Riflettendo sulla democrazia liberale ed i limiti di quella socialista così come di quella “ispirata” cristiana. Francesco Cocco Ortu jr. a cinquant’anni dalla morte, di Gianfranco Murtas

 

Ci lasciò il 16 gennaio 1969, sconfitto dal male in un letto d’ospedale che da alcune settimane era diventato la sua casa. E fu un lutto per tutti, a Cagliari, un lutto universale: non solo per la famiglia, ma per gli amici e gli estimatori, e così anche per i suoi critici ed avversari politici. L’uomo era virtuoso, l’esponente della politica e delle istituzioni era immacolato, tale da tutti veniva riconosciuto anche nelle contese più ruvide, e in quella sua stagione ultima come già era stato in quelle della giovinezza e della prima maturità, fra gli studi e l’avvio nella professione, l’avvio anche e la maturazione della sua esperienza pubblica, amministrativa e parlamentare, unanime era la stima che lo accompagnava. Di tanto si era avuta una plastica conferma nella scena di massa già al primo notiziario del mesto passa parola, e poi nella camera ardente presso il municipio servito già dal 1944 (fu assessore e vicesindaco nell’estate di quell’anno, appena 32enne), ed infine ai funerali celebrati nella monumentale parrocchiale di Sant’Anna.

Ne sarebbe stato allora cronista ammirato e pensoso l’amico di sempre, Antonio Romagnino, che così registrò l’evento fissandolo nelle pagine di Diario americano e altrove: «Quella sera, appena si diffuse per tutta la città la notizia della sua morte, subito fino al colmo de sa ruga ‘e monti, per poi proseguire nei giorni successivi fino al salone del Comune dove la salma fu esposta, incominciò il pellegrinaggio sempre più folto dei suoi concittadini. Cadeva una pioggia minuta stillata pian piano, che non diventava mai scroscio e non dava fastidio, come quella senza peso di Primavera. Anche di questa pioggia, come di quella della Sera fiesolana, il poeta avrebbe potuto dire che bruiva “tiepida e fuggitiva”. Ma in realtà quella non era una pioggia ma un pianto; un commiato lacrimoso, quello che la sua città indifferente ed apatica, scossa soltanto dai suoi furiosi venti, riserva a rare creature in cui personalizza una virtù civica o morale, una bontà straordinaria o anche solo una generosità, una abnegazione, una dimensione insomma spirituale, che non si è appartata ed è diventata familiare e domestica».

Era deputato in carica, quando morì, Francesco Cocco Ortu, che aveva vissuto la sua vita – conclusasi troppo presto, neppure 57enne – modulandola lungo vie maestre: certamente per rispondere alla sua missione esistenziale, da lui avvertita con lo scrupolo del cristiano pieno e pietoso, ma anche, e non di meno, per onorare il lascito avito, morale e ideale mille volte di più di quel che esso fu, onestamente costruito, sul piano materiale («pochi beni… per i bisogni ed il mantenimento della famiglia»). Così come quel testamento olografo del 1901, steso nel 25° delle proprie nozze dal ministro giolittiano che era stato suo nonno, immaginava la proiezione delle generazioni, alludendo alle «quote dei frutti» da passare ai figli «man mano che contrarranno matrimonio»: «A questi consiglio e raccomando – era stato (invero) l’ammonimento – che si regolino nello stesso modo, affinché… la nostra discendenza non cada nell’indigenza assoluta. Soprattutto raccomando ai miei eredi di essere uniti e concordi… Questa concordia e l’aver serbato il patrimonio giovò ad aumentarlo ed a rendere prospera e lieta la nostra casa e farvi regnare una modesta agiatezza». Rimise mano all’atto, l’ormai anziano parlamentare e uomo di governo, ma soltanto per confermarlo integralmente («solo dichiaro che esso è sempre espressione della mia volontà e basta») pochi mesi dopo la nascita del nipote, primogenito del figlio Peppino, che portava il suo stesso nome. Non per caso, è ipotizzabile.

Per quanto abbia accostato alcune delle sue componenti, conoscendone e ammirandone valentia intellettuale e professionale, personalmente mi situo nelle schiere di quelli che alla famiglia Cocco Ortu riservano una deferenza senza ombre, scorgendo eminentemente nelle figure dei due Francesco personalità che meriterebbero, in questi tempi dalle facili dimenticanze, di essere, ciascuna con il suo specifico, riavvicinate ed esplorate per quanto esse hanno offerto di proprio allo sviluppo della democrazia italiana e della condizione sociale della Sardegna. E se avverto che, grazie a qualche studio recente – citerei in particolare quello egregio del Sagrestani (uscito a cura della Fondazione Spadolini Nuova Antologia) – ed a qualche tornata di convegno, il ministro che fu sodale di Zanardelli oltreché di Giolitti va rimontando negli accrediti negatigli per troppo tempo, per il parlamentare che (potendolo essere) mai volle essere ministro tardano in sede storiografica i recuperi.

Non che tutto sia mancato: a partire, e qui siamo addirittura al 1975, dal volume antologico di Rivoluzione Liberale, curato da Raimondo Turtas per la collana Stampa periodica in Sardegna 1943-1949, altro è apparso a soddisfare interessi e memorie. Franco Bojardi curò l’uscita di Liberalismo e socialità. Appunti e riflessioni, nel 1989, lo stesso anno in cui a Cagliari si tenne, su Francesco Cocco Ortu jr., una giornata di studi a vent’anni dalla morte (presenti Giovanni Malagodi e Salvatore Valitutti fra gli altri, oltre ai maggiori esponenti delle istituzioni regionali del tempo, mentre Fabio Maria Crivelli anticipò tutti con un mirabile contributo consegnato a L’Unione Sarda, il giornale che aveva diretto per tanto tempo e che, per lo stesso tempo, aveva avuto Cocco Ortu fra i suoi columnist: ho schedato e ristampato oltre cento suoi articoli); il Comitato di Cagliari dell’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, con il suo presidente Tito Orrù, dette alle stampe, nel 1999, un bel fascicolo dal titolo Una voce per la libertà. Articoli, Discorsi, Interventi di Francesco Cocco Ortu jr., recante anche una bella e particolareggiata scheda biografica; più di recente (2014) la collana detta La biblioteca dell’identità L’Unione Sarda ha presentato un’Antologia delle idee entrate nella Storia chiamando proprio, al 5° volume della serie (“Pensatori sardi”) ,insieme i due Cocco Ortu, Junior e Senior. Paradossalmente sembra molto, considerando trattarsi – mi riferisco adesso al Cocco Ortu jr. – dell’esponente di una forza di minoranza, e considerando l’amara dimenticanza che ha coperto altri valorosi contemporanei che, anch’essi nella politica, sono passati lasciando tracce certe. Ma il punto è un altro.

Il punto è che nel degrado attuale della politica leghista e stellata – degrado che si era pensato avesse raggiunto il suo top con l’immoralità, il malgoverno e l’assenza totale del senso delle istituzioni da parte di Berlusconi e dei suoi –, la necessità dei ritorni alla conoscenza della virtù pubblica, dell’intelligenza e della cultura politica, s’è fatta urgenza assoluta sul piano della pedagogia civile e democratica, sul piano della restituzione di sentimento patriottico alle istituzioni nazionali da volgere, con trasparenza e vigora dignità, alla soprannazionalità europea, secondo il sogno dei maggiori.

Quella bandiera tricolore entrata quasi un secolo fa nell’iconografia partitica liberale ed insultata dal ministro “delle riforme” del trascorso governo della destra pagana (mentre il presidente del Consiglio… equilibrava orientando le sue incredibili facezie sull’inno di Mameli) ed invece onorata, anch’essa quasi cent’anni fa, dopo che da tutti i figli del Risorgimento nazionale, dal maggior teorico del primo sardismo (!), Camillo Bellieni cioè, pare un simbolo divenuto estraneo o di troppo, sgradevolmente “datato”, buono magari soltanto per l’infantile giocoso sventolio di una copia mignon in occasione delle visite per città e province del presidente della Repubblica… L’urgenza del recupero dei simboli s’accompagna alla conoscenza delle testimonianze di vita, delle produzioni intellettuali e politiche delle classi dirigenti che hanno saputo condurre, in democrazia, la nostra povera Italia fuori dagli sfasci della dittatura e della guerra portandola allo sviluppo modernista.

Si tratta di comprendere che in quella classe dirigente, in quel novero di personalità eccellenti che guidarono il processo democratico e civile insieme con quello sociale ed economico, erano compresi uomini e donne delle opposizioni non meno che delle maggioranze, delle formazioni popolari ma anche di quelle elitarie o di minoranza (per congruità di consenso elettorale). Furono classe dirigente Parri come De Gasperi, Einaudi come Togliatti o Nenni, La Malfa e Cocco Ortu come Scelba e Di Vittorio o Saragat… A quella generazione di uomini politici e del sindacato, come anche dell’impresa e delle banche – si pensi soltanto a Mattioli o a Menichella, Carli e Baffi – che hanno trovato nelle coordinate dello Stato democratico di diritto le strade dello sviluppo graduale e contestualizzato al quadro continentale ed atlantico, la pedagogia civile della scuola e di ogni altra agenzia di contenuto pubblico dovrebbe poter accompagnare e inoltrare, donando alle giovani generazioni il recupero del senso della storia, dando loro densità di valori, in virtuosa controtendenza ad una società fattasi ormai da troppo tempo tutta liquida e inafferrabile…

La figura di Francesco Cocco Ortu ir., come poteva esser stata, in parte sotto altri profili, quella di un Cesare Pintus galeotto antifascista e primo sindaco di Cagliari dopo la liberazione dagli oppressori – figura quest’ultima rilanciata alla considerazione civica nei più recenti decenni, disseppellendola dalla atroce dimenticanza dei più – , ben si presterebbe ad accompagnare i giovani sardi alla conquista di conoscenze della nostra democrazia e della sua evoluzione, nella saldatura anche fra l’Isola e la madrepatria continentale nel contesto del Novecento: si pensi ai contributi offerti da Cocco Ortu già nel 1945 alla Consulta nazionale, e nella prima legislatura repubblicana, e poi ancora nella quarta e in quel primo pezzo della quinta drammaticamente, per lui, interrotta… Così anche alla Consulta regionale e, prima ancora, agli interpartiti sardi di CLN e, dal 1961 al 1963 al Consiglio regionale, come anche, dal 1946 e per 33 lunghi anni, al Consiglio comunale del capoluogo (in ultimo con i colleghi Angioi, Aru,Caredda, Medde e Tufani).

Innumerevoli le materie di cui si occupò, innumerevoli le occasioni in cui prese la parola, consegnò relazioni ed analisi di contenuto. Si pensi soltanto a Montecitorio: media e piccola industria e artigianato, mezzadria e colonia parziaria, Cassa per il Mezzogiorno, criminalità banditesca, controllo delle armi, referendum e iniziativa legislativa popolare, ordinamenti regionali e normative camerali, trasporti marittimi, edilizia economico-popolare, riforma concordataria… Molte decine le interrogazioni su questioni d’immediato interesse regionale: dagli approvvigionamenti idrici alle riduzioni tariffarie Tirrenia, dai servizi di sicurezza alle provvidenze ai cerealicoltori danneggiati, dalle immissioni in ruolo degli insegnanti alla problematica situazione alla questura di Sassari, alle partecipazioni statali in affaccio nell’Isola del primo centro-sinistra…

Io non sono liberale ma repubblicano, e di impressioni azioniste, e credo nell’economia “sociale” di mercato così come sono credente nella necessità della mano pubblica negli assetti e negli equilibri del sistema economico e produttivo nazionale quale si è posta, nel concreto, nei tardi anni ’40 e successivi, fino alla realizzazione del “miracolo” italiano e della impostazione della politica di programmazione territoriale. Consapevole, in questo, che nel consuntivo tratto talvolta scoraggiante la malattia non fosse, o non sia stata nella scelta politica finalistica ma nella formula giuridico-operativa opzionata, oltreché nelle pratiche discipline delle governance, ad esempio in materia di nazionalizzazione dell’energia elettrica e in generale delle proprietà pubbliche. Ma se questi sono i miei orientamenti personali, così distinti (e talvolta distanti) dalle piattaforme del liberalismo italiano, nonostante ciò trovo in Francesco Cocco Ortu il tanto di magistero (oltre che di esempio) che, proprio per esser stato egli esponente di una parte minoritaria sulla scena politica, ritengo potrebbe meglio d’altro rendere l’idea di come possa incidersi sulla società o la volontà generale pur essendo all’apparenza, e nel contingente, sconfitti. Nella logica dei seminatori.

Recuperando fra le carte di casa Cocco Ortu «un complesso di più di 300 pagine dattiloscritte», Franco Bojardi (prima citato) ne attribuisce, giustamente credo, natura e intenzione a quello che mi permetterei di chiamare il “gusto pedagogico” del parlamentare liberale, forse ancor più acuitosi allorché i malesseri l’avevan messo nella consapevolezza di un tramonto inaspettatamente (e spietatamente) precoce: eccole qui, «le sue “lezioni” sul liberalismo, poste a cavaliere tra conservazione e sviluppo, tra libere intraprese nell’economia e problemi sociali da risolvere, nella ridefinizione dei rapporti Chiesa-Stato e società civile-società religiosa, opzioni democratiche e unità politica dei cattolici». Tutto questo («punto d’approdo inatteso di una di una lunga ricerca: lo schema, ampiamente articolato, di un ciclo di lezioni e una testimonianza di fermezza morale e intellettuale») doveva sfociare forse in un ciclo di… approssimazioni (ideali/ideologiche) successive, didatticamente indirizzate ai giovani liberali che, verso la fine degli anni ’60, fiorivano attorno al PLI: studenti liceali e universitari per il più di giurisprudenza ed economia. La sezione cagliaritana della Gioventù Liberale Italiana, che aveva sede nella via Roma, era allora una formidabile aggregazione di talenti… Le storie individuali hanno poi marciato per le direzioni anche professionali le più diverse, e non poche sono state le sorti amare che hanno finito per privare troppo presto la democrazia cittadina di risorse di primissima qualità, pregio intellettuale e morale… (ripenso a Beppe Cocco Ortu e Lucio Lecis Cocco Ortu, a Gigi Dessì, a Francesco Putzolu…).

Ecco di seguito, stralciati dal maggior testo, alcuni paragrafi del saggio incompiuto e, prima dell’offerta di conoscenza fattacene da Bojardi, inedito.

Mi consento due sole osservazioni “critiche”, peraltro soltanto accennate, al saggio coccortiano: i “dogmi” liberali da lui esposti si inquadravano nella ripresa, vent’anni dopo, di una certa dialettica dottrinaria che investì, particolarmente, negli anni ’40, quelli del passaggio travagliato dalla dittatura (e dalla guerra) alla democrazia repubblicana conquistata, la politica italiana, e tanto più il confronto fra i liberali crociani ed einaudiani (anch’essi dialettici in casa, fra liberalismo e liberismo) e gli azionisti, nel cui novero figuravano alcuni degli “allievi” prediletti e collaboratori di Benedetto Croce, come Adolfo Omodeo o Guido De Ruggiero, e la sua stessa figlia Elena sposatasi con Craveri. L’azionismo che, con Ugo La Malfa e Salvatorelli, Parri ecc., non soltanto con Lussu e Lombardi e De Martino ecc., i socialisti azionisti insomma, cercava di radicare in campo riformatore democratico le sintesi della sinistra non marxista raccolte anche dall’Inghilterra e dagli stessi Stati Uniti di Roosevelt, fu vissuto dai liberal-crociani come una eresia (per via delle “contaminazioni” in specie in materia economica con il riformismo socialista). Questo spiega anche le riserve che Cocco Ortu, nello sviluppo della sua attività di dirigente liberale, sempre nutrì verso la socialdemocrazia saragattiana, che pur non spaventava di certo i moderati che anzi apprezzarono la frattura di Palazzo Barberini e sostennero per lunghi anni le liste del sole nascente.

Anche le riserve espresse da Cocco Ortu verso la democrazia cristiana – l’idea democristiana prima del partito democristiano – rimontavano a un certo rigore presente nella sua riflessione ideale che si saldava però intimamente con il suo credo religioso di coscienza. Nel senso che l’incontro fra il dato spirituale, direi esistenziale, che fu purissimo nell’uomo, e la militanza politica egli lo contestò quando tradotto in carte, in organizzazioni, in congressi, liste e gruppi parlamentari. La politica doveva essere laica per Cocco Ortu, gli uomini invece dovevano essere portatori di una istanza morale e, se si vuole, religiosa. Nella virtù della pratica militante doveva scorgersi il cristiano impegnato, non nel guelfismo rilanciato, nell’elettorato attivo o passivo sturziano o degasperiano o moroteo… Che a lui pareva una forzatura innaturale, un artificio spiegabile certo con i dati della storia nazionale, i triboli del Risorgimento scomunicato e gli approdi della Conciliazione clerico-fascista del 1929 (lo stesso anno della morte… offesa di Francesco Cocco Ortu sr., il ministro quotidianamente dileggiato dai fascisti, così dal 1922 quando vanamente scongiurò Vittorio Emanuele III di formare lo stato d’assedio per arginare i facinorosi di Mussolini), ma che non poteva condividere…

Un po’ la sensibilità – oso dire questo, ben conoscendone anche le distanze dal liberalismo classico – di quell’Arturo Carlo Jemolo che così, nel 1948, aveva chiuso il suo Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, più volte poi riproposto dalla editrice Einaudi: «Questa Italia non è quella che avevo sperato; questa società non è quella che vaticinato: società laica nella sua struttura giuridica, ma ove tutti portassero in sé un alto afflato religioso, dove l’operare di ciascuno fosse di continuo un risolvere in termini di azione un problema morale, dove gli uomini di governo per primi apparissero eredi della miglior tradizione dei pastori cristiani, ch’ebbero a motto “fa’ quel che devi, avvenga quel che può”; convinti che il rispetto per il popolo consiste nel dirgli sempre la verità….».

LIBERALISMO CONSERVATORE?

1. Se per conservatorismo si intende volontà di conservare tutte le libertà dell’uomo, del cittadino e del lavoratore (che furono tanto faticosa conquista delle grandi Rivoluzioni della libertà contro tutti gli assolutismi e gli oscurantismi del passato), indubbiamente i liberali sono dei conservatori, degli intransigenti conservatori.

E rivendicano con orgoglio questo loro conservatorismo politico, raffrontando questa loro posizione con quella di quanti altri nel mondo si contrappongono al liberalismo.

Perché, sia che si tratti di quanti al liberalismo si contrappongono in nome delle varie ideologie autoritarie antimarxiste, sia che si tratti di quanti ad esso si contrappongono in nome della ideologia marxista, sta in fatto, come realtà incontestabile, che ogni qual volta sia gli uni che gli altri siano pervenuti al potere, sempre e dovunque diventano entrambi immediatamente anch’essi dei conservatori: conservatori degli ordinamenti da essi rispettivamente realizzati nel proprio Paese in conformità alle loro rispettive ideologie.

Se conservatori sono infatti la “Falange” spagnola ed il suo “Caudillo” Franco (che per conservare il loro Stato autoritario a partito unico, carcerano e fanno “garrottare” gli oppositori, contestando ad essi libertà di parola, di associazione, di propaganda, di stampa e sindacale), non sono parimenti conservatori tutti gli Stati a regime socialista marxista?

Forse che tali Stati totalitari, l’Unione Sovietica in testa, per la conservazione dei loro ordinamenti, non si comportano infatti nei confronti dei dissenzienti e degli oppositori in identico modo; e cioè, anch’essi, con le carcerazioni e le esecuzioni e contestando egualmente ai dissenzienti libertà di parola, di associazione, di propaganda, di stampa e sindacale, e persino di manifestazioni di arte e di cultura? Ed i casi dello scrittore Pasternak o del poeta Jevtucenko in Russia o dello scrittore Gilas in Jugoslavia ne sono recenti testimonianze.

Ed allora è chiaro perché, nel raffronto con tutti i conservatorismi politici, noi liberali siamo orgogliosi del nostro conservatorismo politico.

2. Perché noi vogliamo conservare anche per i nostri avversari, per i dissenzienti da noi, la libertà di parola che essi, ove vincessero, negherebbero a noi, così come ad ogni altro dissenziente da loro. Perché noi vogliamo conservare anche per i nostri avversari la libertà di associazione, di propaganda, di stampa e sindacale che essi, ove vincessero, ci toglierebbero.

Perché noi vogliamo conservare un ordine politico nel quale tutte le libertà delle minoranze siano gelosamente salvaguardate, in quanto siamo certi di una verità cui un nostro pensatore dette espressione col dire che “l’umanità intera non ha il diritto di imporre il silenzio a un solo dissenziente”, perché nell’eresia di oggi può essere la scintilla della luce della verità di domani.

Perché noi riteniamo politicamente immorale e contrario ad ogni principio di ragione che una parte di qualsiasi popolo pretenda di avere il monopolio della verità politica e del giusto governo e pretenda, quindi, di governare a suo piacimento, senza essere più rimossa dal potere.

3. Ecco perché siamo orgogliosi del nostro conservatorismo politico, per quanto siamo consapevoli di tutti i difetti e di tutte le possibili degenerazioni della democrazia liberale che noi vogliamo conservare, sforzandoci perciò, allo stesso tempo, di migliorarla.

Perché siamo fermamente convinti, sul piano della ragione e in base a tutte le esperienze della Storia, di quanto affermava Camillo Cavour, e cioè che da parte dei popoli è “sempre da preferirsi la peggiore Camera dei Deputati alla più dorata anticamera di un tiranno”.

Nelle anticamere dei despoti il destino dei popoli non può decidersi, infatti, se non con la congiura dei cortigiani.

4. Il conservatorismo di noi liberali è pertanto solo volontà di conservazione di tutte le libertà umane e della democrazia politica, attuata nello Stato di diritto. Perché solo questa democrazia e questo Stato possono garantire ai popoli di essere governati secondo la loro libera volontà sulla base di un civile contratto sociale.

E quel contratto per cui i membri della minoranza si sentono obbligati a riconoscere per propria – e quindi come volontà comune di tutti – la volontà politica della maggioranza, in quanto i membri di detta maggioranza, venuti a trovarsi in minoranza nel domani, si comporteranno in identico modo.

E non è rispondente al vero quanto di frequente si sente affermare al riguardo, e cioè, che, in questa sua posizione, il Partito Liberale Italiano non si distingue da tutti gli altri partiti che – a differenza di quelli marxisti e totalitari di destra – accettano anch’essi la democrazia politica ed intendono difenderla contro i suoi nemici, come è nel caso dei partiti socialisti democratici e cristiani democratici.

Non è rispondente al vero perché le prospettive di sopravvivenza delle più ampie libertà umane (culturali, politiche e sindacali) sono profondamente diverse a seconda che la guida di qualsiasi Stato sia ispirata ai principii del liberalismo od ai principii dei partiti socialisti, sia pur democratici, o a quelli dei partiti che affermano di partecipare alla lotta politica come rappresentanti di una verità trascendente.

5. Infatti, come si vedrà poi meglio nel trattare del preteso classismo padronale del liberalismo, è dell’ordine logico e naturale delle cose che una Società socialista, (sia pure realizzata con i più sinceri e fermi propositi di non attentare minimamente alle libertà dei suoi membri) finisca sempre poi fatalmente con il soffocare, di fatto o per norme di legge, quelle libertà. E ciò avverrà di fatto quando i gruppi politici al potere, fatti di uomini e non di arcangeli, saranno pervenuti a controllare tutti, o quasi, i mezzi di produzione e saranno, di conseguenza, arbitri di disporre di tutte le possibilità di lavoro, e quindi del pane di ognuno. Avverrà ciò per norme di legge quando agli autori e responsabili dei piani e delle programmazioni dello Stato socialista (per quanto democratico nei propositi) apparirà indispensabile, pena in caso contrario il fallimento delle programmazione e dei piani, il limitare sempre più le libertà sindacali.

E le libertà sono tutte interdipendenti ed indivisibili.

6. Per quanto sta invece ai partiti di affermata ispirazione sovrannaturale, detti partiti, per il solo fatto di arrogarsi tale soprannaturale ispirazione, non possono mai, in realtà, accettare la democrazia ed il metodo della libertà se non come una ineluttabile necessità. I tempi, infatti, più non consentono di “bruciare i corpi per salvare le anime”; ma è pur tuttavia evidente come dei sostenitori di una particolare guida dei popoli, da essi considerata assolutamente giusta perché additata da un insegnamento sovrannaturale, non potranno mai accettare veramente la legge del numero che è alla base della democrazia. Potrebbe essere, infatti, la stragrande maggioranza di un popolo a voler seguire altre vie, ma per i sostenitori della guida politica “assolutamente giusta” a causa della affermata sua ispirazione sovrannaturale, quella maggioranza sarebbe in errore.

Da ciò la grande riserva di fondo nei confronti della libertà, da parte di quei partiti: una riserva che nasce dal loro profondo convincimento che tutte le libertà possono concedersi meno che la “libertà dell’errore”.

E tutta la storia delle democrazie, nelle quali tali partiti si sono trovati ad operare, è caratterizzata appunto da una, più o meno scoperta, loro lotta (nella politica della scuola sovrattutto) contro la “libertà dell’errore”.

Ecco perché una profonda diversità esiste, sul piano della salvaguardia delle inscindibili libertà dell’uomo, tra la posizione del Partito liberale e quella degli altri partiti democratici – socialisti democratici o cristiani democratici che siano – per quanto questi possano essere in ogni Paese in particolari ore della Storia compagni di strada e di lotta del liberalismo contro i nemici dichiarati della democrazia politica.

Per cui l’intransigente conservatorismo del liberalismo (in quanto volontà di conservazione della libertà) non potrebbe mai essere di ostacolo a che gli uomini liberi, ed anelanti a restare tali in una libera Patria, infittiscano le sue schiere.

Sennonché un’altra prevenzione, largamente diffusa, a ciò si oppone ed è quella relativa al conservatorismo economico del liberalismo.

 

SOCIALISMO LIBERALE?

27. Da parte di forse non pochi tra quanti avranno avuto interesse a seguire sino a questo punto il discorso, potrà obiettarsi che, se tutto quanto si è detto può valere nei confronti del socialismo marxista e delle contrapposte ideologiche totalitarie di «destra», non può però essere altrettanto valido nei confronti del socialismo democratico, e liberale nel metodo, e di tutte le altre ideologie parasocialiste (si qualifichino esse giustizialiste e populiste, cristiano democratiche e cristiano sociali) che accettano la democrazia polipartitica ed il metodo della libertà, e che sono presenti nella lotta politica con il dichiarato proposito della loro difesa contro tutti i totalitarismi, compreso quello del socialismo ortodossamente marxista.

In vero, l’obiezione potrebbe apparire fornita di una valida ragion d’essere ove ci si limitasse a considerare i propositi – indubbiamente antitotalitari – del socialismo democratico e di tutti i parasocialismi antimarxisti.

28. Infatti, tra il socialismo democratico e tutti i giustizialismi parasocialisti da un lato, ed il socialismo ortodossamente marxista, dall’altro lato, la differenziazione è indubbiamente così profonda, sul piano dei loro rispettivi propositi circa le sorti della libertà, da raggiungere quasi i limiti di due diverse scelte di civiltà.

Per cui ogni liberale potrebbe ben far proprie le parole di Wilhelm Ròepke in «Civitas Umana»: «Non si vede come mai sia possibile un’intesa o soltanto una feconda discussione coi collettivismi della prima specie (i socialisti ortodossamente marxisti). Con quelli invece della-seconda specie (i socialisti democratici) possiamo sentirci uniti per la fede nei valori estremi della nostra civiltà e per l’appassionato rifiuto di forme sociali antiliberali e antidemocratiche».

Sennonché, dato atto, con ciò, a tutti i socialisti e parasocialisti democratici della loro sincera scelta per la libertà e contro la tirannide, ogni liberale non potrà che far proprie anche le successive parole di Ròepke: «Quel che ci distingue da loro (dai socialdemocratici e parasocialisti democratici) è un’altra cosa. È non solo la loro credenza che si possa limitare il collettivismo al campo economico, (come quello che è più importante nella vita di tutti i giorni) senza mettere in pericolo gli altri campi, ma persino la loro convinzione che il collettivismo sia necessario, proprio in questo campo economico, per salvare negli altri campi la dignità individuale e completare la liberazione degli uomini».

È a causa ditale erroneo convincimento di tutti i socialisti e parasocialisti democratici che il liberalismo non può che contrapporsi ad essi per gli stessi motivi di fondo per i quali esso si contrappone al socialismo marxista totalitario, per essere invece il liberalismo convinto che nessuna dignità dell’uomo e nessuna umana libertà possano sopravvivere alla fine della libertà economica.

Potrà anche verificarsi – come verificatosi or non è molto in Italia – che, nella concretezza della lotta politica, i partiti liberali vengano a trovarsi con i partiti socialdemocratici e parasocialisti (democristiani o socialcristiani che siano) dalla stessa parte della barricata in questo o in quel Paese ove si lotti in difesa dello Stato democratico contro la sua conquista da parte del socialismo marxista totalitario. Ma ciò non potrà mai implicare che il liberalismo ed i partiti che ad esso si ispirano non debbano allo stesso tempo respingere, come non valida, l’obiezione di quanti alla diagnosi liberale circa l’assoluta incompatibilità tra economia socialista e libertà, sono soliti rispondere che «però il socialismo democratico è un’altra cosa».

29. Perché questo ed il socialismo ortodossamente marxista saranno, ed anzi indubbiamente sono «due diverse cose» sul piano delle rispettive intenzioni nei confronti della libertà, con cui l’uno e l’altro propugnano e perseguono la fine del sistema economico liberale, nonché potranno essere, ed anzi indubbiamente sono, «due diverse cose» quanto ai metodi rispettivamente praticati dall’uno e dall’altro per il raggiungimento del predetto identico fine; ma, allorquando detto fine sarà stato raggiunto, i risultati cui avranno posto capo sia il socialismo ed i vari parasocialismi democratici sia il socialismo ortodossamente marxista, saranno sempre ed ovunque una «unica cosa» sotto il profilo delle sorti finali di tutte le libertà.

Infatti, sia che alla soppressione della libertà economica si sia pervenuti attraverso una più o meno violenta sovversione degli ordinamenti dell’economia libera, ad opera del socialcomunismo, sia che vi sia pervenuti attraverso un graduale riformismo e nel rispetto del metodo della libertà, ad opera del socialismo o dei parasocialismi democratici, in entrambi i casi alla fine di tale libertà non potrà che conseguire dovunque anche la fine delle libertà sindacali dei lavoratori e di tutte le altre libertà degli stessi lavoratori e dell’intera comunità.

E la fine della libertà, comunque ad essa si sia pervenuti, sarà sempre e dovunque, in tutta la durezza per gli uomini, che non siano nati con la vocazione al servaggio, la fine della libertà.

30. Non sono pochi, purtroppo, coloro che del tutto ignorano o dimenticano a quale lor inesorabile sistema logico liberticida siano soggetti tutti i sistemi economici diretti dall’alto dal potere politico, e come dalla predetta logica anche i più democratici, tra i vari realizzatori di tali sistemi, siano predestinati a dover, pur essi, sacrificare prima o poi totalmente, al di là delle loro originarie intenzioni, non solo le libertà economiche, ma anche le libertà sindacali, e infine politiche, dei lavoratori, pur di non giungere al totale fallimento delle proprie esperienze di governo nel caos economico e nella generale miseria.

Nel non intendere come tale destino di liberticidi preterintenzionali sia inesorabilmente segnato, anche per tutti i partiti socialisti e parasocialisti democratici, è il grande errore sia di quanti a tali partiti dan vita, sia di quanti verso di essi si orientano con i propri suffragi in nome di un «socialismo della speranza» che non potrà mai essere il socialismo della realtà.

Cosicché, a tal punto, sarà compito di queste pagine il dimostrare quale sia la predetta logica liberticida cui sono soggetti tutti i sistemi economici diretti dall’alto dal potere politico, e come da tal logica anche i partiti socialisti e parasocialisti più sinceramente democratici, debbano essere sempre inevitabilmente tratti a percorrere interamente la via della collettivizzazione integrale dell’economia e della soppressione totale delle libertà dei lavoratori di ogni Paese dei quali siano pervenuti a condizionare la vita.

31. Gli effetti di detta logica inizieranno sempre a dispiegarsi non appena attuate le prime, pur limitate, nazionalizzazioni e statizzazioni, che consuetamente contrassegnano dovunque l’avvento al potere dei partiti Socialisti e parasocialisti democratici, mentre ben pochi, nelle comunità destinate a scontarne infine gli effetti, avvertiranno a quale inarrestabile processo di progressiva eliminazione di tutte le libertà sia stato dato, in effetti, l’avvio con tali prime mutilazioni della libertà economica.

Si tratterà infatti, di norma, inizialmente del passaggio dai privati allo Stato di pochi, quando non addirittura di pochissimi, mezzi di produzione. E soprattutto si tratterà, di regola, di mezzi che, a causa della loro natura e delle loro dimensioni, anche molti non socialisti accetteranno debbano subire tal sorte, come nel caso delle fonti di energia essenziali per tutta l’economia del Paese e nel caso delle industrie pesanti o di base (miniere, acciaio ecc.).

Inoltre costanti, ed ovunque uniformi, saranno gli enunciati propositi e le giustificazioni che si accompagneranno alle prime nazionalizzazioni e statizzazioni.

Infatti, quei propositi saranno sempre nel senso che non si andrà oltre quelle prime mutilazioni della libertà economica, mentre a lor giustificazione si addurrà sempre ed ovunque:

a – l’aver dovuto e voluto proteggere le libertà di tutta la comunità contro i pericoli derivanti per esse dalle eccessive concentrazioni di capitali in mani di pochi uomini;

b – l’aver dovuto e voluto emancipare tutta la restante economia nazionale (naturalmente ancora destinata sino a quel momento, secondo le intenzioni dei riformatori, a restare una economia libera) dal «dispotismo» economico dei grandi monopoli, qualificandosi per tali anche le imprese superdimensionali;

c – l’aver dovuto e voluto porre le medie e le piccole industrie in condizioni di operare su una base di assoluta eguaglianza in punto sia di somministrazione ad esse della energia e dei prodotti necessari alle loro lavorazioni sia dei loro prezzi;

d – infine, (in conformità ai proclamati propositi giustizialisti del nuovo corso economico) l’aver voluto porre in mano allo Stato, operante nel generale interesse – ed in quello soprattutto dei ceti meno dotati e delle zone più depresse del Paese – gli strumenti indispensabili per una distribuzione del benessere più giusta di quella attuabile da parte dei grandi ed egoistici interessi privati.

Indubbiamente non pochi considereranno tutto ciò ragionevole e giusto.

32. Così – tutto riformisticamente roseo e non rivoluzionariamente rosso – in ogni Paese nel quale tali «riforme di struttura» (non attentatrici, nelle sincere intenzioni dei loro realizzatori, delle libertà sindacali e politiche) saranno state attuate, avrà avuto inizio una sorta di «collettivizzazione con i tranquillanti».

Poiché a far sì che, una volta compiute le prime limitate nazionalizzazioni e statizzazioni, si proceda immediatamente oltre sulla via verso la collettivizzazione integrale, interverrà la forza delle cose che, nel campo di cui si tratta, altro non è se non la forza delle leggi economiche.

E legge infatti non eliminabile da nessun sistema economico che non sia possibile alcuna produzione senza un adeguato accumulo ed un adeguato investimento di capitali.

Ed il passaggio delle fonti di energia e di questo o quel settore dei mezzi di produzione pesanti o di base dai privati allo Stato non avrà fatto di certo venir meno la preesistente necessità di un continuo accumulo di capitali da investirsi incessantemente per il rinnovo e lo sviluppo dei mezzi di produzione divenuti proprietà dello Stato.

A tale necessità lo Stato, o meglio il gruppo di uomini alla sua guida nei quali esso si impersonerà, non potrà provvedere se non con lo stesso sistema praticato dai socialisti ortodossamente marxisti, dai comunisti totalitari: col prelevamento autoritario, cioè, per le esigenze dei mezzi di produzione statali, di quella parte del reddito di tutti e di ognuno che gli uomini del potere politico, d’accordo con i tecnocrati preposti alla produzione di Stato, riterranno di dover fissare.

Anche gli uomini di governo socialisti democratici, così come si è di già visto nel caso di quelli socialisti totalitari, non potranno, infatti, attendere passivamente che il capitale indispensabile per le industrie di Stato si accumuli o non si accumuli a seconda di quanto sarà il risparmio liberamente realizzato dei singoli cittadini, né passivamente attendere che detto risparmio affluisca o non affluisca all’industria di Stato a seconda delle libere scelte di ognuno circa gli investimenti del proprio risparmio.

Ed avrà così inizio, la «accumulazione socialista», e cioè autoritaria, del risparmio come nelle economie dei regimi dichiaratamente collettivisti secondo lo schema totalitario, giusto quanto poc’anzi si è detto.

Certo ciò non verrà pubblicamente proclamato, ma dovrà necessariamente essere praticato di fatto. E saranno strumenti ditale accumulazione socialista del risparmio quelli solitamente impiegabili dai detentori del potere in ogni regime politico: o i prelevamenti del fisco sul reddito globale e di ognuno (iniziandosi così a limitare le possibilità di un libero risparmio da parte dei singoli) o attingendosi nei fondi di già depositati, o via via depositati, (per di più in misura decrescente) dai liberi risparmiatori negli Istituti bancari, con conseguente contemporanea progressiva contrazione dei capitali disponibili per le libere iniziative produttive.

33. Se tutto ciò avverrà gradualmente e silenziosamente, con pari gradualità e silenzio si verificherà altresì ben presto il progressivo estendersi de “la mano pubblica” su tutta l’economia nazionale.

Infatti, una volta verificatosi il passaggio allo Stato della proprietà e della gestione delle fonti di energia (essenziali per tutte le attività produttive del Paese) o delle sue industrie pesanti o di base, sarà inevitabile che da parte della “mano pubblica” si proceda – oltre che alla “accumulazione socialista del risparmio” – anche al controllo, prima, ed alla pianificazione, poi, delle attività di tali mezzi di produzione e dei consumi dei loro prodotti.

Da parte dello Stato, o meglio da parte del gruppo degli uomini al potere, non potranno infatti mai ammettersi né la possibilità di uno stato di concorrenza, anche solo potenziale, delle attività produttive dello Stato tra di loro e tra queste e quelle straniere, né la possibilità di crisi nelle stesse attività produttive in dipendenza dell’orientarsi delle medie e piccole industrie del Paese, smaltitrici dei loro prodotti, verso determinate produzioni piuttosto che verso altre, in obbedienza alle variabili richieste delle grandi masse dei consumatori.

Al fine di evitare sia tale concorrenza tra intraprese produttive statali, sia tali crisi dovute alle libere scelte della comunità circa i proprii consumi, il gruppo di uomini impersonanti lo Stato sarà sempre più tratto ad impiegare il proprio potere politico non soltanto per controllare, prima, e condizionare, poi, totalmente anche le attività produttive della media e piccola industria consumatrice dell’energia e dei prodotti dell’industria pesante di Stato, ma anche per controllare, prima, e pianificare, poi, altresì i consumi di tutta la comunità.

Poiché parallelamente al progressivo estendersi della “mano pubblica” dalle fonti di energia e dalle industrie pesanti o di base alla media e piccola industria, sempre di meno potrà essere consentito alle grandi masse di milioni di consumatori di poter determinare, attraverso le loro libere scelte dei prodotti da esse preferiti per genere, qualità e prezzo (democrazia del consumo), il sorgere e l’incremento o il venir meno delle diverse intraprese produttive.

Ed invece accadrà che sempre di più saranno le decisioni dei gestori in nome dello Stato delle fonti di energia nazionalizzate e dei mezzi statali della produzione pesante e di base (e successivamente anche dei mezzi della media e piccola produzione) non soltanto a determinare gli sviluppi delle varie attività produttive dell’intera comunità, ma anche a fissare qualità e quantità dei beni da porsi sul mercato per i consumi della stessa comunità.

34. E quando dei governanti socialisti e parasocialisti democratici, attraverso tale processo di graduale soppressione della libertà economica, (ad essi imposta dalla inesorabile logica interna del sistema che essi avranno via via sostituito a quello liberale) saranno pervenuti a realizzare, sia pur nel più assoluto rispetto del metodo democratico, una pianificazione o una programmazione totali, o quasi totali (sia del risparmio, accumulato sempre più socialisticamente, e cioè autoritariamente, sia degli investimenti, sia delle produzioni e sia dei consumi), non potrà non porsi per essi il grande problema della compatibilità o meno della sopravvivenza di tutte le libertà dei lavoratori con tali generali pianificazioni e programmazioni.

Suonerà allora per quei governanti la drammatica ora della verità circa il loro saper essere, sempre e nonostante ogni evento, fedeli alla libertà ed al più geloso rispetto della dignità della persona umana.

Sarà quella un’ora che, prima o poi, dovrà sempre suonare, non appena la men che minima richiesta di aumenti di retribuzioni o di diminuzioni di ore di lavoro, da parte di una, sia pur ridottissima, aliquota di lavoratori, minaccerà di sconvolgere, se non di far addirittura fallire, i piani e le programmazioni che il gruppo di uomini inseriti ai vertici dello Stato e preposti alla guida della sua economia avranno ritenuto di formulare.

Quei piani e quelle programmazioni, infatti, non potranno che essere fondati, come logico ed indispensabile, sulla base di precise previsioni sia circa i rendimenti dei lavoratori, settore per settore e fase per fase di produzione, sia circa i costi dei diversi prodotti di ogni settore e di ogni ciclo di lavorazione nell’ambito di ogni settore, nonché sulla base di una precisa concatenazione sia di quei rendimenti che di quei costi.

35. Per cui è di tutta evidenza quali debbano necessariamente essere sempre gli effetti gravemente perturbatori di qualsiasi non prevista contrazione nei rendimenti dei lavoratori o di qualsiasi non previsto aumento delle loro retribuzioni, quando tali fatti abbiano a verificarsi nell’ambito di una economia pianificata e programmata. Infatti tali fatti perturbatori si verificheranno in un’economia nella quale saranno stati prestabiliti (ed in stretta interdipendenza tra loro) sia i volumi dei diversi beni, tanto strumentali quanto di consumo, da prodursi, sia i loro rispettivi costi di lavorazione, sia i loro rispettivi prezzi sul mercato. I quali effetti perturbatori risulteranno ancora più gravi e diffusi, quando si consideri che i prezzi sul mercato saranno stati previsti in funzione di un prestabilito tenore di vita della comunità, che sarà stato prefissato, anch’esso, in relazione a quella parte del reddito via via prodotto che, con autoritario riparto di questo, sarà stata destinata ad essere distribuita, come retribuzione, al mondo del lavoro in relazione alle esigenze della accumulazione socialistica del capitale che sarà stato stabilito essere necessario per gli investimenti ed i piani di produzione della “mano pubblica”.

Così, (per prendere ad esempio il caso forse più ammaestrativo di ogni altro per gli Italiani, in relazione alla loro presente vicenda politica nazionale) ogni variazione in aumento nel costo della energia elettrica, come conseguenza di un non previsto aumento salariale nel settore, non potrà che riflettersi, sui costi di lavorazione di tutti i settori produttivi dell’intero Paese, consumatori diretti o indiretti di energia elettrica, sconvolgendo totalmente piani e le programmazioni di tutta la produzione nazionale.

Infatti da un tale imprevisto aumento del costo della produzione, e quindi di prezzo al consumo, dell’energia elettrica, non potranno non restare sconvolte tutte le previsioni dei pianificatori e programmatori circa i costi dei trasporti a trazione elettrica (e quindi circa l’incidenza del costo trasporto in tutte le produzioni) così come anche tutte le previsioni circa i costi di produzione in tutto il settore siderurgico, grande consumatore di energia elettrica nei suoi altiforni, e, di riflesso anche tutte le previsioni circa i costi di produzione in tutte le medie e piccole industrie consumatrici dei prodotti della industria pesante siderurgica e a loro volta produttrici di tutte la gran serie di beni strumentali e di consumo richiesti dalla vita di ogni comunità (dal bullone all’automobile, dal cacciavite all’escavatore, dalle lamiere per carene ai locomotori, dalle macchine per cucire ai carri ferroviari e così via).

E l’elenco di tutti i riflessi a catena ed a macchia d’olio di un pur unico, non previsto aumento di costi in un settore produttivo, (come conseguenza, ove accolta od imposta, di una non prevista richiesta di aumento di retribuzioni nel settore) potrebbe continuare a lungo, per giungere, nel caso preso ad esempio, sino ai più vasti riflessi di un generale aumento delle tariffe della energia illuminante, per gli elettrodomestici ed il riscaldamento, con incidenza gravissima sul tenore di vita di tutta la comunità.

Mentre altri riflessi perturbatori dei piani e dei programmi si verificherebbero a catena dal basso verso l’alto come conseguenza dell’automatica diminuzione nelle richieste da parte della comunità dai redditi immutati, di altri beni di consumo meno necessari dell’energia elettrica in tutti i suoi usi domestici.

36. Sino a quando la inesorabile logica interna del loro sistema economico non avrà condotto i governanti socialisti e parasocialisti democratici,  di cui si sta trattando, a sopprimere totalmente o quasi la libertà economica del proprio Paese e, soprattutto, sino a quando la non acquiescenza da parte dei lavoratori alle retribuzioni fissate per essi dallo Stato loro datore di lavoro, si verificherà in un solo settore produttivo, è evidente come lo Stato, posto a scegliere tra il resistere ai lavoratori (con conseguente loro sciopero e paralisi di tutto il Paese senza energia) o il sopprimere la libertà di sciopero per i suoi prestatori d’opera, o il capitolare di fronte al riscatto della paralisi del Paese, finirà sempre per scegliere la via della capitolazione.

La parte dell’economia produttiva del Paese ancora libera (ed alimentatrice, con i propri tributi, delle casse dello Stato) sarà sempre la grande valvola di sicurezza per i programmatori al potere.

Per evitare infatti lo sconvolgimento di tutti i propri piani e programmi di produzione, come conseguenza di un non previsto aumento nel costo dell’energia, e per non ricorrere ad un impopolare aumento delle tariffe dell’energia per gli usi domestici per milioni e milioni di utenti, gli uomini della “mano pubblica” sapranno dove attingere a)nella economia ancora libera del Paese i mezzi per colmare il disavanzo che b) in un Ente economico statale, da essi gestito, sarà stato determinato dai lavoratori ribelli alla loro volontà di programmatori e di fronte ai quali essi saranno stati impotenti.

Ma quando la “mano pubblica” si sarà via via, silenziosamente sempre più allungata di settore in settore produttivo, su tutta, o quasi, l’economia del Paese e. l’inevitabile pianificazione e programmazione della produzione nazionale saranno una realtà, e la non acquiescenza ai livelli salariali fissati dai pianificati e programmatori non sarà più un fatto limitato ad un solo dei settori produttivi e rischierà di far saltare del tutto piano e programmazione, quale fra le tre vie di cui si è detto (resistenza ad oltranza alle pretese dei lavoratori con conseguente loro sciopero – capitolazione di fronte a quelle pretese – soppressione della libertà di sciopero) sceglierà lo Stato, o meglio il gruppo di uomini alla sua guida?

La resistenza ad oltranza, con conseguente sciopero dei lavoratori, anche in un solo settore di un’economia tutta interdipendente secondo la sua pianificazione dall’alto, implicherebbe per un verso la paralisi di tutta la produzione (come avverrebbe, per l’arrestarsi di un ingranaggio, anche minimo in un qualsiasi macchinario) ed il conseguente sconvolgimento di ogni piano o programma.

E, per l’altro verso la capitolazione di fronte alle pretese dei prestatori d’opera ribelli alle retribuzioni programmate implicherebbe, anch’essa, lo sconvolgimento dalle fondamenta di piani e programmi, nonché la necessità al fine di colmare i disavanzi di bilancio determinati nelle rispettive aziende pubbliche dai lavoratori ribelli, o di ridurre se possibile, le retribuzioni dei lavoratori di altri settori, non ribelli (sino a quando tali, stante l’esempio) o di prelevare – attraverso le tassazioni dirette e, molto più verosimilmente, indirette – una ulteriore aliquota del reddito sia del lavoro dipendente sia del lavoro ancora libero, con i consueti riflessi negativi sui consumi (e rimbalzanti da questi al commercio ed alla produzione) e sul generale tenore di vita.

Per cui in realtà, per salvare dal caos e dal fallimento piani e programmi, non resterebbe agli autori di questi e responsabili della loro attenzione, altra via se non quella sciagurata della soppressione delle libertà sindacali dei lavoratori.

37. Allora forse gli uomini del “Socialismo della speranza” si renderebbero conto del fatto che la soppressione totale delle libertà sindacali e la pena di morte nell’URSS per gli scioperanti, considerati sabotatori della economia nazionale e ribelli allo “Stato degli operai e dei contadini”, così come le altre severe pene di tutti gli altri stati Socialisti, non siano misure dettate da una perversa libidine di crudeltà nei confronti dei loro lavoratori dagli uomini al vertice di quegli stati e delle loro economie, e siano invece misure imposte da una ferrea necessità: la necessità, una volta che tutto sia stato pianificato e programmato nell’ambito di una determinata area economica (accumulazione del capitale, investimenti produttivi e consumi) di non lasciar sopravvivere libero, con tutto il suo potenziale di grande forza sconvolgitrice di ogni piano e programmazione, il mondo del lavoro.

Ma, pur rendendosi conto di ciò, dei governanti socialisti e parasocialisti democratici, se veramente tali, in nessun paese oserebbero piegarsi a tale necessità ed a cancellare, quindi, le garanzie di tutte le libertà dei lavoratori dalle tavole della legge dei loro stati, i quali resterebbero pertanto a struttura formalmente democratico-liberale.

E se questo avverrà, sempre che trattisi di socialisti e parasocialisti democratici (la cui scelta per i valori della civiltà europea e per una struttura democratica-liberale dello Stato e della Società non sia – per ripetere ancora una volta parole di Wilian Ròepke – «un leggero bagaglio spirituale che, messi alle strette, si è disposti a buttare senza troppe esitazioni») pur tuttavia sempre e dovunque i risultati della soppressione ad opera loro della libertà economica saranno ad un tempo quello di un progressivo caos economico e quello della sopravvivenza, dopo breve tempo, del solo fantasma di una libertà, in effetti silenziosamente tratta a morire con tutti i consueti corruttori ed umilianti strumenti dei “regimi di fatto”.

38. Quanto al caos nell’economia ed al conseguente progressivo generale immiserimento essi saranno infatti l’inevitabile risultato:

a – del fatto che gli uomini detentori del potere politico, ed allo stesso tempo responsabili della guida dell’economia di tutto il loro Paese, per la necessità di evitare anche il più circoscritto sciopero perturbatore dell’economia da essi pianificata e programmata, non potranno che sempre capitolare di fronte a qualsiasi – anche alla più smodata – rivendicazione dei lavoratori, pur nella consapevolezza degli inevitabili sconvolgimenti causabili nelle loro pianificazioni e programmazioni da ogni non prevista variazione nei costi alla produzione e nei prezzi al consumo e nei quantitativi dei beni prodotti;

b – del fatto che il verificarsi di tali impreviste variazioni, sia nei costi e nei prezzi sia nel volume dei beni immettibili sul mercato, non potrà mai essere subito, da nessuna economia pianificata e programmata senza gravissime ripercussioni diffuse su tutta la loro area, diversamente da quanto invece possibile nelle economie libere, attraverso quei naturali riequilibri ed assestamenti che a tali economie sono consentiti dalla elasticità del loro sistema e dalle riserve di ricchezza di cui esse consentono sempre, in maggiore o minor misura, il formarsi;

c – del fatto, infine, che, mentre, operando nel quadro di una economia fondamentalmente libera, i governanti avranno sempre la possibilità di attingere, come già si è detto, nell’area delle libere intraprendenze produttive i mezzi per soddisfare anche impreviste ed eccessive rivendicazioni salariali di questo o quel settore produttivo o servizio stazionato o nazionalizzato (ad es.: ferrovie ed energia elettrica), invece, in ogni economia impostata socialisticamente (lasciando però sopravvivere le libertà dei lavoratori) i governanti non sapranno più dove attingere tali mezzi.

Non resterà ad essi che l’affannosa empiria del caso per caso, col risultato di regola – secondo di già vissute esperienze – di far scontare un crescente caos economico ed uno stagnante basso tenore di vita alle grandi masse dei consumatori ed a quelle dei contadini; e soprattutto a questi ultimi sparsi su vastissima area e quindi non politicamente pericolosi quanto i lavoratori concentrati nelle aree industriali od adibiti a lavori tali da consentire loro di poter paralizzare un intero Paese col fermarne le centrali o arrestarne i treni, o incrociando le braccia in qualsiasi altro settore o servizio essenziale per la vita della comunità.

Talché sarà veramente inevitabile che ogni tentativo di realizzare una società socialista, facendo sopravvivere la libertà dei lavoratori sempre finisca col porre capo nel caos economico ed in un progressivo generale immiserimento.

Per cui dovrebbe risultare evidente qual sia il grande errore di fondo che è alla base degli ideali e dell’azione politica di quanti si battono contro il liberalismo e per la fine della libertà economica in nome o del socialismo democratico o dei vari giustizialismi e populismi, parimenti democratici (che del socialismo hanno fatto propri i principii fondamentali e gli schemi): l’errore di non intendere come il socialismo non sia realizzabile (e tra l’altro con i risultati, quanto al benessere delle masse, che la Storia sino ad ora dovunque ha registrato) se non nella versione comunista, ed a prezzo della fine di ogni libertà dei lavoratori.

39. E, se quelle sopra indicate saranno le sorti dell’economia in ogni Paese in cui dei socialisti e parasocialisti democratici avranno tentato di realizzare le proprie pianificazioni e programmazioni lasciando sopravvivere totalmente integre le libertà sindacali ed il diritto di sciopero, non più felici saranno in quegli stessi Paesi le sorti di fatto della libertà, anche se tutte le garanzie di queste sopravviveranno inalterate nella lettera della legge.

Infatti, ben difficilmente potrà accadere che dei socialisti e dei para-socialisti sinceramente antitotalitari possano cancellare dalle tavole della legge dei paesi, che essi siano pervenuti a governare, anche solo qualcuna delle inscindibili libertà (spirituali, culturali, politiche, oltre che sindacali) di cui si sustanzia la libertà una ed inscindibile dell’uomo moderno e nel cui esercizio è tutta la sua dignità di persona umana. Ma ciò non implicherà che in quel Paese la fine, sia pur di fatto, della libertà non sia parimenti segnata.

Poiché la libertà potrà vivere veramente – e non essere invece una finzione – solo quando gli uomini non abbiano «la necessità di chiedere – come Luigi Einaudi’ [su "La Riforma Sociale" Anno XXXVIII - Vol. XLII Fase. 3/4 anno 1931] scriveva – l’elemosina del vivere ad una unica forza, si chiami questa Stato, tiranno, classe dominante, sacerdozio intollerante delle fedi diverse da quella ortodossa».

Ed è evidente come “il vivere”, di cui per poter restare un uomo libero, nessuno dovrebbe necessariamente chiedere l’elemosina a chicchessia, non si esaurisca nel solo “vivere animale” ma si estenda al collocarsi di ognuno nella propria comunità a quello, tra i suoi vari livelli, che sia il più adeguato alla propria preparazione ed alle proprie attitudini, nonché il più confacente al ruolo sociale più congeniale alla sua vocazione.

40. Per cui in qualsivoglia Paese, anche quando in esso continuasse a vigere formalmente la democrazia, la libertà non potrà che in effetti morire, allorché – passati dai privati allo Stato tutti, o quasi, i mezzi di produzione – dipende sempre di più da pochi uomini, “il vivere o meno” di un sempre crescente numero di altri uomini.

Infatti, verificandosi una tal situazione, in un sol caso potrebbe essere possibile il sopravvivere della libertà: nel caso, cioè in cui, nel contempo, restasse vivo ed operante, sia nei governanti che nei governati, quel solido sentimento della libertà, di cui Luigi Einaudi, esule in Svizzera nel 1944, parlava, in una delle sue lezioni per gli studenti dell’Università di Ginevra e della Scuola di Ingegneria di Losanna: «Una economia comandata o programmata dall’alto presuppone o cagiona od in ogni modo è inscindibilmente collegata con la tirannia di pochi e la servitù dei più, se nei pochi e nei più manca il sentimento della libertà, se i pochi intendono giovarsi del potere per affermare la propria dominazione ed i più si acquetano al comando e perfezionano le qualità di intrigo, di adulazione e di ubbidienza cieca che giovano a fare ascendere ai posti di comando».

Sennonché, quando in qualsivoglia Paese si sarà verificata la predetta situazione, per cui da pochi uomini dipenderà praticamente tutto “il vivere” dell’intera comunità, vi sarà sempre la comune condizione umana dei governanti e dei governati, con le sue passioni e le sue debolezze, a giuocare con tutto il suo peso contro il verificarsi di quelle che Luigi Einaudi giustamente additava quali le sole possibilità di sopravvivenza della libertà nei Paesi ad economia comandata o programmata dall’alto.

Sarà sempre infatti, da un lato, la loro condizione umana a far sì che, dovunque, i governanti non possano sentirsi giammai disposti a perdere di buon grado il dolce potere, anche di fronte all’evidenza dei più infausti risultati del proprio governare, e di conseguenza a far sì che essi, “i pochi”, siano sempre tratti a valersi, senza limiti, di tutte le leve economiche in loro mani per “affermare la propria dominazione” su “i più”.

Così come, dall’altro lato, sarà sempre la loro condizione umana a fare sì che “i più”, in breve volger di tempo, finiscano dovunque, per la necessità “del vivere”, con “acquetarsi al comando”, col “perfezionare le qualità di intrigo, di adulazione e di ubbidienza cieca che servono a far ascendere ai posti di comando”, e non a questi soltanto, ma anche ad ogni altro posto, sino ai più umili, secondo quanto insegna al riguardo la comune esperienza di vita.

41. Né tutto ciò potrà esser considerato teoria o fantasia perché in qualsivoglia Paese si guardi, tra quelli in cui gli uomini del potere politico si siano trovati nella condizione di dover e poter prescegliere gli altri uomini da preporre alle imprese di produzione statizzate, agli enti economici nazionalizzati, ai servizi pubblici nazionalizzati, ovunque si constaterà come quella scelta sempre sia caduta e cada solo su uomini della stessa parte, o simulanti di essere tali, dei detentori del potere politico; ovunque si constaterà come, presso tutte le predette imprese, presso tutti i predetti enti e servizi, affidati alla direzione dei più fidati uomini dei detentori del potere politico, la appartenenza o meno alla stessa parte politica assurgerà sempre più, col trascorrere del tempo, a condizione essenziale per l’assunzione o meno al lavoro a qualsiasi livello, impiegatizio o operaio per il fare o non fare carriera per assurgere alla fama o restare nell’oscurità.

E quando la consapevolezza di una tal situazione si sarà diffusa tra milioni e milioni di uomini, bisognosi del posto e del pane ed anelanti a quel “vivere” in senso più lato di cui si è detto; quando tra i superstiti uomini delle professioni liberali si sarà del pari consolidata la certezza che consulenze legali, convenzioni di assistenza sanitaria o progettazioni non siano ottenibili da parte di qualsivoglia operatore economico pubblico, dominato dai “pochi” arbitri del vivere di tutti, se non previo allineamento, vero o simulato, sulle loro posizioni politiche; quando identica certezza si sarà diffusa tra il libero commercio per quanto concernente le forniture agli stessi operatori economici pubblici; e quando infine anche per gli organi di Stampa, salvo rare eccezioni per i fogli di ciò non bisognosi, gli ossigenanti contratti della pubblicità dei grandi enti economici pubblici saranno chiaramente subordinati all’allineamento nelle posizioni dei detentori del potere politico; allora nessun settore di una intera comunità potrà salvarsi da un progressivo totale asservimento alle oligarchie del partito e dei partiti detentori del potere politico.

Della libertà non sopravvivrà in effetti se non un fantasma, dietro i cui veli i pianificatori e programmatori, socialisti e parasocialisti democratici (che non avranno osato far sì che il sistema economico da essi perseguito giungesse, nella legislazione del loro Paese, sino ai suoi ultimi sviluppi liberticidi) tenteranno occultare il regime di fatto, negatore della sostanza della libertà, indispensabile ad essi per non essere rimossi dal potere.

42. Dovrebbe risultare ben chiaro da quali ragioni (ben diverse e più alte di quel “padronalismo” che ingiustamente si suole ad essi attribuire) il liberalismo ed i partiti che ad esso si ispirano respingono gli schemi economici del socialismo, anche quando esso si proponga ai popoli con una sincera propria scelta per la struttura democratico-liberale dello Stato e della società.

Il fatto di una tale loro scelta potrà anche consentire, come già si è detto, il verificarsi di contingenti coobelligeranze, tra dei partiti socialisti e parasocialisti democratici e dei partiti liberali, nella concretezza della lotta politica ai fini di una comune difesa dello Stato democratico, contro tutti i suoi nemici (quelli marxisti totalitari ovviamente compresi); e tale loro scelta potrà anche consentire, indipendentemente dal sussistere o meno della necessità di quella difesa, che dei partiti genuinamente liberali e dei partiti socialisti sinceramente democratici talora possano lealmente collaborare felicemente sulla base di un comune programma di governo, espressione della loro comune aspirazione ad una società libera e giusta. Ma le ragione del dissenso di fondo tra liberalismo e socialismo, sia pur democratico (ben diverse da quelle in chiave di una pretesa antisocialità padronale dell’uno e di una socialità antiegoismo padronale dell’altro) possono non essere fatte sempre valere (al di sopra di quelle possibili contingenti loro coobelligeranze e di quel possibile loro governare in comune) da chiunque voglia, oltre che conquistare al proprio Paese un crescente benessere da ripartirsi sempre meglio in una giusta società, restare uomo libero in una comunità di tutti uomini liberi. E ditali ragioni, sarà bene, nel concludere, ribadire le tre seguenti fondamentali:

A – il fatto, confermato da tutte le esperienze, della minore, e di gran lunga, funzionalità di tutte le economie socialistiche, rispetto a quelle liberali, ai fini della conquista di un sempre crescente benessere da parte dei popoli e dei loro ceti meno dotati in particolare;

B – il fatto che, anche ove si volesse prescindere da ciò, due solo sono le vie percorribili dal socialismo democratico e da tutti i parasocialismi che ne abbiano fatto propri gli schemi, una volta che essi siano pervenuti alla guida di qualsivoglia Paese:

a – o quella di consentire che il loro sistema economico si sviluppi, secondo la sua logica interna, sino alla soppressione totale della libertà del lavoro umano (e ciò sino a sottoporre anche questo alla stessa rigida pianificazione e programmazione applicate alla accumulazione del capitale, agli investimenti, alle produzioni ed ai consumi) per essere ineluttabile prezzo della salvezza dal caos di ogni pianificazione e programmazione il servaggio dei lavoratori e quindi di tutta la comunità (tutto ciò alcun uomo libero e giusto non potrebbe mai accettare);

b – oppur l’altra via che, non superando l’ultimo traguardo della soppressione delle libertà dei lavoratori, non potrà che porre capo, però, in altri due risultati parimenti non accettabili da ogni uomo dotato di ragione, oltre che giusto ed anelante a vivere da libero membro di una società liberale: il risultato di un totale caos economico e di un generale immiserimento come conseguenza del fallimento di ogni piano e programmazione, ed il risultato del risolversi de “il Socialismo della speranza” nella seguente realtà: che i detentori del potere politico, conseguito il controllo di tutti o quasi i mezzi della produzione nazionale, si troveranno a poter disporre in effetti di ogni possibilità di lavoro e pertanto divenuti arbitri de “il vivere” o “il non vivere” di tutti e di ognuno, non rinunzieranno a valersi di tutti i mezzi propri dei “regimi illiberali di fatto” per difendere la propria inamovibilità dalla guida del loro Paese;

C – il fatto che anche in tale proposito (consuetamente ammantato dal più alto proposito di consolidare e di difendere la democrazia politica contro l’altro socialismo totalitario) il socialismo ed i parasocialismi democratici sono destinati a fallire.

«Minori probabilità di durata di una schietta e sincera dittatura del proletariato avrebbe attualmente nell’Europa occidentale un socialismo sedicente “temperato” – scriveva poco prima dell’ultimo conflitto mondiale il grande sociologo italiano Gaetano Mosca – che lasciando provvisoriamente e nominalmente sussistere la proprietà privata (ed a maggior ragione, le libertà sindacali) la sottoponesse a tali limitazioni da renderne impossibile il funzionamento».

Un simile regime sarebbe sempre esposto ai violenti attacchi dei comunisti puri, senza avere la forza e l’autorità di respingergli e non disporrebbe di quel margine di ricchezza che è indispensabile per potersi permettere gli sperperi che sono inevitabili anche quando si vuole attuare un socialismo temperato. Per ciò esso, a causa dei suoi insuccessi e delle delusioni che creerebbe, o degenererebbe presto nel comunismo puro o preparerebbe senz’altro il passaggio dall’attuale regime politico ed economico in una dittatura burocratica-militare”.

Se oggi – in tempi pur notevolmente mutati rispetto a quelli in cui Gaetano Mosca formulava tale giudizio – sarebbe parimenti quasi fatale, in qualsiasi Paese, la catastrofe della democrazia politica a seguito delle delusioni e delle miserie determinate da una fallita esperienza di governo de “il Socialismo della speranza”, è di tutta evidenza come a maggior ragione il pericolo di una tal catastrofe sia da prospettarsi in ogni Paese nel quale si abbia una presenza del “comunismo puro” particolarmente massiccia, quale quella in atto nell’Italia contemporanea.

43. Al che è da aggiungersi che, pervenute a maturazione – sotto l’azione di quelle delusioni e nella disperazione di quelle miserie – le condizioni per il verificarsi di una tale catastrofe della democrazia, sarà vano ogni appello in favore della libertà lanciato ad una comunità, cui sarà toccato di vivere l’esperienza di un tale “regime di fatto”.

Perché, nel fondo della sua coscienza collettiva, le grandi ragioni della libertà, pur avendo questa sopravvissuto nella lettera della legge, dopo essersi progressivamente affievolite, avranno cessato del tutto di essere presenti, con un fenomeno opposto a quello normale nei casi in cui la libertà venga invece cancellata dalle tavole della legge, all’instaurarsi al potere di partiti che siano espressione di ideologie programmaticamente liberticide.

Infatti, di fronte al consueto brutale, ma leale “aut-aut” dei realizzatori ditali regimi (“o con noi o contro di noi”) le grandi masse – per quanto di regola tratte ovunque dalle necessità della vita ad un esteriore conformismo nei confronti dei detentori del potere – sentiranno, pur sempre, nel fondo della loro coscienza, presenti (e sempre più persuasive in reazione alla palese immoralità politica di quell”aut-aut”) le grandi ragioni della libertà, ed un crescente rimpianto di questa.

E quando invece quell “aut-aut” non verrà formalmente ed esplicitamente posto dai detentori del potere, ma questi potranno porlo parimenti di fatto mercé l’impiego di tutte le leve economiche in loro mani, ed in effetti lo porranno al fine di condizionare, sempre più rigidamente, la vita dell’intera comunità secondo la loro volontà politica ed in funzione della loro inamovibilità dal potere, allora accadrà che sia proprio quella preziosa presenza delle grandi ragioni della libertà a venir meno, nella coscienza del popolo.

Per cui di regola accadrà che in quelle ragioni, mai sopite ed anzi sempre più rinvigoritesi nella coscienza dei popoli sotto i regimi tirannici a viso aperto, troveranno sempre alimento i grandi moti popolari restauratori, prima o poi, degli istituti e dei metodi della libertà; e di contro, di regola accadrà che nelle democrazie che siano state umiliate, mercé l’uso del potere economico da parte dei detentori del potere politico, veri e propri “regimi di fatto di pochi” nei confronti de “i più”, sarà proprio il progressivo venir meno di quelle grandi ragioni nella coscienza delle masse, deluse dall’esperienza di una libertà apparente, a provocare prima o poi le crisi mortali ditali democrazie od a far sì che passivamente “i più” assistano al maturare della loro catastrofe in favore dei tiranni.

E, col maturarsi della fine della libertà, non già per sua violenta rivoluzionaria soppressione da parte dei suoi dichiarati nemici, ma perché deliberatamente voluta o rassegnatamente subita da “i più” nelle gabine elettorali di una democrazia (giunta al suicidio sotto la convergente azione di un generale sconforto per una crisi economica e di un diffuso invincibile scetticismo circa la idoneità dei regimi della libertà a realizzare il buon governo dei popoli) si consumerebbe nel peggiore dei modi il liberticidio preterintenzionale o colposo che è nel destino di tutti i soppressori della libertà economica, anche quando mossi inizialmente dai più alti ideali di giustizia e di solidarietà umana.

Per cui, per quanto sta agli uomini del socialismo democratico e di tutti i giustizialismi e populismi democratici, sinceramente optanti per la struttura democratico-liberale dello Stato e della società, l’argomentazione di queste pagine liberali non potrebbe avere forse conclusione migliore dell’angosciata domanda, già postasi dall’autore di “Civitas Umana”:

“Non è forse una tragedia commovente, certo una tragedia che noi tutti dobbiamo espiare, se uomini, dei quali non sospettiamo l’onestà nella lotta contro il despotismo e l’umiliazione dell’individuo, vogliono favorire entusiasticamente uno sviluppo che costituisce una delle cause prime ed uno dei principali fenomeni della malattia mortale della nostra civiltà Il?

44. Pertanto non in funzione di particolari ristretti interessi né in difesa di egoistici privilegi si battono ovunque il liberalismo ed i partiti che ad esso si ispirano. La loro presenza ed il loro impegno nella lotta ideale e politica in atto nel mondo sono in funzione di un più alto e generale interesse quale quello di far sì che ad opera di quel male mortale, non vadano perdute le grandi conquiste della civiltà della libertà.

Le conquiste di tale civiltà sono troppo preziose perché, dalla constatazione delle sue purtroppo superstiti non poche ingiustizie, ogni uomo, che non abbia o la vocazione della tirannide o quella del servaggio, possa essere tratto, anziché a servirsi del metodo della libertà per eliminare tali ingiustizie, a lottare invece per condannare il proprio Paese e gli altrui a quel destino da “fortezza dello Spielberg o da convento monastico, senza speranza di riscatto e senza il conforto di una fede religiosa”, che sarebbe stato segnato ai popoli, secondo la profezia di Giuseppe Mazzini nel 1849 – appena un anno dopo cioè, dalla comparsa del Manifesto di Carlo Marx, nel quale in realtà affondano le radici, nonostante ogni loro accomodamento in senso democratico e liberale, tutte le ideologie che al liberalismo si contrappongono, qualificando, in termini marxisti di classe, come “classismo padronale” la sua difesa, nell’interesse di tutti, di un ordine libero anche nell’economia.

 

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