Che cosa può fare l’Europa, di Franco Venturini
Come rifiutare la resa all’alternativa secca più ingannevole di tutte, quella tra accoglienza totale e rifiuto totale anche a costo di continue tragedie? Qui entra in ballo la Libia, ma anche cose che si potrebbero fare con una volontà che tarda a manifestarsi.
Viviamo, è inutile negarlo, con i migranti alla gola. Per chi ha un approccio soltanto umanitario e vuole una accoglienza incondizionata, per chi al contrario evoca respingimenti totali e denuncia «invasioni» percepite ma non accadute, per i pochi che cercano formule realistiche, per tutti insomma i flussi migratori continuano ad essere motivo di profonda divisione, di passioni spesso irrazionali, e talvolta persino di estrema violenza, o più raramente di estrema generosità.
Il motivo che provoca tanta incontrollata emotività è che tutto sembra essere contro di noi. La geografia, per cominciare, che ci colloca in posizione accessibile, in mezzo al mare, e proprio davanti all’Africa. La demografia del continente africano, poi, che promette di raggiungere una popolazione di 2,5 miliardi per la metà del secolo e annuncia dunque flussi migratori molto più massicci da parte di giovani disoccupati non poverissimi, perché in Africa i poveri non hanno il cellulare e non appartengono a famiglie che possono pagare migliaia di dollari ai trafficanti per staccare il biglietto verso l’Europa. L’Europa, eccola. Paralizzata dalle paure elettorali che i migranti innescano ovunque, senza alcun condiviso interesse a discutere davvero le clausole dei protocolli di Dublino che ci penalizzano, assorbita dalla Brexit, indecisa su come trattare quelli di Visegrad che di migranti non ne vogliono nemmeno uno, terrorizzata dall’influenza che nuovi sbarchi e nuove tragedie potrebbero avere sulle urne di maggio. E infine, una generale consapevolezza. Quella di non avere soluzioni pronte o facili se si esclude la propaganda dei politici e dei governi, quella di sapere che in gioco c’è sì l’accoglienza, ma c’è anche la difesa di un modello democratico che può essere distrutto dalla paura, che può morire nel suo momento più alto, quello del voto. Se questa è la realtà, e lo è, dove andare a cercare scampoli di lucidità operativa se ancora ne esistono? Come rifiutare la resa all’alternativa secca più ingannevole di tutte, quella tra accoglienza totale e rifiuto totale anche a costo di continue tragedie? Qui entra in ballo la Libia, ma anche cose che si potrebbero fare con una volontà che tarda a manifestarsi.
Il caos e il banditismo libico, felici compagni di strada, sarebbero ormai tanto ripetitivi da suggerire la noia se non ci piantassero invece un coltello nel fianco. Dimentichiamo le due «grandi» conferenze rivali del 2018, quella di Parigi e quella di Palermo. Il processo che quest’ultima avrebbe dovuto innescare è già clamorosamente in crisi, con l’aggravante che si è tornati a sparare a Tripoli, che il nostro Serraj è più che mai sotto l’assedio non solo delle milizie ma anche dei suoi vice, e così, mentre il cirenaico Haftar prova a farsi vedere in un meridione libico aperto a tutti i traffici, i campi di concentramento per aspiranti migranti (nell’amicaTripolitania) possono sbizzarrirsi in maltrattamenti, stupri, torture documentate dai cellulari, tutto quello che serve, insomma, per convincere le famiglie a pagare di più. E se tutto va «bene», ci sono i barconi che fanno acqua, oppure i maxi-gommoni che dopo un po’ si limitano a sgonfiarsi. È come se nel Mediterraneo ci fosse ogni volta un passaggio del testimone, dagli schiavisti libici alla civile Europa che dovrebbe accorrere e salvare i disgraziati, e invece spesso li lascia morire in silenzio. Vincono sempre i libici, perché la loro Guardia costiera interviene e crea le premesse per nuovi pagamenti oppure perché i soldi delle famiglie sono già stati intascati e se la destinazione non viene raggiunta la colpa è dell’Italia, di Malta, della Spagna, o magari di qualche superstite Ong.
In Libia nessuno vuole usare la forza, ed è giusto così. Ma l’Onu è presente, le grandi potenze guardano, pressioni anche pesanti possono essere esercitate, si dovrebbe poter imporre comportamenti più civili, e sorvegliare i famigerati campi. Servirebbero però non belle conferenze diplomatiche da esibire l’un l’altro, servirebbe un coinvolgimento serio di Usa e Russia. E poi la seconda linea, con Egitto e Arabia Saudita da una parte, e Turchia e Qatar dall’altra. Un processo politico serio, senza clamori, senza stupide rivalità come quella franco-italiana, capace di dare garanzie diverse da quelle dell’Onu e molto più credibili. E ancora servirebbero la volontà politica e i mezzi militari per pattugliare davvero il Sahel, per tagliare le vie di accesso da sud alla Libia, per isolarla, per far capire ai trafficanti che il vecchio gioco non funziona più. Militari italiani sono in Niger a questo scopo, ma occorre molto di più. E parallelamente va impostato un piano economico per l’Africa, una sorta di Piano Marshall che possa offrire occasioni di lavoro ai giovani prima e durante l’esplosione demografica. A condizione di superare due difficoltà che paiono ancora insormontabili: i Paesi europei al riparo dai flussi non vogliono spendere più di tanto, e comunque, a chi andrebbero gli investimenti in Africa? A dirigenze politiche ben note per il loro livello di corruzione?
Poi c’è l’Italia. Con gli errori passati, e con il suo governo di oggi. Anche da noi i partiti politici tengono d’occhio le elezioni di maggio, s’intende. Ma da noi il normale dibattito si svolge sotto l’egida indiscussa della propaganda, delle battute a effetto, degli «imperativi categorici» come la totale chiusura dei porti, dell’incoraggiamento a sentirci «invasi» anche se in percentuale i migranti in Italia sono meno numerosi che in Svezia, in Germania, in Austria. Giocare al tanto peggio tanto meglio è miope, come è suicida la paralisi dell’Europa davanti a un fenomeno che può farla morire per disgregazione. E poi, siamo in pieno inverno. Cosa dovremo aspettarci, in estate, se non agiremo per tempo da noi ma anche sulla sponda sud del Mediterraneo?
Il corriere della sera, 21 gennaio 2019