Marina Valdès e i suoi studi sull’isolotto di San Simone nella laguna di Santa Gilla, di Gianfranco Murtas

E’ stato uno dei più brucianti venuti a stringere una certa area di cagliaritani, in questo ormai declinante anno 2018, il lutto per la scomparsa, dopo tanto coraggioso combattere, di Marina Valdès. Personalità nota e stimata, stimatissima nel mondo della ricerca storica, accademica e no, e, di lato, dell’amministrazione pubblica (a molte anime) impegnata nella protezione e valorizzazione dei nostri beni culturali: fra essi quelli, preziosissimi, archivistici, di cui lei era specialista.

E’ stata pianta la sua morte per il tanto, però, che Marina ha rappresentato prima ancora che come studiosa e funzionaria pubblica, per la dolcezza del tratto, giusto riequilibrio di una volontà di ferro e disciplina nelle sue varie applicazioni, negli studi soprattutto, per la naturale socievolezza che pur amava anche combinare con lunghi silenzi riflessivi, per l’amore alla città “vissuta”, l’amore al mare sardo e di casa, per l’appassionato, orgoglioso e insieme discreto radicamento familiare, ché dire Valdès a Cagliari ha significato, per un secolo intero, molte cose e tutte belle: a cominciare dalla storica e premiata tipografia che molto ha contribuito alla vita civile cagliaritana, agli studi e alle pubblicazioni, alla diffusione delle produzioni associative, politiche od amministrative  e religiose del capoluogo e della Sardegna tutta, ed a proseguire poi con le professioni, gli uffici camerali, la letteratura.

Nel tempo in cui il rischio della perdita della memoria si fa, con tutta inumana sgradevolezza, incombente, c’è un modo forse per trattenersi ancora nella società dei viventi, nella storia presente, oltre le barriere dell’esclusione – esclusione spesse volte impietosa nel suo preannuncio, nella sua progressività, com’è stato nel caso di Marina, e soltanto temperato dall’amore dei più vicini. E’ quello cui le donne e gli uomini di studio e di scrittura possono appellarsi, suscitando e raccogliendo risposte all’altezza: la fruizione pubblica sempre più larga, e nuova, dei risultati delle loro ricerche durate anche mesi e anni, come una preghiera laica continuata e tesa a ricomporre i complessi percorsi della storia che ci ha preceduti ed ha preparato il nostro oggi. Una storia dalle molte stagioni, talvolta contraddittorie fra loro, talvolta originali per gli assetti sociali o economici che ha saputo elaborare, per le tavole valoriali, di cultura civile e di costume che ha suggerito ai ceti alti ed al popolo del lavoro lungo i secoli.

Penso ora proprio alla nazione sarda, a quel che fu la Sardegna e furono i sardi nei secoli altomedievali che precedettero e infine accompagnarono gli influssi delle potenze italiane, perfino il dominio catalano-aragonese. La Sardegna giudicale prima di quella a soggezione delle repubbliche marinare e degli iberici, nella fase aragonese come poi in quella spagnola.

Ripenso agli agganci documentati di quella storia remota, secolo dopo secolo, cui anche Marina Valdès ha dedicato il meglio delle sue energie. Certamente hanno contato in questo i suoi maestri, il professor Francesco Cesare Casula fra tutti a Cagliari, l’ “intimità” archivistica coltivata con le carte raccolte nel tempo da Ovidio Addis per il suo centro culturale, che fu anche nobilmente pedagogico, a Seneghe: quell’Ovidio Addis il cui patrimonio librario e archivistico lei stessa ha curato nelle fasi,  burocratico-amministrative oltreché di schedatura, della liberale donazione da parte della famiglia al demanio dello Stato.

Ben a ragione uno dei figli di Ovidio Addis, Gabriele, ha posto in rilievo come attraverso i documenti raccolti nell’archivio preziosissimo e il carteggio largo e importante sviluppato dallo studioso teuladino – storico ed archeologo – in accompagno ai propri studi sui libri e alle ricerche condotte sul campo, Marina Valdès abbia colto i tratti veri e più profondi della sua personalità: «è lei che meglio e più di tutti ha studiato e capito la figura di mio padre. Prima, dal 1988, ordinando l’archivio storico e, successivamente, l’archivio privato. E dalle carte, gli appunti, la corrispondenza, è rimasta tanto affascinata dal personaggio da considerarlo non più o solo un oggetto di studio, ma un amico presente e sempre vicino. Tanta e tale è diventata la confidenza che per Marina non era più Ovidio Addis, ma semplicemente Ovidio».

Sotto certi profili muovendo anch’io dalle produzioni di Ovidio Addis, di cui speriamo di poter presentare a breve in edizione una raccolta ordinata, in questi mesi seguiti alla sua morte ho pensato a mia volta di onorare Marina rivedendo i suoi saggi, i suoi articoli, i suoi contributi di archivista- storica. E andando subito, per amore speciale alla materia, agli atti dell’incontro di studio “Storia, ambiente fisico e insediamenti umani nel territorio di S. Gilla (Cagliari)” svoltosi in città, sotto l’egida universitaria, il 3-5 novembre 1983, ho naturalmente recuperato anche il suo contributo, nel volume S. Igia capitale giudicale, Pisa, Ets editrice, 1986, dal titolo Documenti sull’isolotto di S. Simone nella laguna di Santa Gilla.

Due pagine di introduzione a una dettagliata descrizione delle carte – ben 59 – fra regesti e trascrizioni – rielencate doviziosamente e anticipazione del più corposo studio consegnato poi ad Archivio Storico Sardo, vol. XXXV, Cagliari, 1986 (miscellanea in onore di Giovanni Todde).

L’argomento – sa Illetta, o San Simone cioè – è stato, negli anni, forse quello prediletto da Marina ricercatrice ed archivista, per il fascino, forse, che dalla maggior città di mille anni fa, sotterrata e immaginata, viene spontaneo e raggiunge il nostro tempo. Perché poi, partendo dalla stagione giudicale, sa Illetta (sa Illetta di San Simone) è come una protagonista materiale, e testimone, di questi mille anni che, da Orzocco Torchitorio I vengono a noi, raccontandoci a noi stessi, mettendoci in relazione con arcivescovi, ordini religiosi e signori di vario grado della scala feudale e delle gerarchie ora spagnole ora piemontesi. E così le pertinenze, la casa, la chiesa, la campagna, le messe a produzione e reddito, le relazioni sociali dei proprietari – una decina di famiglie in successione –, gli interventi di artigiani, i contratti di lavoro agricolo.

La scheda bibliografica di Marina Valdès include ripetutamente il tema, offerto con modalità diverse o per aspetti diversi, nelle più varie circostanze convegnistiche oltreché in pubblicazioni collettanee o personali. Ad iniziare, potrei ricordare, dal titolo della sua dissertazione tesistica per la specializzazione: Documenti inediti sull’isola di San Simone nello stagno di Santa Gilla, per andare a Sa Illetta: Cagliari da scoprire, in Almanacco di Cagliari 1988, oppure a Isola nella laguna in AA.VV. Cagliari tra terra e laguna: la storia di lunga durata di San Simone-sa Illetta, AMD, 2012, ecc.

Ecco qui, per intanto, integralmente riprodotto, il testo di studio offerto ad Archivio Storico Sardo.

 

Sa Illetta, mille anni: religione, agricoltura e allevamento

1) I proprietari.

Le fonti medievali sull’isolotto di S. Simone sono piuttosto lacunose. Probabilmente in epoca giudicale esso faceva parte delle pertinenze di Santa Igia, e con questa fu ceduto all’arcivescovo di Cagliari dal giudice Orzocco Torchitorio I fra il 1059 ed il 1089 (1).

Tre secoli dopo l’isola apparteneva ancora alla mensa arcivescovile di Cagliari che l’affittava ricavandone annualmente 13 lire e 10 soldi: tale era il canone pagato dall’affittuario trecentesco Bertuxo Pujades (2).

Sullo scorcio del secolo XIV, l’isola fu oggetto di una concessione in perpetuo a favore della città di Cagliari la quale, a sua volta, la lasciò a Ramon Boter. È quanto risulta da un’annotazione posta in un registro della Curia Arcivescovile di Cagliari: Despuis fonch donada a cens perpetuo a la ciutat y la ciutat la dexa a mossen Ramon Boter ab lo mateix creut... (3).

Inoltre dal «manuale» tenuto dal 1396 dal collettore delle rendite della mensa arcivescovile, Matteo Rapaccio, risulta che ogni anno, nel giorno della festa di S. Michele di settembre, il Boter pagava «de cens» 13 lire all’arcivescovo (4).

A questo punto il titolo del possesso dell’isola da parte di Ramon Boter non sarebbe del tutto chiaro, se non intervenisse a far luce sulla questione un atto di permuta stipulato tra l’arcivescovo e Matteo Rapaccio, ora in qualità di priore del monastero vittorino di S. Saturno, il 24 ottobre 1405. Per questo atto, che ebbe vigore solo sino al 1477, quando il papa Eugenio IV aggregò i beni del priorato di S. Saturno alla mensa arcivescovile di Cagliari, l’arcivescovo otteneva dal priore il monastero di Santa Lucia, cedendogli in cambio le chiese di S. Leonardo e di S. Simone ed ancora Tresdecim lirs. dicte monete censuales, annuales et rendales, cum directo dominio et laudimio Xlll partis precii et fatica decem dierum, quas tresdecim lirs. venerabilis Raimundus Boter, habitator dicti Castri, facit anno quolibet in festo Sancti Michaelis mensis septembris de censu dicte mense archiepiscopali pro insula Sancti Simonis… (5).

Risulta quindi chiaro che l’isola non era stata data al Boter a censo riservativo, nel qual caso ne sarebbe divenuto proprietario, bensì con un contratto di livello in cui il censo stava ad indicare il canone annuo da pagarsi e non il tipo di contratto. Infatti, come spiega il Loddo Canepa, riprendendo la teoria del Fertile, «la pratica e le leggi operarono una fusione dei due istituti e cioè del livello e dell’enfiteusi, da un lato permettendo l’alienazione anche nei livelli, ma con l’obbligo di denunziarlo al proprietario, che aveva diritto al laudemio ed alla prelazione; dall’altra imponendo anche all’enfiteuta di domandare, di tempo in tempo, la rinnovazione della concessione» (6).

Nel già citato registro della Curia sono poi frettolosamente annotati, ma senza estremi cronologici, i successivi passaggi: Ramon Boter dexa (l’isola) a son sogre Simon Roig al qual fonch empenyat lo dit cens per preu de CL l. et y he quitat de mossen Luis de Castelvì et I. a comprat mossen Alonso Carrillo ab mateix creut de XV l.

Purtroppo l’imprecisione, già notata, del testo e l’assenza di altri documenti più circostanziati impediscono di stabilire se, attraverso questi passaggi (magari nel momento in cui i beni del priorato Vittorino di S. Saturno furono aggregati nuovamente alla mensa cagliaritana) (7), il contratto di livello fosse stato sostituito da un vero contratto di censo riservativo; per quanto la sinteticità della annotazione faccia presupporre un semplice avvicendamento di utilisti.

Quello citato è comunque l’ultimo documento in cui si fa riferimento ai diritti della mensa arcivescovile. Nessun riferimento a tali diritti è infatti presente nei pur numerosi documenti cinquecenteschi relativi all’isola che, dal 1567, si trova stabilmente nelle mani di Pietro Sabater che pare esserne proprietario a tutti gli effetti.

Il Sabater, notaio ricchissimo, aveva acquistato nel 1549 la scrivania della Procurazione reale per 1.300 ducati d’oro (8) e, fra il 1559 ed il 1560, aveva ottenuto dal Procuratore reale, in enfiteusi perpetua per sé e per i suoi discendenti, le tre bocche del rio di Uta (dette de Susu, de Josso, de Bayardo) per coltivarvi alcune peschiere e le due isole, site nel delta di questo fiume, dette Isca de ois e Sa coa (9).

Da chi o in che modo avesse poi acquistata anche l’isola di S. Simone non è specificato in alcun documento, né è intuibile, mentre in molti [atti] si legge che egli la possedeva «per i suoi giusti e legittimi titoli». E tuttavia da escludere che l’isola appartenesse al patrimonio regio e che il Sabater ne avesse ottenuto la concessione dal procuratore reale (10).

Quanto alla data dell’acquisto, ritengo che si possa porre fra il marzo 1566 ed i primi mesi dell’anno successivo (11).

È sicuro che la possedesse alla data del 7.4.1567 quando il procuratore reale, concedendogli il permesso di affondare alcune balze d’acqua salata e di aprirvi un canale per farvi entrare il pesce, lo chiamava appunto «signore dell’isoletta di S. Simone» (12).

Qui il Sabater incrementò le colture cerealicole e viticole, che per secoli resteranno predominanti nella economia dell’isolotto, dirigendo egli stesso, direttamente o tramite un amministratore (13), quella che per l’epoca doveva essere, come si vedrà, un’azienda agricola moderna. L’isola si popolò dunque di servi, di guardiani e di massai, ai quali ultimi, così come ai pescatori, il Sabater darà un segno tangibile della propria benevolenza, lasciando per disposizione testamentaria la somma ragguardevole di 825 lire affinché il suo erede dotasse ogni anno, con le 50 lire della pensione, alternativamente una figlia di massaio ed una figlia di pescatore (14).

Alla morte del Sabater, avvenuta il 1°. 8.1593 (15), quella che egli affettuosamente chiamava «la mia illeta» passò a suo nipote Giovanni Dexar, figlio di Noffre Fabra e Dexar e di Caterina Sabater. Giovanni Dexar, che fu procuratore reale come già era stato suo padre, morì verso il 1610 (16) lasciando due figli, Simone e Maria.

Morto anche Simone, Maria il 21.3.1611 ricevette dal nonno, curatore dell’eredità del nipote, l’isola di S. Simone, le peschiere e la scrivania della Procurazione reale perché «prendesse stato» (17).

Cessò in questo periodo la gestione dell’isola «in economia» da parte dei proprietari; ed infatti, nello stesso anno 1611, Francesco Virde Melone, signore di Pozzomaggiore e marito di Maria Dexar, la arrendò all’arcivescovo di Cagliari, monsignor d’Esquivell, per il prezzo annuo di 325 lire (18).

L’isola fu ancora arrendata nel 1613 a tale Pietro Spiga e nel 1615 a Salvatore Berrello e Giovanni Pou del regno di Maiorca (19).

Il 16 agosto 1619 Maria Dexar, rimasta nel frattempo vedova e senza figli, lasciò in usufrutto l’isola e gli altri beni paterni a sua zia Marianna Dexar (20) ed al marito di lei Paolo Castelvì, marchese di Cea, inserendo nell’atto un patto di fedecommesso a favore del loro figlio Giorgio che avrebbe ottenuto quei beni alla morte del padre e della madre (21).

Paolo Castelvì morì vedovo nel 1650 e da allora, e per parecchi decenni, l’isola appartenne a Giorgio Castelvì, prima come usufruttuario e poi, dal 1667, anno in cui morì senza figli Maria Dexar, come proprietario (22).

È questo il periodo più povero di notizie, anche perché Giorgio Castelvì passò la sua movimentata esistenza fuori dalla Sardegna (23).

È facile che i suoi beni in Sardegna fossero amministrati da un procuratore e che l’isola venisse data in affitto come negli anni precedenti.

Da Giorgio Castelvì l’isola di S. Simone passò a suo nipote Michele Cervellon, figlio di sua sorella Vincenza e di Bernardino Mattia (24).

Michele Cervellon, marchese di Conquistas nel 1704, continuò probabilmente a dare l’isola in affitto, come fece nel 1715 affittandola per cinque anni al valenzano Francesco Barco (25)

Alla morte del marchese di Conquistas, avvenuta l’anno successivo 1716, l’isola restò in usufrutto alla vedova M. Angela Pilo che la cedette a sua figlia Maria Vincenza Cervellon nel 1734, all’atto della stipulazione dei capitoli matrimoniali fra quest’ultima e Antonio Giuseppe Guiso Manca e Zapata marchese d’Albis. L’isola in quella occasione fu valutata in 10.000 lire (26).

Rimasta vedova, Maria Vincenza Cervellon sposò nel 1758 Francesco Vico ma morì senza lasciare figli nel 1763 (27).

Nel 1768 iniziò una causa fra il procuratore fiscale patrimoniale e Francesco Vico per la devoluzione al fisco dell’eredità Conquistas, comprendente la cosiddetta baronia della Crucca in territorio di Sassari, lo stagno di Platamona o di Sorso, le scrivanie dei veghieri di Sassari e Bosa, due peschiere nello stagno di Cagliari, le isole di Isca de ois e Sa coa nello stesso stagno e l’isola di S. Simone.

Per quanto riguarda Cagliari, mentre le peschiere e le isole di Isca de ois e Sa coa erano state concesse in enfiteusi a Pietro Sabater ed ai suoi discendenti, fra i quali non poteva annoverarsi il Vico, il possesso dell’isola di S. Simone non aveva, come si è già detto, la stessa origine. Intanto non risulta che essa fosse stata mai gravata da censi o da altre prestazioni, mentre si può ricordare il già menzionato appellativo di «signore dell’isoletta di S. Simone» dato al Sabater dal governatore reale nel lontano 1567.

Il procuratore fiscale patrimoniale, in mancanza di pezze giustificative valide, basava dunque la propria pretesa sul principio che le «le isole appartengano al padrone di cui sono le acque che la formano», e poiché l’isola di S. Simone era formata dalle acque dello stagno reale, dichiarato regalia sovrana già nel 1339, anche l’isola doveva intendersi «effetto reale» (28).

La causa si protrasse per poco meno di 60 anni oltre che contro il Vico contro la sua vedova, Mariangela Pilo, usufruttuaria dei beni, e la sua erede e nipote Speranza Vico; successivamente contro la figlia di quest’ultima, Teresa Amat Vico ed infine contro il barone di Sorso Vincenzo Amat Amat, nipote ex sorore di Teresa Amat. Fu questi infatti che nel 1826 riuscì a concludere la causa con una transazione per cui, rinunciando alla proprietà della Crucca di Sassari, restò padrone dell’isola.

Questa fu infine venduta all’inizio del ’900, per 18.000 lire, all’industriale Giovanni Balletto i cui eredi ne sono tuttora proprietari.

2) La casa.

Il nucleo principale della casa ha attualmente una pianta ad «L» il cui lato lungo è composto da un piano terreno ed un primo piano. Sulla facciata orientale due corpi laterali contrapposti sporgono rispetto al corpo centrale il quale è retto da 4 contrafforti e presenta all’interno tre stanze ed un stretto corridoio con volte a crociera. Il lato corto della L, leggermente avanzato, è invece costituito da un ambiente di vasta proporzione a pianta rettangolare (m. 9 x 7 circa), coperto da quattro volte a crociera sorretta da pilastri sui muri perimetrali e al centro da una colonna di epoca altomedievale col suo capitello.

Questo ambiente, chiamato nei documenti cantina o magazzino del vino, comunica con l’esterno attraverso un ampio portale sul lato settentrionale e con l’interno della casa attraverso un piccolissimo disimpegno il cui accesso è ora murato (29).

Intorno alla casa è un vasto cortile chiuso a nord e ad ovest da una serie di «lolle».

I documenti notarili e principalmente gli inventari, attraverso i quali si sono potuti seguire gli ampliamenti subiti dalla casa, hanno permesso di stabilire che l’intera costruzione fu realizzata in epoche diverse e in almeno 4 fasi successive.

Il nucleo originario della casa deve essere attribuito al primo sicuro proprietario dell’isola, Pietro Sabater.

A partire dal settembre 1567 questi stipulò numerosi contratti con vari mastri del circondaroo di Cagliari, e soprattutto di Quartu, per la costruzione nell’isola di tapies, cioè blocchi di fango la cui misura, che non conosciamo, era stata fornita direttamente dal Sabater attraverso quattro diversi campioni.

La costruzione delle tapies continuò ininterrotta sino alla primavera dell’anno successivo, impiegando per circa sette mesi da 10 a 15 persone (30).

Si costruirono così i muri perimetrali, mentre fra il 1569 ed il 1570 si compirono i lavori di rifinitura e copertura. Infatti nel marzo del 1569 il Sabater ordinò per l’isoletta una partita di 2.300 mattoni cotti e quadrati da Sebastiano e Truiscu Marini (31), nel maggio stipulò un contratto, articolato in vari capitoli, con gli scalpellini Pietro Milanes e Baldassarre Ferra per la costruzione delle volte grasse, fatte cioè di pietra e calce, e della scala (32), ed infine nell’ottobre ordinò a S. Sperate 7.500 canne (33).

Purtroppo nel protocollo notarile non è riportato per intero il contratto con gli scalpellini, in cui dovevano essere descritti dettagliatamente i lavori da farsi ed i materiali da usarsi, tuttavia la breve annotazione che è rimasta di quell’atto, messa in relazione a tutti gli altri documenti, ci indirizza senza possibilità di dubbio verso quella parte della casa, ancora intatta, composta dalle tre stanze ed il corridoio con volte a crociera e dal magazzino del vino che, a parte le più vaste dimensioni, non pare presentare differenze di stile né di materiali, cioè di tecnica, rispetto alle precedenti stanze.

L’inventario dei beni del Sabater redatto alla sua morte nel 1583 (34) conferma l’ipotesi.

Da esso, per quanto la casa sia descritta solo sommariamente, e solo in quanto contenitore di oggetti, si ricava chiaramente che il corpo principale della casa era formato da 3 stanze (forse da una quarta, ma potrebbe trattarsi del corridoio) (35), e dal magazzino del vino. Vi erano poi, esternamente, la cosiddetta «casa della paglia» e tre altre stanze adibite al ricovero degli animali ed a deposito.

Se dunque il corpo più antico della casa può essere datato fra il 1567 ed il 1569-70 e se il magazzino del vino, a seguito di analisi approfondite sui materiali e sulle tecniche di costruzione delle volte, risultasse, come ora pare, contemporaneo al resto della casa, la colonna altomedievale che ne sorregge le volte non può che essere materiale di recupero.

Ci si può chiedere però da dove provenissero colonna e capitello, se cioè fossero stati trovati nell’isola – il che testimonierebbe di una costruzione rilevante già nell’altomedioevo – oppure se fossero stati trasportati nell’isola per lo scopo preciso a cui furono e sono tuttora destinati.

Personalmente propendo per quest’ultima ipotesi, soprattutto per il fatto che una colonna uguale a quella si può ancor oggi vedere nel sito della città giudicale di S. Gilla, a qualche centinaio di metri dall’isola di S. Simone.

Ora, se le rovine di quella città erano facilmente individuabili nell’800 (36), tanto più dovevano esserlo tre secoli prima, per cui doveva essere estremamente facile scegliere lì i materiali ancora utilizzabili e, data la vicinanza, trasportabili. Ritengo inoltre che, se Pietro Sabater avesse fatto costruire la sua casa sopra i resti di un edificio precedente, qualche riferimento ad esso, seppure tenue, sarebbe emerso in qualcuno dei numerosi contratti, vista anche la meticolosità con cui sono redatti. È evidente comunque che solo uno scavo archeologico potrebbe confermare quanto i documenti sembrano abbondantemente dimostrare.

Ma abbandonando il campo delle ipotesi e tornando ai più concreti documenti, da essi sembra potersi rilevare una discrasia fra la costruzione progettata e quella realizzata.

Le volte e la scala commissionate agli scalpellini testimoniano chiaramente della volontà del Sabater di edificare un primo piano, che non risulta però nell’inventario del 1583.

Che cosa abbia impedito questo ampliamento della casa non sappiamo e le spiegazioni potrebbero essere diverse: ristrettezze economiche, difficoltà di reperire manodopera specializzata impiegata alle fortificazioni di Cagliari, difficoltà della vita nell’isola?

Può darsi che vi sia stata una concorrenza di tali fattori; è certo però che la cessazione dell’attività edilizia coincide anche con la riduzione della manodopera impiegata nell’agricoltura e quindi con un ridimensionamento globale dell’azienda agricola, in funzione della quale ritengo che fossero stati costruiti la casa e la cantina.

Qualche elemento che lascia pensare ad una ripresa dei lavori edilizi compare nell’inventario del 1583 da cui risulta la presenza nell’isola di 100 carri di calce e di 7.000 canne.

Purtroppo però non ho documenti che attestino l’ampliamento della casa prima del 19 luglio 1716, data in cui fu redatto l’inventario dei beni di Michele CerveJlon (37).

A quella data la casa, che è definita «grande», constava di una sala, di una stanza da letto «in cui sono soliti dormire i signori di questa isoletta», una stanza delle visite, una stanza del frumento, il magazzino del vino e, genericamente, i sottani.

Poiché sottano significa comunemente piano terreno, dovremmo pensare che la sala, la stanza da letto e quella delle visite fossero al primo piano.

Ma questa ipotesi non è confermata, se non parzialmente, nei capitoli matrimoniali di Maria Vincenza Cervellon del 9 agosto 1734 (38), in cui la casa risulta composta da un sottano (qui, chiaramente, il piano terreno), per tre quarti a volte (sono le stanze del Sabater) e per un quarto «terreno», dalla cucina e dal magazzino del vino; al piano superiore (arriba) risulta invece che vi fossero solo la sala e due terrazze coperte (soteas) (39), in una delle quali si apriva la bocca di una cisterna (40).

La stanza delle visite (41) e la stanza da letto dovevano essere dunque al piano terreno, in un’ala nuova rispetto alla costruzione del Sabater.

Da quanto si è detto emerge comunque che all’inizio del ’700 la casa di S. Simone era utilizzata, oltre che come deposito, anche come residenza signorile, seppure saltuaria. A questo doppio uso si devono perciò riconnettere sia l’ampliamento e la sopraelevazione della casa, sia l’impianto di una cucina la cui presenza è attestata nel 1734. Naturalmente il termine «residenza» vuole avere qui un significato molto ampio, in quanto l’abbondanza di tavoli e la mancanza di letti lasciano pensare che la casa della Illeta fosse piuttosto una meta di gite in comitiva che luogo per lunghi riposi.

Basti pensare che nell’inventario dettagliato del 1716, di adatto al riposo vi era un solo materasso, seppure nuovo, senza letto, il che fa dubitare che i signori dell’isolotto fossero soliti dormirvi, a meno che non trasferissero i letti dalla città all’isola e viceversa ogni volta che servivano.

Semmai un uso meno sporadico si può pensare per l’800 in cui sono attestati lavori di riparazione, verniciatura, intonacamento e rifinitura (42) e ancora di ampliamento, nonostante la causa col fisco ancora in corso. La casa raggiunse la sua dimensione pressoché definitiva nel dicembre 1826, come risulta dalla sua descrizione dettagliata, in un inventano di quella data, fatta fare dal barone di Sorso Vincenzo Amat prima di appaltare l’isola per sei anni all’avvocato Canopia ed al signor Spagnolo (43). La casa constava allora di un primo piano formato da sette stanze (di cui una nuova), il salone, un ingresso da cui si accedeva al terrazzo sopra il magazzino del vino, un «comodo, ossia lattrina» ed un magazzino, utilizzato probabilmente per riporvi le provviste.

Una scala di 17 scalini portava al piano terreno dove si trovavano oltre che le stanze ricordate anche nei precedenti inventari, due cucine, una nobile ed una per la servitù. Le stanze a volta solida erano utilizzate come magazzino per la paglia, mentre il magazzino del vino risultava «fabbricato in alto con travi per collocarvi i cupponi», le cui tracce sono ancora ben visibili sulle volte.

All’esterno della casa, nella «piazza rustica», vi erano tutte le bile in buono stato, il pozzo, due cisterne, le vasche e gli abbeveratoi per gli animali.

Al ’900 si devono infine attribuire la parte della casa ora adibita a cabina elettrica (che costituisce, sulla facciata orientale, il corpo sporgente sul lato settentrionale), il muro di cinta e di magazzini esterni prospicienti l’entrata dei magazzini del vino i quali, in particolare, pare che siano stati costruiti da prigionieri austriaci deportati nell’isola durante la grande guerra (44).

3) La chiesa.

Nei documenti su S. Simone, la chiesa dedicata al Santo appare solo marginalmente. Vale comunque la pena di riportare, le notizie ricavate, relative per lo più al suo ben modesto tesoro.

Dall’inventario dei beni di Pietro Sabater del 1583 (45) risulta che in una stanza della casa, dentro una cassa di noce chiusa a chiave, si trovano un calice d’argento dorato con la sua patena in una teca di legno ricoperta di pelle nera; 2 copricalice, uno di seta ed uno di tela da mettere sopra l’ara; un’ara (cioè la pietra santa); una borsa di damasco bianco guarnito di seta leggera e oro contenente corporali e animetas; un sacchetto col cordone; una stola, il manipolo e la casula di stoffa rossa senza guarnizioni, foderati di tela nera; un contenitore per ostie; un messale usato. Nella chiesa si trovavano poi una tovaglia d’altare ricamata in azzurro, un paliotto in oripelle con l’immagine di S. Onofrio (46); due candelabri di legno; il retablo di S. Simone; una regola per la campana; nel campanile una campana di misura media; nella piazza una vasca di marmo con bassorilievi (forse un’acquasantiera).

È questa la descrizione più precisa del tesoro della chiesa che appare più ricco rispetto a quello descritto nell’inventario del 1716. In questo infatti, a parte un corredo sacerdotale più completo (casula, stola, manipolo, cingolo e amitto), compaiono ridotti gli arredi dell’altare (due tovaglie, i corporali, il calice nuovo con la sua patena, una campanella di bronzo, un messale nuovo e due animetas nuove), ed inoltre non c’è più traccia dei «pezzi», più interessanti: i candelabri, l’acquasantiera, il paliotto con S. Onofrio, il retablo di S. Simone (47). Quanto a quest’ultimo esso fu forse rimpiazzato da un più comune quadro che risulta nei capitoli matrimoniali di M. Vincenza Cervellon del 1734 (48) ed è ricordato ancora nel 1827 (49) insieme all’altare, la pietra santa, la grade, diciotto candelieri di diversa grandezza e qualità ed una conchiglia di marmo per l’acquasanta (forse quella che c’è ancora).

L’unica descrizione dettagliata del quadro è quella offerta dallo Spano che visitò l’isola il 6 aprile 1859: «Nella chiesuola antica con abside e con volta a lunette non vi è da osservare che un quadro grande, smangiato nella parte inferiore dai sorci. Nella parte superiore vi è dipinta la Vergine che dà il latte al Bambino: al lato destro la Vergine di Bonaria, che ha lo stemma dell’ordine, ed una barchetta in mano, al sinistro vi è Sant’Antonio. In mezzo vi è S. Simone, ed ai lati S. Pietro e S. Giovanni Battista. Era un bel dipinto di buon colorito e di buona mano. La parte inferiore è stata ritoccata malamente, alla quale non risparmiarono poscia i sorci» (50).

Della campana, ricordata nei tre successivi documenti del 1583, 1716 e 1734 conosciamo invece la storia: essa rimase nel campanile della chiesa sino ai primi di questo secolo quando il marchese di S. Filippo Vincenzo Amat, vendendo l’isola a Giovanni Balletto, la portò via come ricordo. La campana stette per lungo tempo nella casa Amat finché non fu versata come ferro «alla Patria» negli anni della seconda guerra mondiale.

Nel campanile di S. Simone sta ora una campana di incerta provenienza recante un’iscrizione in lingua tamulica in cui si ricorda il villaggio della chiesa cui la campana appartenne (51).

Insieme alla campana Vincenzo Amat portò via anche il chiavistello della porta della chiesa, ma questo non andò perso ed è tuttora in possesso dell’attuale marchese di S. Filippo. Anch’esso fu sostituito dai Balletto con una serratura novecentesca con motivo di spighe, uguali esemplari della quale si trovano nel palazzo Balletto di Cagliari.

Quanto ai lavori edilizi nella chiesa, da un solo documento, del 1822, risulta che in quell’anno la chiesa fu imbiancata all’interno dal mastro Francesco Garrucciu, per conto dell’allora proprietario, per il prezzo di 5 lire (52).

Quanto alle spese per la festa di S. Simone, che si celebrava il 28 ottobre nella laguna con grande parata di barche e lotta col bastone fra diverse imbarcazioni (53), esse erano a carico dei possessori dell’isola. Nel 1826 Giovanni Canopia e Pietro Spagnolo, nel prendere in appalto l’isola, si obbligavano infatti a «fare a loro carico e spese l’annua festa del Glorioso Apostolo S. Simone nella stessa guisa e sì e come sempre si è accostumata a fare, tanto dagli appaltatori passati, come dal tempo che l’ebbe esso prefato signor barone in economia senzacché perciò possano prettendere indennizzazione alcuna» (54).

Per avere la misura di questo onere, si può ricordare che negli anni 1828-1840, Vincenzo Amat spese annualmente per la festa 15 lire (55).

4) La campagna.

Per quanto possa apparire strano, nei documenti su S. Simone i riferimenti all’attività della pesca sono inesistenti, né dai vari inventari si rileva la presenza di attrezzi pescatori.

Al contrario è assai documentata la vocazione agricola dell’isola, specialmente a seguito delle grandi trasformazioni fondiarie di cui fu artefice il Sabater.

Anche per l’agricoltura e la viticoltura gli anni 1567-1570 rappresentarono infatti un periodo di grande attività, in cui furono impegnati oltre 20 massai con contratti, per lo più di soccida, annuali e pluriennali (56).

Un inventario fatto dal guardiano dell’isola nel dicembre del 1568 (57) testimonia di questa fervida attività attuata con abbondanza di attrezzi, fra cui spiccano 15 zappe e 19 zapponi, chiaramente proporzionati al numero dei braccianti.

Per quanto attiene alla viticoltura nello stesso inventario sono elencati gli strumenti per la lavorazione dell’uva e del vino e vi compaiono un tino, 6 recipienti, 5 quartarole, 6 botti e 2 imbuti. Fu questa attività che il Sabater dovette pensare di poter incrementare ulteriormente, quando, nell’aprile 1569, ordinò ad un bottaio di Stampace ben 24 botti grandi (58).

Dobbiamo ritenere però che il progetto del Sabater non abbia avuto buon fine in quanto nell’inventario redatto alla sua morte (1583) (59), nella quentina vi erano, oltre che i soliti tini e recipienti vari, solo 12 botti e, di queste, una non era finita e due contenevano grano.

Il Sabater possedeva un’altra vigna «in termino vineti Calari», gravata da un censo e da vari diritti (laudemio, firma e fatica) a favore della confraternita dei calzolai (60): è possibile perciò che parte delle botti ordinate nell’aprile 1569 servisse per questa vigna e non per quella di S. Simone.

Tuttavia anche la produzione cerealicola nel 1583 appare ridotta rispetto a quella del 1568: non solo risulta dimezzato il numero delle zappe e degli zapponi (ora rispettivamente 10 e 7), ma a fronte dei 234 starelli di grano e orzo presenti nell’inventario del dicembre 1568, nell’agosto 1583 ne compaiono solo 80 e mezzo e, considerate le diverse stagioni dell’anno a cui si riferiscono queste cifre, il divario dovrebbe essere ancora più accentuato.

Questa crisi produttiva, d’altronde, spiegherebbe bene anche il mancato completamento della casa: progettata, come credo, per essere adibita in parte a magazzino e in parte al ricovero di massai, servi e guardiani, la crisi della produzione, e quindi dell’occupazione, avrebbe eliminato il presupposto stesso dell’utilità di un suo ulteriore ampliamento.

Naturalmente, però, il vuoto documentario degli anni 1571-83 non permette di dare una risposta sicura a tale problema, mentre è anche pensabile che, dopo i primi anni di lavori straordinari per l’impianto dell’azienda, la manodopera si fosse stabilizzata su livelli di normalità e che la produzione fosse diminuita a favore del pascolo per il bestiame o a favore di altre colture, più redditizie dei cerali e meno bisognose di manodopera.

Accanto alla vite, risulta come particolarmente rilevante la coltura del lino, attestata abbondantemente nel 1583 dalla presenza di 600 manegues di piante e da 6 imbuti di semi.

Le provviste trovate nella casa d’abitazione del Sabater nel castello di Cagliari (61) forniscono altri elementi utili a completare il quadro delle coltivazioni praticate a S. Simone, seppure in misura assai limitata. A parte il vino «canonat» che indica anche il vitigno impiantato nell’isola, il Sabater conservava 60 chili di uva passa (panchas), 20 chili di fichi, 2 recipienti di olive e 2 di capperi, fave, melagrane, uva e miele. Ciò significa che nell’isola vi era qualche albero da frutto (fichi e melograni), qualche olivo, e che forse si praticava l’apicoltura.

Né nell’isola mancava l’allevamento del bestiame, rappresentato da 12 capi bovini, 3 mule, 4 asini, i cavallo (agueta), utili per lo più al lavoro (62). Nessuna grande differenza nel tipo delle coltivazioni praticate risulta dall’inventario dei beni di Michele Cervellon (1716) (63), in cui compare ancora l’importanza della vigna, ora in fase di ingrandimento, e dei cerali, raccolti in quell’anno in misura di 57 starelli il frumento e 22 starelli l’orzo (64).

Risultano invece notevolmente ampliati il numero e la varietà degli attrezzi per il lavoro, mentre maggiormente ordinato appare il magazzino del vino, ora adibito esclusivamente a contenere 25 botti di misura intermedia e gli strumenti necessari alla viticoltura.

Più varia risulta invece la qualità del bestiame: oltre a 6 gioghi di buoi ed un cavallo, compaiono infatti 34 capi ovini di «Barberia», 22 suini, fra cui 18 «ocisorgius», e tutto un vasto campionario di animali da cortile, galli, galline, oche e tacchini. La presenza di quindici alveari testimonia dell’attività apicola, già ipotizzata per l’epoca del Sabater.

Nei capitoli matrimoniali di M. Vincenza Cervellon sono ricordati invece gli alberi di mandorlo, i fichi e i gelsi piantati nella vigna(65).

Un pianta topografica dell’Archivio di Stato di Torino, dei primi dell’800, ci offre l’indicazione esatta della posizione delle diverse colture: la vigna è a nord della casa, il grano e l’orzo a ovest e a sud, il resto incolto o a prato (66).

Ma un inventano veramente dettagliato delle piantagioni fu fatto solo nel 1826, quando il barone di Sorso appaltò l’isola a Giovanni Canopia e a Pietro Spagnolo (67).

In questo inventario è ancora la vigna a conservare la maggiore considerazione con 20.054 «fondi» di vite in due «girate», 173 mandorli, 104 fichi, 18 gelsi, 13 ulivi, 10 susini, 5 peri e 3 albicocchi in essa piantati. Vi era poi un pergolato con 45 viti, un cardale con 1.000 «fondi» di cardi e, nello spazio fra giardino e cardale, 7 melograni e 3 melicotogni. Nella piazza fra la casa e la chiesa di S. Simone erano piantate 26 palme e 10 pioppi.

Due anni dopo, in seguito alla morte dello Spagnolo, il Canopia recedette dal contratto (68): l’isolotto venne alternativamente affittato (69) o amministrato in economia dal suo proprietario, Vincenzo Amat.

A lui, ai suoi eredi ed agli incentivi del governo, si deve l’impianto di un grande oliveto che sino a pochi anni fa costituiva l’aspetto più caratteristico di S. Simone (70).

 

Note

 

(1) Così A. BOSCOLO, Rendite ecclesiastiche cagliaritane nel primo periodo della dominazione aragonese, in «Archivio Storico Sardo», XXVII, 1961, p. 14 e nota 50, cui si rimanda per la bibliografia relativa. Per il giudice Torchitorio I v. Genealogie medioevali di Sardegna, a cura di L. L. BR00K, F. C. CASULA e altri, Cagliari-Sassari, 1984, p. 79 e passim.

(2) ARCHIVIO DELLA CURIA ARCIVESCOVILE DI CAGLIARI (d’ora in avanti A.C.A.C.), Diversorum, libro I(A), c. 47.

(3) Ibidem.

(4) v. J. TRENCHS, Il manuale della collectoria di Matteo Rapaz in Sardegna, 1396-1408, in «Medioevo. Saggi e Rassegne», n. 8, 1983, pp. 97-98.

(5) A.C.A.C., Pergamene, n. 34.

(6) F. LODDO CANEPA, Dizionario archivistico per la Sardegna, vol, Il, estr. da «Archivio Storico Sardo», vol. XXI, 1936-39, alla voce «Censo», pp. 16-17.

(7) Sulle ultime vicende dei priorati Vittorini v. A. BoscoLo, L’abbazia di S. Vittore, Pisa e la Sardegna, Padova, 1958, p. 104 e ss.

(8) ARCHIVIO DI STATO DI CAGLIARI (poi A.S.C.), Antico Archivio Regio (poi A.A.R.), VoL. BC. 27, c. 439: l’annuo canone da pagarsi alla regia corte era di un ducato d’oro, più altri 100 per diritto di laudemIo. Il 26 febbraio 1562 Pietro Sabater rivendette la scrivania della Procurazione reale dei Capo di Logudoro a Matteo de Giglio per il prezzo di 2.000 lire: A.S.C., A.A.R., vol. M. 3, cc. 137 v° – 139.

(9) A.S.C., A.A.R., vol. L. 5, n. 55. Le concessioni, fatte dal procuratore reale Giovanni Fabra il 14.11.1559 e il 10.1.1560 furono confermate da Filippo II il 28.2.1562: per esse il Sabater era tenuto a pagare ogni anno, nel giorno di S. Giovanni, la cifra simbolica di 10 soldi e la quarta parte del pescato. ARCHIVIO PRIVATO AMAT DI S. FILIPPO (poi A. AMAT), DD. 5° bbb (=57), cc. 6 – 6v°.

(10) Tale condizione giuridica sarebbe risultata evidente negli atti della causa iniziata nel 1768 per devoluzione al fisco dell’isola.

(11) In data 8.3.1566 Pietro Sabater vendette un censo di 70 ducati d’oro, ipotecando tutti i suoi beni fra cui non risulta l’isola di S. Simone; l’11.1.1571 ne vendette un altro di 60 ducati ipotecando anche quella. Cfr. rispettivamente A.S.C., Atti notarili sciolti della tappa di insinuazione di Cagliari (poi A.N.S.), vol. 886, carte Sabater (notaio Geronimo Ordà) e A.S.C., Atti notarili legati della tappa di insinuazione di Cagliari (poi A.N.S.), vol. 1501, cc. 3-5 (notaio Geronimo Ordà). Per carte Sabater intendo dicare un gruppo di 33 carte sciolte, contenute nel vol. 886 del notaio Ordà, che si riferiscono al Sabater. Le carte riguardano gli anni 1565-1571, non sono numerate e contengono anche alcune vere e proprie minute di atti, scritte e firmate dal Sabater e da questi inviate ai notaio Ordà perché stendesse l’atto pubblico. Le carte Sabater si devono distinguere da quello che indicherò come protocollo Sabater che è invece intero protocollo notarile, sempre relativo al Sabater, e contenuto nello stesso volume 886. Il protocollo Sabater è composto da 12 sesterni con carte numerate da 12 a 152 (manca il primo sesterno con carte 1-11) ed in esso sono registrati tutti i contratti stipulati dal Sabater con muratori, massai ecc. per la fornitura di beni o di manodopera. È forse, nell’A.S.C., l’unico esempio di protocollo «personale».

(12) A.S.C., A.A.R., vol. BC. 35, c. 24 v°.

13) Nel 1583 l’amministrazione dell’azienda era affidata ad un nipote dei Sabater, Gaspar Manzilla. Cfr. A.S.C., A.N.L., vol. 1557, cc. 227-230.

(14) Ibidem.

(15) A.C.A.C., Quinque libri, Libro di Castello (1571-84), c. 28 v°.

(16) Del periodo in cui l’isola fu sua abbiamo solo un contratto di soccida per grano, orzo e fave stipulato per 5 anni col massaio Coco Manca di S. Avendrace il 23.6.1592: v. A.S.C., A.N.S., vol. 70, cc. 64-66, (notaio Michele Angelo Bonfant).

(17) A.S.C., A.N.S., vol. 74, (notaio Bonfant): l’atto prevedeva che se Maria non avesse avuto figli, i beni ceduti a lei sarebbero andati a Marianna Dexar ed al marito di questa Paolo Castelvì, che a loro volta li avrebbero poi lasciati ai loro figli ad esclusione del primo (che fu poi Giaime Artal di Castelvì).

(18) A.S.C., A.N.S., vol. 74 (notaio Bonfant).

(19) Ibidem.

(20) Marianna Dexar era figlia di Onofrio Fabra e Dexar (vedovo di Caterina Sabater) e di Aldonza di Castelvì: v. l’inventario dei beni di Michele Cervellon in A. AMAT, AA. 2°. KK (= 30), voce 101. Sposò Paolo Castelvì il 26.7.1604 e morì presumibilmente nel 1632: il suo testamento, del 14.6.1632, fu redatto dal notaio Diego Cau: v. A. AMAT, AA. 2°. KK (= 30), voce 249.

(21) A.S.C., A.N.S., vol. 265 (notaio Melchiorre Dessì). Nell’atto si specifica che la donazione non sarebbe stata valida se Maria Dexar avesse avuto figli propri, ma non ne ebbe neanche dal secondo marito, il conte di Almaino, che Maria Dexar aveva sposato il 24.10.1619.

(22) Maria Dexar morì a Madrid nel 1667 e nel suo testamento (del 6 marzo, notaio Juan de AtzardIa, Madrid) nominò Giorgio Castelvì suo erede universale: vedi A. AMAT, DD. 3°. dd, del 26.5.1667 in cui il delegato di Giaime Artal di Castelvì, procuratore di suo fratello Giorgio, prende possesso delle peschiere e dell’isola di Isca de ois (si tratta di una copia del 1838, tratta a sua volta da una copia presentata in giudizio nella causa vertita nel 1703 fra Michele Cervellon e gli arrendatori dello stagno).

(23) V. la sua biografia curata da B. ANATRA, in Dizionario biografico degli Italiani, Roma, 1979, vol. 22, pp. 22-24.

(24) Non si sa né il tempo, né il modo di questo passaggio di proprietà. Esiste nell’A. Amat, AA, 2°. KK (= 30), voce 62, l’indicazione di una «transazione tra don Giorgio di Castelvi e don Michele di Cervellon per cui passò in dominio di don Michele di Cervellon l’isoletta e la peschiera de Isca de ois, possedute un tempo dalla contessa di Almaino» (mancano le indicazioni necessarie a reperire l’atto: data topica e cronica, nome del notaio). L’isoletta di cui si parla è chiaramente quella di Isca de ois, ma non si può escludere che anche l’isola di S. Simone fosse entrata in possesso di Michele Cervellon già prima della morte di Giorgio Castelvì.

(25) V. A. AMAT, AA. 2°. ii, voce 810: l’arrendamento è del 23.5.1715 (notaio Giuseppe Manca di Cagliari). Francesco Barco compare poi come testimone nell’inventario dei beni di Michele Cervellon.

(26) V. A. AMAT, AA, 3°. gg (= 29), cc. 6-6 v° (notaio Michele Efisio Usai). Le peschiere furono valutate in 5.000 lire.

(27) Il testamento di M. Vincenza Cervellon è del 17.1.1758 (notaio, Francesco Serra). Gli inventari dei beni da lei lasciati, compilati dallo stesso notaio fra la fine del 1763 e l’inizio del 1764, si trovano in A.S.C, Registri della tappa di insinuazione di Cagliari – città, vol. 607 (marzo 1764), cc. 385 e ss.

(28) V. A. AMAT, DD. 5°. bbb (= 57): sentenza della reale Giunta patrimoniale del 3.12.1808 favorevole alla devoluzione al fisco di tutti i beni citati. Per quanto riguarda la condizione giuridica dello stagno v. Carta Reale 9.9.1339 in A.S.C., A.A.R., vol. B.6, c. 104; sulla caccia e la pesca nello stagno v. Pregone 16.9.1513 in A.S,C., A.A.R., vol. B. 12/2, c. 354.

(29) V. fotografia: la pianta è stata eseguita a cura della Sovrintendenza Archivistica per la Sardegna.

(30) A.S.C., A.N,S., vol. 886, protocollo Sabater (notaio Geronimo Ordà), cc. 47 v°-48 v°; 49 v° – 50 v°; 52; 58; 62-63.

(31) Ibidem, cc. 96-97.

(32) Ibidem, cc. 97-97 vo.

(33) Ibidem, cc. 112-112v°.

(34) A.S.C., A.N.L., vol. 1559, cc. 180-182 (notaio Geronimo Ordà).

(35) L’inventario inizia con questa frase: «Nella casa di questa illeta si trova il seguente…» (e sono indicati vari oggetti); successivamente sono nominate tre camere. Ora, se casa è un errore per camera, le stanze erano quattro, altrimenti si deve intendere che quei vari oggetti si trovassero in un altro luogo che camera non poteva definirsi, quale era il corridoio.

(36) Basti pensare alla carta geografica del Lamarmora che indica esattamente le rovine di S. Gilla: v. L. PILONI, Le carte geografiche della Sardegna, Cagliari, 1974, Tav. CVIII.

(37) V. A. AMAT, AA. 2°. ii (=29), cc. 64-66 (notaio Giuseppe Manca).

(38) V. A. AMAT, AA, 3°. gg (= 29), cc. 6-6 V° (notaio Michele Efisio Usai).

(39) Dallo spagnolo azoteas: v. M.L. WAGNER, La lingua sarda, Berna, 1951, p. 213.

(40) Il dato è confermato anche in A. AMAT, dd. 4°. tt (= 29) (notaio Demetrio Satta), del 1826, al punto 17° dell’inventario.

(41) Alla pieca delle visite si fa riferimento nella stima, fatta dal marmorero milanese Domenico Copazzi, del valore dei tavoli e di un fornello presenti nell’isola alla morte di M. Vincenza Cervellon: due tavoli di marmo, uno di vari pezzi di pietra ed il fornello furono valutati totalmente in 105 lire: A.S.C., Registri della tappa di insinuazione di Cagliari-città, vol. 607, c. 386.

(42) A. AMAT, DD. 4°. pp (=26). I lavori furono eseguiti in seguito al subappalto dell’isola accordato dal barone di Sorso don Vincenzo Amat al marchese di Laconi don Ignazio Aymerich in data 1.10.1822. La stima dei lavori da farsi fu eseguita dal regio architetto Franco, ma furono commissionati al muratore Francesco Garrucciu solo i più urgenti. Per i lavori eseguiti nella casa nel 1861 v. A. AMAT, Appalti, 77. [n. 436/31.

(43) A. AMAT, dd. 4°. tt (=29), (notaio Demetrio Satta).

(44) L’impiego di un forzato è attestato anche nel 1833-37; v. A. AMAT, Amministrazione, n. 64. Risulta poi nell’inventario del Sabater (1583) un ceppo di prigione, il che fa sospettare che anche in quell’epoca ci si servisse di manodopera di quel tipo.

(45) A.S.C., A.N.L., vol. 1559, cc. 180-182 (notaio Geronimo Ordà).

(46) Forse era stato donato dal genero del Sabater, Onofrio Fabra e Dexar.

(47) A. AMAT, AA. 2°. ii, cc. 64-66 (notaio Giuseppe Manca).

(48) A. AMAT, AA. 3°, gg, c. 6.

(49) A. AMAT, AA. 4°,tt. (notaio Demetrio Satta).

(50) G. SPANO, Guida della città e dintorni di Cagliari, Cagliari, 1861, rist. anast., pp. 334-35.

(51) L’individuazione della scrittura e la decifrazione dell’iscrizione sono stati effettuati dalla Sacra Congregazione per l’Evangelizzazione dei popoli (Propaganda Fide). Il tamil (o tamul) è una lingua dravidica parlata nell’India sud-orientale e nella parte settentrionale di Ceylon.

(52) A. AMAT, DD. 4°. pp (notaio Demetrio Satta).

(53) F. ALZIATOR, I giorni della laguna, Cagliari, 1977, p 61 che riprende sostanzialmente quanto dice lo Spano aggiungendo qualche dato bibliografico.

(54) A. AMAT, DD. 4°. tt (= 29).

(55) A. AMAT, Amministrazione, n. 64.

(56) A.S.C., A.N.S., vol. 886, protocollo Sabater, cc. 41 v°-42; 43 v°-44; 48 v°-49; 66 v°-67 v°; 87 v°-89; 109-110 v°; 117 v°-118 v°; 147-148. Il contratto di soccida prevedeva che i massai lavorassero nell’isola il frumento l’orzo, le fave e i legumi o a giornata o a cottimo (scarada), riservando al Sabater metà del lavoro; quest’ultimo dal canto suo, doveva fornire un aiutante (ximiloni) per ogni stareIIo di grano e orzo.

(57) A.S.C., A,N.S., protocollo Sabater, cc. 89 v°-91 v°.

(58) Ibidem, cc. 100 v°-101 v°

(59) A.S.C., A.N.L vol. 1559 cc 180-182.

(60) A.S.C., A.N.S., vol. 886, protocollo Sabater, cc. 95 v°-96, del 15.2.1569.

(61) A.S.C., A.N.L., vol. 1559, cc. 191-192, (notaio Geronimo Ordà).

(62) Ibidem, cc. 180-182.

(63) A. AMAT, AA. 2°. ii, cc. 64-66.

(64) A. AMAT, AA. 2°. ii, cc. 61 v°-62, n. 846.

(65) A. AMAT, AA. 3°. gg., c. 6. Alla morte di M. Vincenza Cervellon furono trovati un cupon di 200 quartini; 5 botti di 100 quartini; 1 cuppone per mettere la vinaccia; 2 quartarole di 20 quartini; 1 tino; 1 tino per vendemmiare; 1 tino piccolo e 1 imbuto: il tutto fu stimato dal bottaio Salvatore Pau e dal falegname Nicolao Pinna, del valore di 44 lire, 7 soldi e 6 denari: v. A.S.C., Registri della tappa di insinuazione di Cagliari-città, vol. 607, cc. 385-86.

(66) L. PILONI, Op. cit., tav. XCIII. Tale pianta rende evidente che la porta del magazzino del vino si apre verso nord in corrispondenza della vigna.

(67) A. AMAT, DD. 4°. tt.

(68) Ibidem.

(69) L’isolotto fu affittato per due anni sino al 28.10.1830 al mastro Battista Barri per il prezzo di 375 lire annue: v. A. AMAT, Amministrazione, n. 63, dal 28.10.1828 al 28.10.1829. V. anche A. AMAT, Appalti, 77 n. 436/1 (notaio Vincenzo Serra) da cui risulta che il 2.2.1858 il barone di Sorso affittò l’isolotto per nove anni al maestro muratore Giuseppe Dessi per il prezzo annuo di lire 950.

(70) Tutti i documenti citati, relativi all’isola di S. Simone, parte a regesto e parte in trascrizione, sono in corso di pubblicazione a cura dello stesso autore in S. Igia capitale giudicale, in Atti dell’incontro di studio Storia, ambiente fisico e insediamenti umani nel territorio di S. Gilla (Cagliari), Cagliari 3-5 novembre 1983.

 

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