Storia di Remo, a Cagliari, di Gianfranco Murtas
La notizia di ieri della morte del prof. Aiuti mi ha suggerito di recuperare una pagina di storia dolente dei miei tempi passati in ospedale fra i malati (spesse volte detenuti) di aids.
La scomparsa improvvisa del prof. Fernando Aiuti, immunologo noto e valoroso, autorità scientifica e clinica nel campo della lotta all’Aids, mi ha riportato a trascorse, prolungate mie esperienze d’obbligo samaritano. Ne furono necessari rimbalzi di testimonianza sociale i molti libri che ruotarono attorno alla metafora di “Partenia”. In essi anche le storie che mi venivano consegnate, nella confidenza personale, in corsia, o a casa, nei momenti in cui la speranza ancora galleggiava fra diagnosi che altri dicevano o temevano infauste, oppure ancora quando l’exit annunciato induceva qualcuno, con l’energia della più mesta delle impellenze, a lasciare in mani amiche e purtroppo impotenti la prova veritiera di un’esistenza faticata e sconfitta ma pur tuttavia degna e, io dico, santa.
Fra le tante quella Remo. E’ trascorso da allora un ventennio e più. Ma gli amici, tanto più quelli sfortunati, non si dimenticano, non possono dimenticarsi. Ecco perciò qui in recupero quelle pagine che Remo mi ispirò per l’edizione 1996 di Partenia in Callari. Titolai il pezzo, integrato da diversi box di poesia – i versi da Remo fissati su carta precaria e donatami come testamento, proprio come testamento era l’intero racconto autobiografico, e i versi anche consegnati a suo tempo alla rivista Ricominciare voluta dal dottor Sandro Marilotti (al tempo della sua illuminata direzione del carcere di Is Arenas) – Da Mulinu Becciu a Buoncammino ed Is Arenas, e in città l’indifferenza dei più. Con occhiello: Altre storie “brucianti”. I protagonisti non hanno ancora risolto il loro problema. L’eroina è sempre dietro l’angolo. Il testo era ben scritto, marginali dunque gli aggiustamenti formali ritenuti utili per una lettura più scorrevole ed efficace.
La testimonianza-testamento guardava agli scenari non della malattia ma di certa detenzione nata ancora quasi adolescenziale, ai suoi primi arresti e alle sue prime detenzioni. E colpiva per il paradossale (o apparentemente paradossale) intento protettivo di Remo, inerme per mille ragioni sociali e di salute, innocente nel cuore, nei confronti di un funzionario dello Stato – Sandro Marilotti – singolarmente dal “cuore di carne”, come avrebbe detto la Bibbia, accusato ingiustamente e dolorosamente prima di essere scagionato da un tribunale… senza neppure scuse. Remo rovesciò, e con lui invero molti altri si misero sulla sua stessa linea, la scena di Davide e Golia: lui Davide assunse nella sua stessa condizione il direttore del carcere, ne fece un altro Davide, lo promosse suo pari, contro un Golia pagano dal “cuore di pietra” che non poteva ammettere alcuna solidarietà con i deboli ed interpretava all’incontrario la stessa costituzione della Repubblica…
«Sì, la piazza e il carcere, ma sogno la libertà del cuore»
Mentre questo libro è ormai in macchina per la stampa, giunge la notizia che Remo il poeta ci ha lasciati, dopo un ricovero di appena due giorni. Ha trascorso agli “Infettivi”, con la maschera dell’ossigeno, la vigilia ed il Natale 1995. Occhi chiusi, aveva risposto al mio saluto di congedo muovendo il capo e la mano appoggiata, stanca, alla coperta.
Non servono altre parole. Parla lui, con i suoi versi intitolati alla morte, che mi consegnò un giorno, nell’occasione di una mia visita all’ospedale Binaghi, dove pure, fra primavera ed estate, era stato ricoverato insieme con Luciano, che me lo aveva presentato.
Ancora agli arresti, e perciò giustamente rabbuiato, allora manifestava una coscienza leggera, perché era teso, ove secondato dal recupero delle forze fisiche, all’entrata nella Comunità di padre Morittu. Le ore malinconiche che, in cella, avevano ispirato i pochi versi dedicati alla “cupa sorella” sembravano ormai passate…
Sento la Morte coprirmi di scherno
a momenti
mi gratta la schiena
e attende
con la pazienza di un avvoltoio che esali
l’ultimo respiro.
Nella sua ancora giovane esistenza, Remo ha sofferto molto, peraltro come tutti coloro che, ancora adolescenti, sono caduti nella trappola dell’eroina. Non di tutti – e invece sua, ripetutamente – è stata però l’esperienza carceraria, al circondariale o in colonia, tema che costituisce qui il clou del racconto che egli svolge con esemplare chiarezza e coraggio della verità.
A dispetto delle infinite disavventure che l’hanno portato tanto spesso alla ribalta della piccola cronaca nera e giudiziaria cittadina, egli ha mantenuto una cifra morale che ancora lo distingue, impressionantemente, dalla massa nella quale ha militato. Può valere, nel caso, l’immagine di colui che sovente ha cercato di nuotare controcorrente, nello sforzo di non perdere definitivamente l’ancoraggio a quei valori dei quali ha avvertito, quando li ha abbandonati, la nostalgia.
È di carattere affabile ed insieme riservato. E sincero. Si vede da lontano che non bluffa, che ha fatto i conti con se stesso. Confessa anche le sue cadute, che non sono finite, quando ha davanti l’amico ch’egli sa non lo giudicherà mai, e invece cerca di capirlo, l’amico che con lui preferirebbe ragionare sui perché di quel passato remoto che rapsodicamente rimbalza, purtroppo, nell’attualità e pare non voglia mollare la sua presa, il suo protagonista e vittima.
Accenna in ultimo una testimonianza a favore di Sandro Marilotti, il direttore del carcere minorile e già direttore della colonia penale di Is Arenas, ad Arbus, in questi mesi sotto inchiesta e sotto processo. Le parole che scrive, perché restino documento, sono anch’esse rivelatrici del suo animo più profondo.
«Parola mia, parola di Remo…»
Ho deciso di scrivere questa storia, che altro non è che la storia di un ragazzo che venuto a conoscenza della droga ha dovuto incontrare, suo malgrado, anche la strada del carcere. Ma non è tanto di droga che voglio parlare: finirei con l’annoiarvi, perché chissà quante storie come la mia avrete sentito. Infatti la droga dà a tutti le stesse sensazioni e le stesse amarezze.
Voglio invece parlare delle carceri per far capire a chi, fortunatamente, non ne ha avuto un’esperienza diretta ed a quelli che ne hanno sentito parlare soltanto alla tv o alla radio, come si vive dentro un carcere, e con questo far capire la differenza che possa esistere fra la vita in un carcere giudiziario (o chiuso) e quella che è possibile in una colonia penale (carcere all’aperto, naturalmente quando si lavora).
Debbo però dire, all’inizio, due parole su di me, su Remo bambino e adolescente, sui perché e sui modi attraverso cui sono arrivato anch’io al carcere.
Sono nato in un paese del Sulcis: Domusdemaria, un migliaio soltanto di abitanti. Per ragioni di lavoro mio padre doveva venire a Cagliari, e dunque finì per trasferirsi in città con l’intera famiglia. Era il “fatidico” 1968: io avevo due anni ed ero l’ottavo figlio di una serie di undici.
A cinque anni mio padre subì un brutto incidente, che gli costò tre mesi di coma. Per aiutare mia madre, allora, alcune zie decisero di ospitare me ed i più piccoli di casa da loro. Io andai con la sorella di mio padre a Gadoni in provincia di Nuoro, che era il loro paese natale.
Alle elementari, perciò, mi iscrissi lì. Dai miei, a Cagliari, venivo soltanto d’estate. Mi ci trasferii definitivamente quando avevo, mi pare, 12 anni. A causa di un’appendicite, infatti, dovetti ricoverarmi in città, e qui rimasi per iscrivermi al terzo anno delle medie, conseguendo infine la licenza. Ho raccontato tutto questo per farvi capire che la mia infanzia e una parte dell’adolescenza le ho trascorse in paese, senza quasi saper nulla della città.
In quello stesso periodo due miei fratelli – uno più grande e l’altro più piccolo di me – finirono in carcere e, saputolo, da allora nella mia testa cominciò a frullare un senso di inferiorità nei loro confronti. Il minore si divertiva a raccontarmi i suoi piccoli furti ed io lo ascoltavo con interesse, con curiosità. Iniziai così a frequentare i suoi amici ed iniziai anche a rubacchiare per sentirmi pari a loro, e pure io, mi ricordo, mi divertivo a raccontare come andava quando si usciva per rubare qualcosa.
Una notte ci beccò la polizia (avevo appena 16 anni) e per la prima volta conobbi un carcere, anche se devo dire che, quella volta, non capii nemmeno dove mi trovavo, perché ci rimasi appena un giorno.
Dopo questo episodio i ragazzi più grandi del quartiere, quello di Mulinu Becciu, cominciarono a sentire la mia storia e cioè a sentire come era andata la notte prima, e quindi mi aggregai a loro.
La cosa mi piaceva, perché mi faceva sentire importante, sicché continuai a rubare ed a divertirmi a raccontare. Così fino al giorno in cui, per mia disgrazia, sentii parlare di eroina. La curiosità si faceva sempre maggiore e volevo provare. Lo feci e per me finì il divertimento: rubavo per la droga. Mi arrestarono qualche mese più tardi per scippo. Seguirono una marea di denunce o qualche nuovo arresto sempre per furto d’auto.
Da allora il carcere era diventato, per me, quasi una “cosa normale”, una cosa di tutti i giorni, perché ogni giorno rischiavo di finire in cella, dato che – come ho detto – se prima rubavo per il divertimento e per il gusto di raccontarlo sapendo che qualcuno ascoltava, dopo combinavo le cose più assurde e spericolate per il bisogno dei soldi necessari per procurarmi le dosi di droga.
Adesso posso dunque parlare della mia esperienza di detenuto.
Faccio riferimento a due carceri (uno chiuso ed uno aperto) dove si sono svolti i fatti che sto per raccontarvi.
Comincio col carcere giudiziario di Cagliari, il famigerato Buoncammino: un carcere che, quando sono aperti i due bracci (destro e sinistro), arriva ad ospitare persino 600 detenuti per volta mentre la struttura può accoglierne un massimo di 300!
Le carenze sono un po’ dappertutto: dal personale di polizia penitenziaria a quello medico e paramedico dell’istituto. Come carcere funziona poco o nulla. È stato definito da molti come una specie di lager nazista… Certo, non sono tutti detenuti modello, ma qui di un’erba si fa un fascio, tant’è vero che l’équipe sanitaria che dovrebbe controllare lo stato di salute dei reclusi molte volte compie anch’essa dei veri e propri arbìtri nei confronti dei detenuti nascondendosi dietro le divise delle guardie: ti fanno sbattere la porta in faccia! Parlo così perché è vergognoso che per un semplice mal di denti non si possa avere una pastiglia se non compresa nella tabella di terapia. Sarebbe come dire: il dolore o ti viene a quell’ora o te lo tieni. Ho assistito a scene raccapriccianti: un detenuto chiedeva cortesemente una compressa e allo sghignazzare prima della guardia di servizio con le parole «vuoi la terapia?» (il riferimento era ad un ansiolitico – il Minias – che serve a calmare i bollori dei detenuti nervosi), si aggiungeva subito il secco no del paramedico di turno con le parole «mi dispiace ma non ce l’hai nella terapia». Sicché il detenuto si è dovuto tagliare le braccia per poter ottenere ciò che chiedeva, in quel caso un semplice calmante.
In questo posto vige la legge della lametta: chi non la usa non ottiene nulla e si tiene il dolore, mentre chi la usa rischia seriamente una bella cura di calci e schiaffi da parte delle guardie come ringraziamento del disturbo che gli ha causato.
Però devo ammettere una cosa, e cioè che alcuni degli operatori, purtroppo una piccola percentuale, hanno sentimenti umani, di rispetto e di comprensione della sofferenza altrui. Essi sanno valutare le situazioni.
Poi c’è da parlare della vita del detenuto nel carcere di Buoncammino, stipato in celle di 16 mq. circa dove a volte si sta in 8 o 9 persone (ma so di affollamenti anche maggiori).
Le celle sono predisposte per sei (due castelli da tre ai lati della stanza), ma essendo maggiore il numero degli ospiti si monta un altro castello pure da tre letti, rendendo lo spazio assolutamente insufficiente per tutti. Dunque si fa quasi a turno per poter stare giù dai letti…
Entro quei 16 mq. della stanza c’è anche, separato da una porta, il “bagno” costituito da un cesso alla turca e da un lavandino. Sicché anche come igiene non siamo certo al massimo.
Un angolo della cella è adibito alla cottura. Lì un compagno di stanza si diletta ai fornelli da campeggio a preparare i pasti per tutti, perché il vitto che passa l’Amministrazione è spesso immangiabile.
Da questa situazione si può “evadere” per tre ore al giorno, due al mattino ed una al pomeriggio, nel cortile interno per sgranchirsi le gambe.
Infine non esiste un’attività ricreativa. Tranne i pochi fortunati che possono partecipare a dei corsi professionali di informatica o quelli, pure pochi, che frequentano la scuola (elementare e media), gli altri si trovano tutto in cella: medico, matricola, scrivano… Tra poco si faranno in cella persino i colloqui coi familiari!
Queste verità (perché sono proprio verità) daranno certamente fastidio a qualcuno che cercherà la controffensiva, ma di questo mi importa poco.
Giunto a questo punto eccomi a quel 26 maggio del 1991, una data per me importantissima. Alle 6 del mattino arriva la guardia di servizio e chiamandomi a voce alta mi dice di prepararmi la roba, causa trasferimento. Gli chiedo cortesemente per dove, e lui con aria scocciata mi risponde che non ne sa nulla…
Mi accorsi che avevo paura, ma feci come mi disse e preparai le mie cose. All’arrivo in matricola trovai altri due detenuti e la scorta dei carabinieri che doveva effettuare la traduzione. Chiesi ai compagni di viaggio se erano informati della destinazione e mi risposero picche. Allora con un po’ di furbizia e con un giro di parole seppi da un giovane carabiniere che saremmo andati a Is Arenas. La paura svanì di colpo, anzi mi rallegrai perché andavo a raggiungere mio fratello partito un mese prima proprio in quel carcere.
Il viaggio durò circa un’ora e mezzo, ma dal cellulare privo di finestrini non riuscivo a capire dove eravamo. Ci fecero scendere vicino ad un caseggiato dove aveva sede l’ufficio matricola e lì notai subito il cambiamento, cominciando dagli operatori. Cortesemente ci invitarono ad entrare uno per volta nell’ufficio per le dovute pratiche e schedamenti. In quel periodo il direttore di Is Arenas era il dott. Sandro Marilotti, che è stato successivamente accusato di una sfilza di reati, che a lui non si addicono ed ora spiegherò perché.
Dottor Sandro, come un fratello maggiore
Il dott. Marilotti per i reclusi di quel posto era una sorta di padre che cercava di educare al meglio il proprio figlio, un fratello maggiore che cercava di proteggere il suo fratellino, ma soprattutto era un amico al quale ci si poteva affidare, chiedere consiglio senza bisogno di nessuna domandina: bastava recarsi in matricola e lui era lì pronto ad ascoltarti.
I primi giorni in quel carcere ero meravigliato, felice. Non sembrava nemmeno un carcere: le camere erano aperte, c’era disponibilità dappertutto, una sala col biliardino, il ping-pong, e poi il campo sportivo (aperto un giorno alla settimana) e nel cortile dell’aria un campo di pallavolo. Era stupendo, come passare dall’inferno al paradiso.
Il lunedì ci chiamò il maresciallo e ci assegnò i posti di lavoro: io ero in una squadra di manovali. Ci occupavamo di tagliare le canne per costruire in spiaggia dei tettucci ombreggianti (cosa che ha costituito uno dei punti d’accusa nei confronti del dott. Marilotti).
La mia pena finiva in quel di agosto, esattamente il 27, e devo dire che il tempo passò talmente in fretta che neppure me ne accorsi. Ora dopo tutto questo mi pongo una domanda come si può denunciare ed offendere un uomo che altro non ha fatto che cercare di far pesare meno possibile a tanti ragazzi la situazione in cui si trovavano cercando di far dimenticare loro che, in fondo, anche quello era un carcere, organizzando incontri di calcio (vedi la partita disputata con la Comunità di San Mauro di padre Monttu a cui partecipai pure io), di pallavolo (con una squadra di ragazze di Fluminimaggiore e cui segui un rinfresco voluto da noi stessi tassandoci di una quota a persona affinché ciò non entrasse nel bilancio di gestione del carcere: eravamo noi che lo volevamo, non ci costringeva certo il direttore a farlo…). .
A molte di queste manifestazioni partecipava persino il Presidente del Tribunale di Sorveglianza e anche lui può certamente definire o giudicare che tipo di uomo era ed è il dottor Sandro Marilotti…
Versi dalla cella
All’amico drogato
Come stai?
Ti sei fatto la tua
pera quotidiana?
Hai rubato?
Ti sei prostituito?
Hai tradito
i genitori e gli amici?
Forse stai fumando avidamente
pensando a che punto
sia la tua nullità.
O forse sei stravolto
da brividi nella schiena
che annullano la tua volontà
che ti fanno maledire
la volta che hai iniziato.
O forse sei morto
in qualche casa abbandonata
in qualche cesso puzzolente
solo, con la tua spada
conficcata nelle vene
unica compagna
della tua squallida vita.
Droga assassina
Via via
così magro e pallido
indossi il tuo jeans
e la camicia bianca
con gli occhi spenti
e la faccia stanca
trascini il passo dietro
di te
ed io mi domando
ancora il perché
vuoi rovinare la tua
giovane vita
appena iniziata
e già quasi finita
fra un buco
e un altro di eroina
volerai troppo in alto
qualche mattina
su una panchina abbandonata
troveranno il tuo corpo
e una storia emarginata
o nelle tasche
tra sigarette e insulina
troveranno la spada assassina
diranno
se loro parlano
certo non sanno
che dietro una vita
bruciata
c’è l’indifferenza
di una società
spietata.
Libertà
Chiuso dentro
quattro mura
è il umore 1
dei chiavistelli
che mi ossessiona
una chiave che
gira per aprire
o chiudere
una orribile porta
fatta di sbarre
a cui ancora
non ho fatto abitudine
e quando arriva la notte
silenziosa e tranquilla
il mio cuore si rallegra
sapendo che un altro
giorno è passato
e che ormai
è in arrivo la cosa
più desiderata, la cosa più bella
la Libertà.
Lametta
Aspetto con ansia
di essere interrogato
ma il magistrato
ha altri casi
da sbrigare
e mi fa aspettare
penso e ripenso
alla mia condanna
ma non ho paura
e tengo la calma
il mio amore
mi scrive che sta male
ma io qui rinchiuso
non la posso aiutare
mi scervello cercando
qualcosa da fare
mi giro e rigiro
in tutti i posti
e senza che me ne renda conto
la lametta
ha già reciso
i miei polsi
il sangue sgorga lento
ma non mi lamento
e pian piano
mi sento mancare
sento a malapena
i compagni
che fanno di tutto
per farmi rinvenire
Amore ti amo
tanto da morire.
Ricominciare
Vorrei fermare
il tempo
tornare indietro
nel passato
non ripetere l’errore
che la mia ingenua giovinezza
mi ha fatto conoscere:
un tunnel
senza fine
chiamato Eroina
ma il tempo
non si ferma
e non si può
tornare indietro
si può solo
Ricominciare.