Vigilia di Natale in Sardegna, di Daniele Madau

EDITORIALE DELLA DOMENICA,  della Fondazione.

Poiché nessuno della tua gente è cristiano, per questo so che sei il migliore di tutto il tuo popolo: perché tu sei cristiano. Mentre infatti tutti i barbaricini vivono come animali insensati, non conoscono il vero Dio, adorano i legni e le pietre, tu, per il solo fatto che veneri il vero Dio, hai dimostrato quanto sei superiore a tutti”.

Questo è il celebre inizio dell’epistola di Gregorio Magno a Ospitone (Hospiton), il capo dei barbaricini che abitavano la parte centrale e montuosa della Sardegna.

In questo tempo, in una parte del mondo per la quale, secondo Croce, ‘non possiamo non dirci cristiani’, non possiamo neanche non parlare del Natale, come momento di luce, di vita nuova, di divino che si fa carne e ‘pone la sua tenda in mezzo a noi’.

Sappiamo bene come la data del 25 dicembre – come altri aspetti del cristianesimo- sia figlia del sincretismo religioso, che ha portato a scegliere la festa del solstizio d’inverno del Sol Invictus come giorno di nascita di Gesù Cristo; e sappiamo anche che, per quanto riguarda noi sardi, quei legni e quelle pietre hanno un posto importante, forse archetipo, nel nostro immaginario e nella nostra cultura. Eppure, nel 2018, in Sardegna, dobbiamo ancora avere l’umiltà e il coraggio di pensare al nostro essere uomini di fronte al mistero del divino.

Innanzittutto questi sono tempi di dialogo con le gerarchie ecclesiastiche, per cui si sta finalmente concretizzando il tempo delle celebrazioni in sardo, così che, per citare Bachisio Bandinu, permettiamo a Dio ‘di esprimersi nella nostra lingua’.

Secondariamente, proviamo a ricordare le figure di santi e beati sardi o di santità acquisita in Sardegna: beata Mesina, Sagheddu, fra Nicola, fra Ignazio, suor Nivoli, e  ancora ce ne sono da ricordare.

Hanno interpretato valori sardi – il silenzio non d’omertà ma di preghiera, il lavoro, il sacrificio di sè – hanno benedetto la nostra terra.

La nostra terra, ecco: è ancora povera, è ancora prostrata, forse è ancora schiava di economie oppressive; è ancora , quindi, in attesa di liberazione.

Coloro che sono in attesa di liberazione sono, precisamente, coloro per cui nasce Cristo. Quale liberazione, però, e come? Una liberazione da ‘cristiano adulto’, per citare un nostro recente premier, una liberazione fortemente non eterodiretta ma autoimposta, una liberazione frutto di confronto con gli altri, soprattutto ‘atei’. Se gli stati più progrediti sono i meno religiosi, esempio scontato la penisola scandinava, allora è molto religioso confrontarsi con loro. Sarebbe molto religioso, per la Sardegna, far sì che il prossimo, cioè tutti noi, siamo degni della venuta di Gesù: vuol dire creare coesione territoriale, vuol dire rispettare l’ambiente, vuol dire costruirci  un lavoro, vuol dire combattere la povertà, vuol dire preservare la sanità pubblica, vuol dire creare le condizioni del benessere, della felicità, che è la promessa di Dio per ogni sua gente.

Ora, per ora siamo davanti, forse, al libro dei sogni, per una regione che esulta se il suo capoluogo è al 44mo della classifica di vivibilità delle città. Eppure, semplicemente, il Natale per noi deve essere questo, pensare al nostro benessere, alla nostra felicità, pensando che Dio lo vorrebbe anche per i sardi. Soprattutto, dobbiamo pensare, che in alcune parti del mondo c’è, e prima o poi, se vogliamo credere alla venuta di Gesù, dovrà esistere la vita piena anche per noi. Dio ha già parlato, dipende, ora, solo da noi.

 

 

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