Giustizia e Libertà” non fosse un movimento socialista: ho invece appreso da Emilio Lussu che all’estero era diventato un movimento socialista. Da questa posizione politica che Lussu presentò al Partito d’Azione nacque la prima situazione critica del partito. Ebbi l’impressione che Emilio Lussu portasse nel partito – così come era nata in Italia – l’esigenza di un altro partito. La esigenza socialista e il movimento socialista che Lussu porta con “Giustizia e Libertà” sono un terzo partito socialista. Emilio Lussu parla di operai e di contadini, parla di Fiat e di Montecatini, così come ne parlano i partiti socialista e comunista. Cioè Emilio Lussu vuole trarre dalle stesse fonti le forze politiche per un terzo partito. Rendo qui omaggio alla nobiltà degli ideali di Emilio Lussu e alla sua passione per il mondo che egli vuole interpretato dal Partito d’Azione. Rendo omaggio all’esperienza che lui ha avuto in Sardegna, ma devo dire altresì che egli non può realizzare questo mondo, così come lo concepisce, nel Partito d’Azione».
Un attacco tanto chiaro quanto duro. Polemica, insomma, fuori dai denti. Di apprezzabile chiarezza: «La lotta che Lussu ha condotto per fare del Partito d’Azione un terzo partito socialista è stata una lotta eroica, ma è stata una lotta contro la realtà. Non si può fare un terzo partito socialista del Partito d’Azione su nessun terreno. Quando Emilio Lussu ha posto l’esigenza di un diverso partito, nel partito si è creato un grave problema, il problema che il congresso di Cosenza ha illuminato in tutta la sua gravità e cioè se in quel momento si doveva fare del Partito d Azione due partiti. Ma due partiti non possono coesistere nello stesso partito: non si tratta e non si è mai trattato di destra o di sinistra, mai si è trattato di questo o quel partito. La coerenza politica della posizione dl Lussu sta in questo: che quando egli fosse riuscito a fare del Partito d’Azione un partito socialista egli avrebbe offerto queste forze al partito socialista, avrebbe cioè rafforzato il partito socialista».
Ugo La Malfa non tocca di fioretto o di spada. Va giù a colpi d’ascia: «Emilio Lussu mi ha confessato che egli si aspettava e sognava una rivoluzione in Italia. Ed egli ha inteso per rivoluzione in Italia un fatto violento». Infine, dopo una serrata polemica praticamente a 360 gradi (e in particolare sulla collaborazione con De Gasperi e la Democrazia Cristiana, su Parri alla presidenza della Repubblica o a capo del partito), la conclusione del lungo, teso discorso.
Onore delle armi per l’avversario: ma armi scagliate lontano, subito dopo, in un gesto di amara dignità: «Mi sono trovato nella dolorosa necessità di contrastare con la posizione politica di Emilio Lussu e di contrastare con lui su problemi politici immediati che interessano tutti coloro che partecipano al partito. Considero questo una dolorosa necessità perché sento tutta l’essenza e la capacità di combattente politico di Emilio Lussu. Io mi inchino davanti alla sua forza di combattente anche se non condivido le sue idee e le ritengo sbagliate. Questa funzione si può considerare, per quanto mi riguarda, esaurita. Rispetto a quelle che sono le posizioni del partito, la mia posizione è terminata. Il partito a questo punto deve prendere le sue responsabilità ed io, che vedo il Partito d’Azione in una certa sede politica, vedo con piacere un’evoluzione che non è verso destra ma verso una posizione politica esatta. Questo è il vero risultato del travaglio politico del partito».
Subito e nei mesi successivi il risultato del travaglio politico del Partito d’Azione non fu quello indicato da La Malfa al congresso romano. Anche sulla spinta negativa dell’insuccesso elettorale, le tante anime del partito scelsero di andare ad agitarsi, confrontarsi, unirsi, scontrarsi da altre parti. E poco dopo la diaspora, per il piccolo movimento politico così ricco di uomini generosi, di energie intellettuali, di fermenti innovatori, di carica morale, venne lo scioglimento. Fisicamente, almeno: con coerenza e rigore alcuni dei suoi uomini migliori hanno in realtà continuato, nei partiti e fuori dei partiti, a pensare ed agire da azionisti.
Quegli avvocati con l’hobby del giornalismo
(da “Titino Melis, il PSd’A mazziniano / Fancello, Siglienti, i gielle”, Cagliari 1992)
Emilio Lussu la buttava giù pesante, però non aveva tutti i torti. Dura polemica a parte, cioè, ad un certo punto della sua storia – e in fin dei conti non soltanto in quel punto – il Partito Sardo d’Azione ha avuto per dirigenti quasi esclusivamente avvocati. E veramente, per riprendere la maliziosa e provocatoria battuta di Lussu, avrebbe potuto «comodamente tenere le sue riunioni in una sala del palazzo di Giustizia». In una sala – avrebbe dovuto aggiungere Lussu – del Palazzo di Giustizia di Nuoro o di Sassari. Magari, forzando un po’ la situazione, di Oristano. Ma non di quello cagliaritano: certo palcoscenico di tanti trionfi professionali ma in fondo estraneo all’ambiente di nascita e di vita della maggior parte dei componenti quella pattuglia di valorosi avvocati e prestigiosi leader sardisti.
Nella sua sortita (tesa a denunciare quella che secondo lui era la perdita di identità del partito) Emilio Lussu ce l’aveva, in particolare, con Pietro Mastino, Luigi Oggiano, Sebastiano Puligheddu, Gonario Pinna, Piero Soggiu, Anselmo Contu e «la famiglia Melis che da sola vale quattro buoni avvocati». Ma, evidentemente, altri ne sottintendeva quando gridava che «il vecchio Partito Sardo d’Azione è un partito di clientele attorno ad avvocati onesti e celebri, professionalmente valorosi». Perché considerava il grande seguito di questi personaggi – ma era giudizio politico oppure critica contingente? – soltanto una conseguenza dei successi forensi.
Lussu, per dar corpo alla sua polemica, partiva da una constatazione obiettivamente esatta. Era però del tutto soggettiva, e sbagliata, l’interpretazione che ne ricavava. Il prestigio di quegli avvocati non si fondava infatti soltanto sulle loro doti strettamente professionali certamente fuori discussione («… la clientela dell’onorevole Pietro Mastino a Nuoro: 5.000 assoluzioni in Corte d’Assise in quarant’anni di professione lo farebbero riuscire deputato anche da solo»). Molte erano le ragioni – umane, culturali e politiche – del vasto consenso popolare goduto dai personaggi che Emilio Lussu attaccava, pur stimandoli e rispettandoli. Tutti o quasi tutti, per esempio, erano anche dei buoni pubblicisti. Cioè, non soltanto erano robusti, ascoltati oratori (nelle aule di giustizia e altrove) ma, in complesso, anche giornalisti di apprezzabile livello. Le idee, insomma, sapevano farle camminare pure con la penna.
Anche se non è del tutto lecito, i loro scritti si possono forse rileggere oggi in questa chiave particolare: la curiosità di accertare specifiche capacità nel comunicare, nello stabilire un effettivo ed efficace rapporto con i lettori e, quindi, con i seguaci politicamente già conquistati o da conquistare. Una sorta di esercitazione accademica con molti e dichiarati limiti obiettivi (da sommarsi a quelli di chi scrive).
La “ricerca”, intanto, è relativa ai soli Antonio Bua, Anselmo Contu, Luigi Oggiano, Luigi Battista Puggioni, Bartolomeo Sotgiu e Piero Soggiu (qui richiamati in ordine alfabetico con la sola anteposizione di Sotgiu a Soggiu, a motivo della maggiore anzianità del sassarese, che fu con Puggioni il rifondatore del “Solco” e suo redattore-capo nel 1945, mentre la presenza dell’esponente di Oristano si farà più assidua negli anni successivi alla scissione del 1948, anche come “voce radiofonica” del Partito Sardo d’Azione). Di ciascuno di questi personaggi si prendono in considerazione una media di cinque o sei scritti (complessivamente, quindi, poco meno di una quarantina di articoli o brevi saggi): pochi per una valutazione veramente fondata, ma forse sufficienti per estrarne un’indicazione sul “valore giornalistico” di quegli avvocati con clientele così vaste da fare imbufalire Emilio Lussu. Il tempo trascorso dalla pubblicazione – circa cinquant’anni – va ovviamente tenuto presente: anche se alcuni conservano una straordinaria attualità e freschezza, gli articoli – spesso lunghi, come s’usava – hanno nella data un forte condizionamento sostanziale e formale. E tuttavia alcuni anticipano il miglior stile giornalistico d’oggi.
L’ antologia consultata ha, con larga prevalenza, la sua fonte nel settimanale del Partito Sardo d’Azione, “il Solco”, anche se non sono mancate puntate su altre testate degli anni dell’immediato post-fascismo.
Vediamo, comunque. Una prima considerazione è giocata ancora sul fatto che Antonio Bua, Anselmo Contu, Luigi Oggiano, Luigi Battista Puggioni, Bartolomeo Sotgiu e Piero Soggiu sono avvocati: in diversa misura ma in pratica senza eccezioni i loro scritti risentono formalmente delle abitudini professionali. A cominciare dall’uso di un italiano medio-alto (ma senza diffuse “arroganze” da vocabolario d’élite) e dalla capacità, in genere, di sviluppare anche nelle polemiche politiche argomentazioni lucide ed efficaci. In tutti si avverte il rigore morale, anche quando illustrano programmi discutibili hanno l’evidente preoccupazione di rispettare la collettività. Si, talvolta accade che parlino fra di loro, ma quasi mai lo fanno sopra la testa delle masse, piccole o grandi che siano, alle quali intendono rivolgersi e con le quali intendono dialogare.
Non per tutti, ma quasi, la citazione colta, in latino o da autori classici, è poi una costante, un riflesso del bagaglio culturale e del quotidiano esercizio oratorio. Per gusto personale o d’epoca non mancano, qua e là, le concessioni alla retorica d’effetto (Anselmo Contu: «Noi sappiamo che cosa ci resterà da fare il giorno in cui un nuovo Cola di Rienzo tenterà di marciare sulle schiene prone degli schiavi continentali per ascendere – onusto di medaglie e di pennacchi – l’eterno Campidoglio e l’augusto Quirinale». Bartolomeo Sotgiu: «Poiché in Italia non vi potrà essere mai un governo capace di conciliare gli interessi della Sardegna – i veri interessi – con quelli del Nord, noi non saremo mai altri che il Partito Sardo d’Azione. Un blocco granitico di cuori fraterni contro il quale si infrangerà tutta la sozza canea che ora ci insulta e ci odia perché abbiamo detto alto e chiaro, non preoccupati di interessi elettoralistici o inconfessabili, quale fosse la via che il Popolo Sardo deve percorrere se vuol giungere a salvamento». Antonio Bua: «Se è vero e serio poter richiamare e far proprie le argomentazioni di un’altra persona, il sostenere l’utopia di una tesi, solo e in quanto da altri è stato, sic et simpliciter, asserito, è ricadere nel feticismo di nefanda memoria fascista». Luigi Battista Puggioni su Lussu appena uscito dal Partito Sardo d’Azione: «Emilio Lussu appare oggi come l’albatro di Baudelaire, il grande sovrano dei cieli azzurri che, abbattuto sulla terra, si muove maldestro e impacciato, trascinando pietosamente le vaste ali bianche»).
Fra le caratteristiche di rilievo metterei anche il coraggio. La pubblicistica – in generale e in particolare nell’attività di questi personaggi – riversava sulla pagina scritta temperamento, forza e rigore. Allora più di adesso. Non va dimenticato che sono uomini politici e che sono protagonisti in prima persona di idee, ansie, aspirazioni, ripulse, sentimenti finalmente portati in piena luce dopo la lunga stagione della libertà negata. Forse anche per questo poco o nulla di sotterraneo scorre normalmente nei loro scritti (Anselmo Contu: «Noi ci auguriamo che le umilianti ripulse consiglino a tutti la via della dignità e della fierezza: noi l’abbiamo indicata, con vigile senso di responsabilità politica, sicuri come siamo che l’ora della Sardegna – a dispetto delle conventicole occulte e palesi – sta per suonare». Luigi Battista Puggioni, in un articolo del novembre 1943 scritto per “L’Isola” a commento dell’estremo, tragico tentativo di Mussolini per mantenere in vita il regime fascista: «Mentre noi ci serriamo il cuore con le mani e stringiamo i denti per non scoppiare in singhiozzi e mantenere la nostra compostezza virile, lui, il grande miserabile, il buffone tragico, resta chiuso nel suo gelido egoismo e sogghigna con la possente mascella animalesca, pauroso e pavido fantasma insanguinato». Luigi Oggiano: «Dappertutto, nonostante il lamentato conformismo, è un sordo ribollire, ed è come se una voragine siasi aperta nel suolo patrio a dividere animi e interessi e ragioni di vita: da una parte i prediletti, dall’altra i reprobi. Si arriva ad affermare che le forze del lavoro devono riprendersi e organizzare dalle parrocchie e nelle parrocchie, come ad invitare anche in questo campo a praticare la intolleranza e la guerra di religione»).
I “pezzi” migliori, quelli che meglio si prestano ad essere retrodatati, cioè ad una lettura – dopo tanti anni – più coinvolta e interessata, sono gli articoli di confronto ravvicinato con una persona o un gruppo. Talvolta i toni sono, od appaiono, da vero e proprio scontro (Luigi Battista Puggioni, in un articolo del novembre 1945: «Siamo in regime democratico – così almeno si va dicendo – ed a ciascuno è lecito esporre liberamente le proprie elucubrazioni, ma, se fossimo in regime autoritario ed io avessi poteri da dittatore, non essendo di temperamento sanguinano, il meno che farei sarebbe di far appendere per i piedi per alcune ore tutti codesti imbecilli farneticanti». Ancora Puggioni in polemica con Renzo Laconi: «Il richiamo è fatto a sproposito e dimostra che il professor Laconi non ha compreso bene il pensiero di Carlo Marx»).
Quasi sempre sono confronti diretti, a bersaglio bene individuato, malgrado talvolta compaiano sulla scena, a tentare inutilmente di far da paravento, pseudonimi e sigle. Anche le polemiche interne al partito hanno in genere il supporto della vivacità formale. O magari quello della durezza (Piero Soggiu: «Il Partito Sardo ha saputo e potuto resistere più unito che mai all’uscita di vecchi compagni di lotta trentennale. Con grande dolore certamente; ma con fermezza ammirevole. Segno di maturità politica e di vitalità che ben a ragione ci può essere invidiata. Ne prendano atto tutti coloro che si apprestano, da anni ormai, a banchettare sulle spoglie del Partito Sardo d’Azione e che regolarmente restano delusi». Bartolomeo Sotgiu: «Può la Sardegna bastare a se stessa? Ecco una domanda che “circola” tranquillamente, ora abilmente lanciata da un “soliloquio” liberale, ora insinuata da avversari, ora diffusa da cretini: e circola come le famose frasi stentoree del duce, “Credere, obbedire, combattere” o “nudi alla meta”. Qui abbiamo un’affermazione, là un interrogativo ma è la stessa cosa: idiozie le une e le altre. Ora sarà bene che questi signori li prendiamo una buona volta per il bavero della giacca e li obblighiamo a discutere»).
Vivacità che però talvolta finisce per smarrirsi in una scrittura involuta, tortuosa (Antonio Bua: «Se è vero e possibile che in un partito politico possano convogliarsi persone di diverse tendenze, e ciò denota maturità ed educazione politica, è vero anche che la sana critica, per non trascendere al malevolo pettegolezzo, non debba intaccare la purezza degli intenti e della sua fede, accusandolo di proselitismo, ma sarà salutare ed efficace solo nel caso colpisca, non già la tendenza di una persona o di un gruppo di persone ma il contenuto ideologico formante compendio dei postulati del suo programma»).
Con qualche eccezione, è un dirsi le cose in faccia e fuori dai denti. Se si deve “sparare” lo si fa con la consapevolezza che dall’altra parte si farà altrettanto. Raramente però si affida l’ovvia volontà di mettere in difficoltà l’interlocutore, o magari di sopraffarlo, alla violenza dell’urlo, alla volgarità del tono troppo alto (Piero Soggiu: «Quanto a coloro che si sono allontanati per non aver voluto accettare la volontà della maggioranza, che è legge di ogni democrazia, è chiaro che essi si sono posti definitivamente fuori dal partito. Ci addolora profondamente l’abbandono. Più ci addolora che essi siano usciti dalle nostre file sol perché non sono riusciti ad imporre ai più la volontà dei meno. Li salutiamo ugualmente con rispetto…»). Spesso, a colpir cli fioretto, fanno capolino il sarcasmo sottile e le battute pungenti (Bartolomeo Sotgiu: «Viviamo come in sogno. Sino al ’22 non ci furono che i sardisti a parlare di autonomia della Sardegna, e tutti gli altri contro. Un coro magnifico, di grande effetto. Blocco, liberali, democratici, riformisti, socialisti, comunisti, pipisti, fascisti. I repubblicani ci davano ragione? Ma se sono quattro gatti! E di lì non si usciva: quattro gatti e quattro mori». Antonio Bua: «Finisci così per essere anche tu un sognatore, uno degno di “Villa Clara”, o meglio di “Rizzeddu”, come modestamente lo sono anch’io»).
Alcuni scritti sollevano lo sguardo al di là della Sardegna e della stessa Italia. In qualche caso la conferma del notevole livello di questi uomini politici viene da loro considerazioni e visioni in largo anticipo sui tempi (Luigi Oggiano: «I popoli ancora affamati, ancora indecisi, sbattuti o travolti da una dolorosa realtà, che fa apparire inutile o troppo lontano il più onesto, fecondo e ristoratore disegno di redenzione, stanno col fiato sospeso nella speranza che col diritto – quale i puri lo intendono – trionferà senza indugi il buon senso, e tuttavia nel timore che ancora una volta vi siano spergiuri e diritto e buon senso siano sopraffatti». Luigi Battista Puggioni: «A sentirli si dovrebbe credere che il comunismo ha buttato a mare tutto il programma elaborato attraverso un secolo nella dottrina e nella pratica, e che soli custodi del materialismo storico siano rimasti i vecchi socialisti. Ma se marxismo, lotta di classe, dittatura del proletariato sono concezioni ormai superate e ripudiate perché continuano costoro a chiamarsi comunisti?»).
Di forma e sostanza particolarmente interessanti e culturalmente, politicamente più coinvolgenti sono senza dubbio gli articoli che questi leader dedicano ai nodi centrali del pensiero e dell’azione sardista. I complessi, delicati temi dell’autonomia, dell’indipendentismo, dell’autogoverno, del separatismo vi sono dibattuti con comprensibile impegno, ma anche – per quella sorta di destino che sembra imporre al PSd’Az i ricorrenti travagli di tante anime – con una diversità di posizioni (Antonio Bua: «Separatismo non significa isolamento economico e tanto meno autarchia economica, ma un più largo respiro di scambio e di rapporti commerciali, in un clima di libertà e di non bardatura pesante doganale, con tutto il mondo». Anselmo Contu: «Dopo tanto discutere cli autonomia, di regione, cli self gouvernement, è veramente desolante constatare come gli occhi dei Sardi, dei politici sardi, guardino ancora a Roma come alla corte dei miracoli, ove si dovrà compiere anche il miracolo della redenzione dell’Isola. Per questo popolo Sardo si predica che il miracolo non sarà e non dovrà essere frutto della sua azione diretta in Sardegna, ma regalo delle grandi organizzazioni politiche continentali profondamente commosse per i molti suffragi ottenuti da noi». Luigi Oggiano: «Penso che il popolo, il quale da tanto reclama l’autogoverno, si renderà conto della prova ma che, dato il momento e la forma in cui l’esperimento si attua, sarà, rispetto alla prova, più spettatore che attore». Piero Soggiu: «Parlare ancora contro l’autonomia significa tornare irrimediabilmente indietro. Significa confessare che partiti ed uomini responsabili hanno proceduto finora senza convinzione o che non vogliono accettare ciò che il corpo elettorale ha deciso… Democrazia a rovescio… Mentalità dei pavidi che, per paura, si condannano all’inerzia od a servire»).
Infine, il livello giornalistico di alcuni scritti è da considerarsi decisamente alto. Richiamo, come esempio che altri ne comprende, un articolo di Luigi Battista Puggioni – pubblicato, fra gli inediti, da Luigi Nieddu nel suo volume dedicato anni fa al leader sassarese – che racconta l’uscita di Emilio Lussu dal congresso sardista e dal partito. Divertito e malizioso, ironico e sferzante ha lo stile di una moderna “cronaca di colore”, il respiro forte di un buon elzeviro, il ritmo di una sceneggiatura cinematografica o di un copione teatrale: «Afferrò una bandiera dei Quattro Mori, la strinse fortemente al cuore e, accarezzandosi nervosamente il pizzo storico, con voce alta e tagliente, proclamò: “Questa bandiera è mia, né alcuno v’è che me la saprà strappare!”. Un silenzio solenne, e già si alzava lo scroscio torrenziale degli applausi. Ma un servo sciocco, mal comprendendo il significato profondo della frase fatale, pavido per le sorti del padrone, lo avverti che non sua era quella bandiera, ma della Sezione di Sinnai. Ne fu turbata e scossa la serenità dell’artista. E pur non abbandonò l’impresa; raccolse le estreme energie e, gettato il drappo di Sinnai, un altro ne impugnò, più grande e tutto nereggiante di mori, e agitandolo disse: “Con questa bandiera di Monserrato…”. Fu inutile. L’incanto si era rotto. Per la vasta sala già zampillava fresco e divertito l’umorismo sereno di un pubblico smaliziato. E allora se ne andò. Pallido d’ira».
Davvero mi sembra un’attendibile testimonianza sulla possibilità di essere, contemporaneamente, buon avvocato, buon politico e buon giornalista.