Trent’anni fa la scomparsa tragica (e misteriosa) di don Tonio Pittau, il parroco della cattedrale di Cagliari. Quelle pagine dello “Specchio del vescovo” per inquietare l’opinione ecclesiale e gli altri…, di Gianfranco Murtas
Salutò tutti a casa, familiari e amici che avevano condiviso con lui il pranzo per festeggiare, poche settimane dopo la data di calendario, il suo cinquantesimo compleanno. Una telefonata giunta improvvisa intorno alle 15, poco prima forse, lo aveva palesemente inquietato, ma non aveva confidato nulla a nessuno: aveva soltanto avvertito, mettendo una strana fretta al congedo dei commensali, di doversi inaspettatamente allontanare e che sarebbe comunque certamente rientrato per l’ora in cui era fissata, in cattedrale – la sua cattedrale – la novena di Natale ormai all’anti-antivigilia. E invece non tornò. Qualcuno – una suora, un’anziana del quartiere – trovandosi nel tardo pomeriggio in uno studio medico accennò, come cosa appresa, alla morte del sacerdote, ma la cosa non è mai stata chiarita fino in fondo, anche perché quando le domande sono state finalmente pronte sul taccuino degli interroganti nessuno è stato più in grado di rispondere. Il corpo di don Tonio, ritrovato l’indomani mattina in un precipizio verso il Rio Picocca, sembrava però ancora semicaldo, come se l’assassinio fosse stato commesso poco tempo prima, ché le temperature notturne di dicembre, in aperta campagna, non avrebbero di certo concesso nulla alla termia. E dunque?
Uno stradino di Muravera riferì a don Dino, il fratello maggiore della vittima (scorta accanto all’auto precipitata per venti metri), di aver rinvenuto materia cerebrale sulla strada e di averla subito sepolta per spirito di pietà. E infatti la nuca di don Tonio era sfondata, benché nessuno l’avesse rilevato allora, se non quei familiari che don Tonio lo vestirono, nella clinica di medicina legale, per deporlo nella bara e accompagnarlo al funerale. Non ebbe infatti autopsia, il sacerdote, e la sua morte fu certificata come conseguenza di un incidente d’auto, invero impossibile a sentire l’opinione degli stessi agenti della scientifica. Per andar giù, infilandosi nel tratto interrotto dei muretti guard-rail, la vettura avrebbe dovuto compiere deliberatamente svariate manovre… Deliberatamente!
Le indagini di polizia, dirette dalla magistratura, non hanno mai portato a nulla. Diverse le ipotesi, nessun approdo. Di certo è che alcuni funzionari addetti alle verifiche della scientifica, furono allontanati dalla sede e trasferiti lontano, in Friuli.
Don Tonio Pittau fu pianto all’inizio, poi ingiustamente – ingiustamente! – dimenticato dai più. Il suo nome, più che la sua umanità, venne associata al “fatto” ultimo della sua vita.
Io fui contattato, già dal 1999 – dieci anni dopo il tragico evento, vent’anni fa! – da un sacerdote molto stimato, compagno di studi di don Dino fra il Tridentino e il regionale di Cuglieri, e invitato ad occuparmi in qualche modo del caso. Per rendere giustizia ad un uomo di valore e innocente, ad un presbitero leale e utile, per servizio e dottrina, alla sua Chiesa. Non possedevo però, evidentemente, strumenti miei d’indagine… M’attivai comunque, e pure potei acquisire numerosi elementi fattuali – nessuno invero decisivo – che portavano, appunto soltanto in via d’ipotesi e probabilistica in quanto al movente, a quello sconcertante e doloroso epilogo.
Ero stato in duomo alla presa di possesso dello stallo canonicale, di don Tonio Pittau nominato dall’arcivescovo Canestri, nel 1986 – l’anno dopo il tremendo saccheggio del Tesoro capitolare –, responsabile della parrocchia di Santa Cecilia incardinata nella cattedrale di Santa Maria a Castello, avevo partecipato a numerose funzioni e seguito i suoi studi sulla storia e il patrimonio d’arte proprio della cattedrale, conclusi con la pubblicazione – giusto un mese prima della misteriosa scomparsa – di una apprezzabile guida prefata da Paolo De Magistris.
Del Museo della cattedrale
Mi permetto qui una parentesi. Nella guida cui mi sto riferendo (La cattedrale di Cagliari, con copyright della parrocchia di Santa Cecilia) una delle immagini a colori più belle è quella dell’ostensorio d’argento dorato, dono di Luigi XVIII re di Francia. Colpisce, oltreché per la sua evidente bellezza, perché funziona, nella esposizione e nella grafica, come nobile eppure infelice sostituto di quello d’oro cesellato perduto (predato) e così descritto da don Tonio Pittau: «… tempestato di circa 1.500 diamanti, risale al sec. XVIII ed è un vero gioiello d’arte. 300 diamanti brillano nei 64 raggi della teca e circa 1.200 sono incastonati nell’elegante piedistallo. Due sono gli autori di quest’opera meravigliosa: Antonio Porru Rubin per la raggiera nel 1724 ed il napoletano Matteo Landi per il piedistallo nel 1785. Malauguratamente l’ostensorio fu trafugato dalla sala del Museo nel 1985 e fu mai più ritrovato».
E poco oltre, riferendo delle altre meraviglie presenti nelle stanze del Museo: «Il piatto d’argento dorato, lavorato a sbalzo con rifiniture a cesello, è formato da tre zone. In quella centrale si rappresenta il Trionfo di Nettuno e Anfitrite, sua moglie. Questo vassoio, che era una delle opere più belle custodite nella Cattedrale, si fa risalire al sec. XVI, e per attribuzione popolare addirittura alla scuola di Benvenuto Cellini (1500-1571). Molto più realisticamente si pensa a bottega cagliaritana dell’argento del sec. XVI. L’arte argentaria sarda fu fiorente e importante dal XIV al XVIII secolo e fu discretamente influenzata dai grandi modelli del pieno Rinascimento toscano. Il grande piatto ha 47,3 cm. di diametro.
«La brocca ha il piede e la coppa molto eleganti e decorati con foglie, festoni e figure.
«Questi due preziosi arredi sacri, elaboratissimi nell’esecuzione, furono portati all’Esposizione di Arte Sacra di Orvieto nel 1896 insieme agli abiti pontificali di S. Agostino, in occasione del XIV Congresso Eucaristico internazionale. Malauguratamente nella notte tra il 2 e il 3 giugno del 1985 furono trafugati dal Museo della Cattedrale insieme al prezioso ostensorio d’oro, tempestato di diamanti, e non furono più ritrovati».
Un breve romanzo per una grande (e fallita) missione
Avevo stima di don Tonio Pittau, pur non avendo mai avuto una speciale confidenza con lui. Ma avvertii, ripeto, di dovermi occupare, per quanto potevo, della vicenda luttuosa e delittuosa. Per una causa di giustizia e per umana necessaria solidarietà con la famiglia e la cerchia amicale ferita, e così anche rispondendo alla fiducia mostratami. Raccolsi da subito varie testimonianze e vidi molte carte, poi misi tutto nero su bianco in una traduzione letteraria, che speravo dignitosa e tale da darmi modo di riportare all’attenzione della opinione pubblica e soprattutto della opinione ecclesiale, oltreché della magistratura stessa, il caso.
E venne così Lo specchio del vescovo. Il caso di Villamaura, presentato nel 2003 davanti a gran pubblico sia a Sant’Eulalia, per l’ospitalità concessami dall’amico don Mario Cugusi, che poi a Sant’Ambrogio in Monserrato (una delle prime tappe del servizio presbiterale di don Tonio – ordinato nel 1962, un anno dopo l’ordinazione del fratello don Bruno, sette anni dopo quella del fratello maggiore don Dino –, prima della sua partenza per gli studi di pastorale a Bruxelles e l’assistenza alle comunità di emigrati sardi in Belgio).
In forma di romanzo – ciò che mi consentiva anche di rappresentare, ponendola in capo a diversi personaggi, una certa mia visione di attivo, o innovativo comunitarismo, con punte anticonvenzionali e paradossalmente… anticlericali – riesposi i fatti come li avevo recepiti e, senza nulla tacere, immaginai una felice conclusione nella resipiscenza di quel vescovo che, forse piegato dalla cultura, sì tutta clericale, della copertura o secretazione d’ogni situazione scabrosa, onde evitare scandalo nel popolo di Dio, davvero aveva dato l’impressione di voler tacitare, nascondere e affossare.
E quando poi arrivò a Cagliari il nuovo arcivescovo, fu proprio don Dino – nel frattempo divenuto lui parroco di Santa Cecilia – a consegnare al presule quel testo di letteratura cittadina chiamato a contrastare l’archiviazione del caso nel miserabile armadio degli affaire irrisolti. La considerazione espressa dopo la lettura fu, per quel che ne so, di disinteresse: tutto quel che era avvenuto prima dell’arrivo del monsignore, incluso perfino il Concilio Plenario Sardo, era come non dato. La nuova storia, storia unica e bella, iniziava nel settembre 2003. Nessun Caino, per quanto ormai a riposo, poteva disturbare i programmi pronti alla declamazione. Nessun interesse a coinvolgersi in quell’interrogazione assolutamente sgradevole: «Dov’è, Caino, tuo fratello?».
Altrettanta indifferenza avrebbe mostrato il suo successore, giunto a raccogliere il bacolo pastorale cagliaritano nel 2012. E così, sostanzialmente, il cardinale Bertello – oggi principe-governatore nella città del Vaticano e, al tempo, nunzio apostolico presso la Repubblica italiana – cui la stanza del papa Benedetto aveva decretato, per il riscontro, una mia lettera (pubblicata poi in da Chorus a Cresia, Cagliari, 2011).
Anche i giornali si occuparono allora – dico nel 2003 e dopo – della cosa, e anche le televisioni, sia quella pubblica che le private. Ebbi pure la offerta, da parte di un regista e produttore cinematografico con interessi a Roma e Parigi, per la traduzione filmica del romanzo. Ma l’intento scandalistico che intravvidi surrettizio nella proposta mi indusse subito a non accoglierla e risposi dunque negativamente una prima e una seconda volta. Il sacerdote sarebbe stato riconosciuto vittima innocente all’ultima scena, ma per il più della pellicola egli doveva percepirsi in un’aura di ambiguità e sconvenienza. Assurdo, proprio lui il bonificatore di un certo malefico andazzo…
Non mancarono allora neppure le reazioni, perfino le minacce oblique da parte di qualcuno che prese a controllare, evidentemente, i movimenti dell’avvocato di famiglia che era venuto a trovarmi per una lunga conversazione e un confronto di dati di conoscenza.
Vanamente la richiesta di esumazione della povera salma per un esame autoptico fu inoltrata dalla famiglia Pittau: essa venne respinta sempre senza alcuna motivazione plausibile, dalla magistratura che non ritenne la mancata (e pur doverosa) sezione in quei giorni tremendi del ritrovamento un motivo valido per provvedere, anche se con un ritardo di un quarto di secolo… Poi fu la Cassazione invece a dire di sì, ma era ormai troppo tardi, i fratelli – don Dino e don Bruno in particolare – decisero di abbandonare la presa, stanchi delusi e rassegnati, e da uomini di fede già interamente disposti alla loro chiamata… per le consolazioni definitive.
Ecco di seguito alcuni dei capitoli del mio Specchio del vescovo. Il caso di Villamaura nei quali ho creduto di far più diffuso riferimento alle circostanze dubbie che, approfondite, forse avrebbero potuto dare risultato, mostrandosi esse come delle vere e proprie piste d’indagine.
E’ chiaro che, celate dietro molte figure dai nomi più vari, sono protagoniste della scena persone che hanno avuto (ed hanno) parte nella vita della Chiesa sarda e in specie cagliaritana, oltreché in campi limitrofi. Ma, come ha insegnato con il suo perfetto Santi di creta il mio maestro Bachisio Zizi, nulla deve potersi impoverire con l’affannata ricerca delle referenzialità, perché comunque un romanzo è un romanzo e non è un report per la giudiziaria o l’ufficio del pubblico ministero.
L’ipotesi magrebina, e quell’altra
“Arrestato il marito della donna sgozzata”. “Si proclama innocente”. “Le indagini dei carabinieri hanno finora accertato che l’uomo, un algerino di 35 anni con numerosi precedenti alle spalle, aveva minacciato la moglie che s’era sempre rifiutata di convertirsi all’islam – Collegamenti con la morte del rettore domenicano della Tavola?”. Così il titolo, l’occhiello ed il sommario dell’articolo che il quotidiano locale ha sparato su molte colonne nella pagina della cronaca cittadina proprio la vigilia di Natale. Ha letto e rilegge adesso il lungo articolo, il professor Dessì Manias e, utilizzando un righello, segna con una penna rossa alcuni passi che gli paiono particolarmente significativi per i nessi che adombrano con la tragica vicenda del proprio congiunto.
«Secondo indiscrezioni provenienti dagli ambienti inquirenti, Muhammad Talaat el-Ghunaimì, prima della cerimonia religiosa svoltasi l’altro sabato al santuario della Tavola, quando furono somministrati tredici battesimi ad altrettanti bambini (tutti sotto l’anno, con l’eccezione del piccolo Marco Alid, ormai quindicenne), si era incontrato col rettore in una delle aule utilizzate, alla Marina, per i corsi di alfabetizzazione degli extracomunitari, in prevalenza magrebini. Gli avrebbe ingiunto di non battezzare il figlio, che appena ventiquattro ore dopo il rito doveva essere addirittura cresimato. Il padre Manias – secondo quanto gli inquirenti avrebbero appreso da testimoni – avrebbe obiettato che la richiesta del sacramento veniva, oltre che dalla volontà stessa del ragazzo frequentante il catechismo, dalla madre di quest’ultimo, alla quale il marito, all’atto del matrimonio, assicurò la libertà di educazione cristiana della prole».
E più oltre: «Muhammad Talaat el-Ghunaimì è stato rinchiuso, in isolamento, nel carcere di Bellavista, a disposizione dell’autorità giudiziaria. Verrà sentito nei prossimi giorni dal magistrato che conduce l’inchiesta. Al momento dell’arresto egli si è comunque dichiarato estraneo completamente ai fatti».
La stessa mattina di martedì 27 – per due giorni i quotidiani non sono usciti –, il giornale di Libissonia, accanto ad un ampio trafiletto di aggiornamento che riporta, più in sintesi, le notizie già pubblicate dal concorrente, presenta una intervista a padre Eugenio Bruno, missionario comboniano che ha vissuto più di vent’anni nell’Africa nord-occidentale, a contatto con le popolazioni berbere di fede islamica. Da tempo coadiutore del maestro generale della sua congregazione, a Londra, egli si trova in questi giorni in Ordena per incontrare un gruppo di giovani che han chiesto di entrare nella famiglia missionaria e avviarne il percorso formativo.
«L’ipotesi è attendibile – risponde, alla domanda del giornalista, il sacerdote –. La visione dell’ortodossia e dell’ortoprassi per un musulmano è difficilmente compatibile con la nostra. Il che, naturalmente, non significa che non si possa vivere fraternamente. Siamo tutti figli di Abramo. Nell’islam il sentimento religioso del legame con Allah che è signore assoluto del visibile e dell’invisibile, del giorno e della notte, e padrone anche della libertà umana e della coscienza individuale, è tale per cui la sequela può assumere, e talvolta assume, forme estreme e perciò violente. Si parla di fanatismo, ma questa è la logica conseguenza di alcune premesse di dottrina… Ora bisogna dire che l’islamismo è una galassia di sensibilità differenti, oltre che di scuole teologiche diverse. Non direi che il fanatismo, come lo definiamo noi occidentali, sulla base dei nostri codici di valore, sia la base comune dell’intero mondo musulmano, né nella spiritualità dei singoli né nella prassi individuale o di famiglia, di clan, insomma che determini o guidi la quotidianità delle relazioni umane. Ma quella componente estremista esiste, bisogna sapere che c’è. E può allignare negativamente nel vissuto profondo di taluno dei seguaci del Profeta».
Dagli inquirenti, negli stessi giorni, parrà venire, effettivamente, un interesse a verificare circostanze e coincidenze di tempi e modi che saldino il feroce decollamento coniugale al misterioso incidente d’auto.
Da subito, invece, l’ipotesi lascia indifferente, e anzi incredulo l’investigatore di famiglia. Una penosa telefonata con lo zio Gemiliano, la sera stessa della vigilia di Natale, aggiungendogli inquietudini ha rafforzato infatti il suo sospetto, e forse il convincimento che i protagonisti negativi dell’affaire siano del posto, forse di Villamaura, forse di Balardi, forse non ignoti neppure a qualcuno di quelli che, a Caregli, recitano attorno al vescovo.
«Sergio, qualcuno è entrato nella camera di Gilio e nel suo studio, al convento, lo scorsa notte, prima che lo ritrovassero. Senza forzare la porta, aveva le chiavi. Nessuno le aveva, neanche io. Il doppione ce l’ha padre Alessandro, ma quello è con tutti gli altri doppioni chiuso in uno stipetto protetto, che era chiuso ed è rimasto chiuso. E infatti mancano tutte le chiavi che Gilio aveva con sé, tutte, dello studio, della camera, della rimessa, le altre… Gliele hanno prese. Sono entrati di notte ed hanno portato via il suo computer, nuovissimo, non era neppure installato. E anche alcune scatole di dischetti. Un omicidio grande e un furto piccolo…, sono confuso, non capisco… ma c’è di peggio…
«Questa mattina, pensa un po’ – durante l’ora del funerale, un assurdo! –, due uomini sono andati al deposito di via Usellus, dove hanno portato la macchina dopo che l’avevano imbracata dal burrone, naturalmente sotto sequestro della magistratura. Sono andati a questo ricovero: uno vestito da cappuccino, si è presentato dicendo che ero io, il fratello, l’altro – piccolo e robusto, tutto calvo – come il cugino, tuo padre. Hanno chiesto di vedere la vettura, e il custode, credendoci, li ha portati lì… Chissà cosa hanno fatto… cosa hanno preso o cosa hanno messo, comunque cosa hanno controllato… Capisci? E meno di un’ora fa, verso le 19, mi ha chiamato il sovrintendente della giudiziaria: “Lei è stato in viale Usellus…?”, “Io? No!…!”. Capisci, Sergio? Prima quella perquisizione clandestina, di notte, al convento, poi quest’altra truffaldina, in pieno giorno, in viale Usellus…».
«Zio, tu che idea ti sei fatto?», ha domandato a questo punto il giovane professore.
«No, non chiedermelo. Non capisco, non so, non capisco nulla. Tutto è tragico ed è altrettanto confuso ed oscuro. Ho ripensato a quel che mi diceva ieri, appena ritrovata la macchina giù nel burrone, e Gilio morto, l’ufficiale della polstrada: ha fatto un’osservazione sul cuscino che hanno trovato sotto il capo di Gilio, nel dirupo, e su un telo della macchina che copriva quasi interamente il suo corpo… Come se lui si fosse voluto proteggere dal freddo, e stare con il capo sollevato, in attesa chissà di soccorsi… Credibile? Un’altra messinscena? Con quel cranio distrutto dentro, come ha detto Grazia quando lo abbiamo lavato e vestito, al santuario – e l’ho toccato pure io nella nuca, intatta ma vuota dentro –, col cranio così sei già morto, come puoi pensare di prendere un cuscino, o di coprirti, come lo puoi fare?… Il cervello doveva essere tutto maciullato dentro, povero Gilio.
«Aggiungo, questo forse non te l’avevo detto. Un tipo, ieri, quando ero lì all’arco del Serafino, mi si è avvicinato dicendo che era di Sarcapos… “Lei è il fratello?… Sono stato fra i primi ad arrivare stamattina, sa, c’era della materia cerebrale proprio qui nel bordo della strada… l’ho raccolta e per rispetto l’ho coperta in un fossetto”… Oh, Sergio, quanto dolore e quanta confusione! Quanti dubbi su tutto e su tutti! Vedi, all’inizio ero convinto che la morte fosse avvenuta nel pomeriggio di giovedì, prima dell’imbrunire. Però, se così è stato, non riesco a spiegarmi come il corpo, quando è stato rinvenuto, sia stato non freddo del tutto, era quasi tiepido, eppure dovevano essere passate almeno dieci ore… E allora? L’avranno colpito la mattina? E la notte dove l’ha passata, come…? Oppure: può aver influito in quel fatto termico una certa proprietà del suo organismo, o una circostanza ambientale che ignoro? La temperatura invernale, della notte, avrà influito in un modo invece che in un altro?».
Dubbi, dubbi. Ma che il bandolo della matassa – la spiegazione del mostruoso delitto – si trovi nel mondaccio che parla la bella lingua e non nel fanatismo vendicativo di qualche straniero importato dalla miseria dell’Africa vicina, il professor Dessì Manias lo crede veramente, ogni giorno che passa, sempre di più. Ripensa a quei frammenti di testimonianza di suor Geggina e suor Elisa che quasi tutte le mattine, ormai da almeno un anno, dalla pur lontana chiesa della Purissima, si sono recate al santuario di Villamaura per organizzare e condurre con padre Gilio alcune delle attività della giornata.
Proprio durante il viaggio per Settulai, dopo il funerale celebrato e omeliato dal vescovo, esse gli hanno raccontato due episodi che s’incastrano bene fra loro, tessere certo non surrogabili con altre, nel mosaico che viene lentamente definendosi.
Erano insieme, in macchina, i tre, da Caregli a Settulai e ritorno, e nella intimità del piccolo gruppo si sono confidati, con spontaneità, i piccoli segreti. Suor Geggina ha riferito di una certa telefonata che, nella tarda mattinata di quel disgraziato giovedì, era arrivata al religioso. Lui s’era fatto passare la comunicazione in un’altra stanza, per parlare più liberamente. Ne era tornato sbiancato in volto, inquieto, turbato, preso da pensieri… pesanti ma taciuti. Aveva detto di dover partire, subito dopo pranzo, per Sarcapos, per incontrare un’anziana signora malata conosciuta in gioventù e sempre frequentata, ora inferma ed in incombente pericolo di vita. Una visita che doveva essere un dono di Natale. «Aveva aggiunto di voler fare questo salto rapido a Sarcapos per essere poi di ritorno a sera, per cantare la Novena… Non mi era parso convincente, ma questo lo dico soltanto oggi, davanti a disgrazia compiuta».
E suor Elisa, più discreta o timida, ma incoraggiata dalla testimonianza resa dalla consorella, s’è accodata: «Soltanto oggi ci spieghiamo le cose, alcuni fatti su cui non ci eravamo soffermate sul momento. Proprio il giorno prima dell’episodio che ha riferito suor Geggina, e cioè io dico mercoledì 21, io ero nella stanza che precede lo studio dove lui stava ricevendo due persone. Il ricordo di quelle persone mi è rimasto – uno molto alto e uno abbastanza basso, grasso – ma non saprei riconoscerne i volti. Certamente erano persone che non avevo mai visto, sennò le avrei impresse nella memoria. Doveva esser stata una conversazione accesa, chissà su quale argomento… Sta di fatto che al termine, padre Gilio mi si era avvicinato, mi sembrava spaventato o comunque nervoso e aveva la voce bassa. Mi aveva detto: “Prega per me, mi raccomando: prega per me”. Poi si era preparato per la messa, e da allora è stato sempre in compagnia di altre persone, sicché non mi sono sentita di chiedergli spiegazioni. La mattina del 22 poi, io non sono scesa alla Tavola, perché avevo concordato così con padre Gilio: dovevo stare in comunità quel giorno, per un’assemblea delle suore con la Madre provinciale… L’ho rivisto ieri: morto».
I segreti d’un archivio
Giacciono, sul tavolo, già ordinati anche nelle piegature sulle pagine che trattano la vicenda, i giornali ormai di quattro giorni. Fra essi è un taccuino di formato grande, a righe larghe, già riempite per molti fogli. Una lettera, dentro la busta affrancata indirizzata, ora sono forse alcune settimane, al religioso morto, sbuca dal bloc notes. In esso il giovane professor Dessì Manias, che l’ha rinvenuta in un cassetto di casa, ha già trascritto lo sconcertante contenuto. Un foglione per poche battute. Di minaccia. «Frate, ricordati che la curiosità è un peccato. Pensa alle cose tue, non frugare nella vita di chi non ti cerca». In calce, a matita, padre Gilio aveva annotato: «At.Rm.Ia.Os. (+SL.DR.PS.?) – Parlato con ten. V. P. 18/12-5 ore 11.15».
Sul tavolo anche un elenco, scritto a mano, con scrittura minuta, di oggetti liturgici (arredi e parati) e/o d’ausilio alla visita del santuario. In capo, a mo’ di titolo, un inquietante «Scomparsi Sacrestia». Ecco la lista: «messale grande e lezionario, libro dei vespri in italiano – calice, patena, pisside e due candelabretti acquistati il 10.3.1948 (artigiano Spezzigai di Castelsardo) – serie di cartoline con gli incassi delle vendite dei mesi da marzo ad ottobre 1974 – tre volumi fotografici sulla storia, architettura, altari e cappelle, e tesoro – attrezzi da lavoro per manutenzione acquistati il 14 settembre 1979 – immagini della Santa Tavola – doppieri a sette fiamme in argento – calici (2), secchielli d’argento (2), piatti d’argento (2) donati dalla famiglia Pernisa – tovaglie e biancheria d’altare donate dai genitori del professo Solinas – tappeti (1 grande e 2 piccoli) a disegno religioso di tradizione locale donati da padre Abis nel suo cinquantesimo – camice in filet – casule bianca e verde (2)».
Dopo un breve spazio, una seconda e più corposa elencazione, che pare un vero e proprio catalogo d’antiquariato sacro. Così, con titoletto «Dal Tesoro»: «un ostensorio in metallo dorato e 33 perle, con alzatina per il SS. Sacramento (fine sec. XIV, pezzo più antico ed importante, valore inest.) – una pisside in argento, senza croce (donata da monsignor Frezioli vescovo di Senafer, per grazia ricevuta, 1952) – due pissidi piccolissime per comunione malati in argento – tre teche grandi in metallo dorato – una pisside media in argento dorato e pietre (dono papa Gregorio XVI, 6 agosto 1839) – quattro pissidi in metallo (appartenenza cappella mons. De Vico) – una borsa porta eucarestia (sec. XVI, dono mons. Baragues) – un calicetto in metallo (sec. XVIII) – un calice in argento liscio e copricalice (sec. XVI, dono mons. De Heredia) – una scatola contenente un calice, una coppa, una patena, due candelieri smaltati (sec. XVIII, forse 1792-93, artigianato provenzale) – un corporale (danneggiato, prezioso forse del 1540) – un vasetto olio infermi in metallo (sec. XVII, dono mons. De Vergara) – due teche piccole per comunione malati (sec. XVII, dono mons. Francesco De Sobrecasas) – due vasetti metallici per oli santi (idem) – coppia ampolline in argento (sec. XVIII, forse 1792-93, provenzali) – tre aspersori piccoli in metallo (forse non di grande valore, databili comunque intorno ai primi dell’800) – un secchiello in argento (sec. XVIII) – turibolo e navicella in argento (sec. XVIII, dono card. Cadello) – una croce in metallo con rilievi sotto campana – un crocifisso a muro, alto m. 1,68 – grande rosario in argento dorato (sec. XVI) – tre rosari piccoli in argento (dono papa Pio VII) – tre mitrie vescovili (preziosissimo dono del vescovo domenicano Pietro IV Pilares, anni 1506-1510) – tre camici con amitto senza pizzo né ornamenti (fine ’800, dono arciv. Berchialla) – due camici con pizzo (idem) – cinque cotte, tre in pizzo, una in filet, una semplice (confezione 1899, dono arciv. Serci) – una stola ricamata con effigie dei santi Domenico e Caterina (fine ’800) – un velo omerale (dono mons. Melano, domenicano) – due tovaglie altare maggiore con pizzo (dono maestro generale Lamberti, 1911) – una tovaglia altare SS. Sacramento (dono associazione del Rosario “pro soldati al fronte”, 1915) – una tovaglia altare Santa Caterina da Siena (idem) – tre pianete colorate (pasquali, idem) – tre stole (idem) – tre paia di manipoli (idem) – tre piviali (idem) – otto dalmate (idem) – scatola di conopei per altare San Domenico (dono famiglia Manca di Villahermosa, 1918) – trentadue asciugamani bianchi e breve ricamo artistico per battesimo, sedici purificatoi e sedici manutergi di fattura antica (dono famiglie Amat e Sanjust, 1918)».
Un patrimonio di valore forse inestimabile; parlare di un miliardo, magari anche più – forse due, tre, o quattro perfino –, non sarebbe un azzardo. Ma chi può essersi appropriato di questi cento preziosi pezzi che raccontano tanto dell’arte e dell’artigianato religiosi, non soltanto locali, e della plurisecolare storia devozionale del popolo cristiano di Villamaura e degli altri quartieri e rioni di Caregli? E non solo: dei rapporti dell’antico e splendido santuario/cenobio domenicano con pontefici e vescovi passati sulla scena del mondo nell’arco di almeno sei secoli… Chi può essersi macchiato di tale deliberato sacrilegio, non peritandosi di ferire il sentimento di una comunità spirituale sempre viva e fervente? con quali complicità, o diserzioni di vigilanza, il misfatto è stato compiuto? e in quanto tempo? e attraverso quali modalità e strumenti e verso quali sbocchi?
Sergio Dessì Manias sapeva qualcosa, per averlo sentito accennare nei giorni dei mille incontri. Non conosceva l’entità della depredazione, ma ora essa gli spiega quel senso manifesto di inquietudine che più e più volte aveva colto parlando con lo zio, soprattutto negli ultimi mesi. Il ritrovamento dell’appunto scritto di pugno dal rettore gli offre ora le dimensioni del misfatto. Di quello compiuto per un interesse venale ma anche, e prima di tutto – tale lo avverte –, di quello che ha violato la sacralità del luogo che ne è stato il passivo teatro.
C’è un altro appunto. Tornano le sigle, ancora non decifrabili, trovate sul foglio di minaccia: «At.Rm.Ia.Os. (+ SL.DR.PS.?)». Stavolta esse sono segnate in testa ad un foglio di carta uso bollo recante la data «8 settembre 1980». E’ la brutta di una lettera-denuncia indirizzata alla stazione dei carabinieri di Cavagna. Chissà però se davvero consegnata. Questo il testo.
«Oggetto: Ricerca argenteria ed oggetti liturgici e vari appartenenti al Tesoro del santuario della Tavola di Celies.
«Indirizzo la presente, scusandomi signor Comandante, del tono colloquiale, ma nonostante i molti tentativi non mi è riuscito di scrivere in… burocratese. Sono e rimango un predicatore, al più un vignaiolo.
«In data 31 agosto u.s. alle ore 10, unitamente al mio vicario conventuale padre Alessandro, al sacrista maggiore fra Davide, al segretario (in quanto delegato personale) del vescovo diocesano don Patrizio Sollai, del moderatore di curia ed economo monsignor Armetto Gioffré, nonché della professoressa Rosetta Vaudi Demontis, docente di storia dell’arte presso la facoltà di lettere della università cittadina e consulente di questo venerato santuario della Tavola in Villamaura, mi sono recato nei locali del museo siti sopra le aule dell’antica congregazione del Rosario domenicano e cateriniano, al fine ricercare gli oggetti e parati d’uso liturgico di proprietà della comunità conventuale che, da una precedente visita da me stesso compiuta in compagnia del solo fra Davide, mi parevano scomparsi, dati i vuoti visibili nelle vetrine orizzontali e verticali della sala maggiore.
«Mi ha colpito intanto, ma non tanto, la disposizione delle dette vetrine sia orizzontali che verticali, ma soprattutto il numero di esse che sono risultate in numero inferiore a quello registrato: io stesso, in gioventù, sono stato sacrista maggiore per ben cinque anni con responsabilità del museo ed avevo ed ho memoria che esse erano in numero almeno doppio di quello attuale, e certamente erano assai più piene di quanto non appaiano oggi.
«Monsignor Armetto Gioffré, che in virtù della sua specifica competenza ha collaborato con noi e in qualche modo diretto per svariato tempo la gestione dell’area museale, istruendo e guidando lo stesso nostro sacrista maggiore, ha fornito, nell’occasione dell’accesso, diverse spiegazioni sugli spostamenti dei pezzi custoditi, ma debbo con grande dolore rilevare che la spunta degli elenchi che ho potuto ricostruire non essendovene uno certo, storicamente databile ed aggiornato progressivamente, non ha consentito, al dunque, che il recupero, fra questi ultimi, di non più di quattro oggetti (tre d’arredo e un parato), a fronte di circa cento, tutti preziosi, che sono risultati introvabili. Qui appresso li elenco…
«Stranamente ho trovato sbarrate, chiuse con chiavi diverse da quelle in mio possesso, alcune stanze – piccoli vani – che sono in collegamento, sul lato lungo dell’andito di accesso, con l’aula più grande delle tre che costituiscono il museo conventuale, fra loro comunicanti da fornici aperti. Per di più, ho verificato che su ciascuna delle quattro porte (due sul corridoio, due nella sala grande) le serrature erano più di una, come per supplementare inaccessibilità. Interrogato sulla circostanza, monsignor Armetto, che era parso informato, ha risposto, minimizzando, che la cosa, giustificata dai guasti dei vecchi chiavistelli, fu realizzata nell’estate dello scorso anno (otto o nove mesi fa), quando il rettore – cioè io – era assente per un periodo di riposo trascorso fuori Ordena. E che, probabilmente, il sacrestano signor Marinia, che personalmente si era occupato della cosa, anche su suo consiglio, si era dimenticato di riferirmelo al mio ritorno. (Faccio presente al riguardo che neppure il sacrista maggiore fra Davide ne sapeva niente).
«Ma cosa contengono oggi quelle stanze? Un tempo – e in attesa di più appropriate sistemazioni – in esse erano ospitate delle vetrine a piano per l’esposizione, in una, degli oggetti liturgici propri della santa messa, con i paramenti relativi collocati in speciali mobili a vista protetti da semplici vetri (donazione Manca), e nell’altra – disposta in forma di L – di arredi e paramenti – donati dai nobili Serra – riguardanti la celebrazione di altri sacramenti (battesimo, unzione degli infermi, ecc.). Quest’ultima accoglieva altresì il più antico piano d’organo della regione, risalente ai primi del ’600, la cui custodia era stata personalmente affidata, fino a pochi mesi fa, al signor Rosario De Vitulussu, per ben cinquant’anni stretto collaboratore del santuario, dove aveva prestato apprezzato servizio come direttore di musica. La mia mente non può evitare di pensare al peggio… Osservo, per inciso, che tale vano ha delle aperture (finestra e porta-finestra) che in linea teorica potrebbero consentire un pur non agevole (cioè con ponti) ingresso clandestino dalla parte di un fossato, profondo una decina di metri e largo almeno quattro, che segue in lunghezza il corpo dell’edificio. Ignoro lo stato di quegli infissi, per la difficoltà di osservazione da parte dell’esterno.
«Mi riprometto senz’altro di procedere alla ispezione materiale, previo abbattimento delle porte, di tutte quelle pertinenze, per il che chiedo a lei signor Comandante di fornirmi l’assistenza, anche come testimoni, di alcuni uomini affidati alla sua stazione.
«Restando alle risultanze della mia visita, ancor più grave di tutto è, però, la manomissione dell’impianto di allarme. Esso fu allestito nel lontano 1962 e successivamente revisionato ed integrato, cioè perfezionato, in occasione di diversi lavori di ristrutturazione dei locali museali, negli anni 1973-ottobre e 1974-maggio. Non essendomene mai occupato personalmente – ma faccio ammenda, perché avrei dovuto farmene carico –, soltanto oggi ho rilevato il danneggiamento dei circuiti elettrici, la cui vigilanza avevo delegato, al fine di sgravarne il sacrista maggiore fra Davide in un periodo in cui egli era impedito da malattia, al sacrestano del santuario, signor Giacomo Marinia fu Antonio Angelo, che a motivo di gravi e ripetute scorrettezze ho provveduto, d’intesa con la famiglia conventuale, a licenziare nello scorso mese di febbraio.
«Aggiungo, a tale ultimo riguardo, che il sullodato era stato assunto alle dipendenze del santuario circa quattro anni fa, dopo aver per svariato tempo (non meno di due anni) collaborato, gratis, col precedente sacrestano, suo padrino, il quale, andando in pensione, ci aveva giustamente raccomandato il giovane verso il quale aveva mostrato speciale legame d’affetto. (Nello scorso giugno egli, settantenne, è purtroppo deceduto, a causa d’un tumore ai polmoni per il quale negli anni aveva subito diverse operazioni). A voler rivedere, col senno di poi, il tenore del servizio prestato dal signor Marinia nel santuario (chiesa e pertinenze), non posso tacere che soltanto per il primo anno egli è stato veramente esemplare per efficienza e disciplina, e anzi direi dedizione. Per svariato tempo, poi, ancorché nulla gli fosse specificamente addebitabile, egli mostrò qualche frequente cedimento nella solerzia di cui aveva dato prova in precedenza. Richiamato, giustificò un certo pressapochismo nel rispetto degli orari di presa mattutina del lavoro e nel disbrigo delle sue ordinarie incombenze, con malesseri che genericamente descrisse per comunicarmi di essere entrato in cura con dei medici specialisti. Il casuale e sgraditissimo incontro del sullodato in situazioni scabrose e, direi, sconce e scandalose all’interno stesso della chiesa (pertinenti aule catechistiche), in orari nei quali egli avrebbe dovuto essere assente (ore 23 circa), e perfino con presenze estranee e non desiderabili, mi indusse a proporre alla famiglia conventuale il suo immediato licenziamento. Nel corso della discussione con i confratelli emerse però una prevalente volontà di misericordia e non gli fu tolto il lavoro, da cui egli attingeva le risorse per il personale sostentamento e per quello degli anziani genitori con lui conviventi. Il ripetersi, in circostanze diverse ma non meno gravi ed inquietanti (ed anzi più gravi ed inquietanti, tali che ho potuto rivelarle soltanto a sua eccellenza il vescovo), della precedente esperienza, mi portò senz’altro a riproporre alla famiglia conventuale il provvedimento punitivo e indusse questa ad accogliere formalmente la mia proposta».
Rilegge, per l’ennesima volta, questo rapporto-sfogo minutato dallo zio rettore, il giovane professore deciso a fare quanto, forse, non sapranno fare né carabinieri né polizia di Stato. Crede che in esso possano trovarsi alcuni degli elementi chiave capaci di spiegare quanto è successo. Il perché del delitto cioè, se delitto effettivamente è stato.
C’ è, in una stanza collegata alla camera privata del rettore, nella parte alloggiativa del convento, un intero armadio, anzi un doppio armadio, alto e largo, colmo di documenti, di corrispondenza, di note. I padri del santuario sanno trattarsi di carte “personali” ed hanno quindi consentito al nipote (consenzienti gli altri familiari, per i quali si è espresso padre Gemiliano) di metterci mano. Ma se ben poteva intuirsi la ricchezza e anche la complessità delle relazioni sociali, ecclesiali in particolare, dello zio, certo il professore non sarebbe forse mai arrivato ad immaginarne né la mole né, interamente, la sostanza, insieme con i criteri, degni di un archivista professionale, di classificazione e custodia delle carte che di quelle relazioni erano la fotografia… Così da giorni ormai (esattamente dal pomeriggio di Natale) egli trascorre molte ore rinchiuso anche in questo studio, tutto intento a compulsare i vari settori di un archivio impostato per filoni tematici e con cartelle titolate e sottocartelle tutte minuziosamente ordinate per cronologia.
Ad emergerne sono aspetti assolutamente sconosciuti della personalità e della vita del religioso, con la dimostrazione di quanto egli fosse impegnato nelle attività sociali, di «servizio e condivisione» (come aveva lui stesso titolato uno dei tanti fascicoli), ma anche teso alla ricerca spasmodica di una spiritualità pura ed estrema (ecco tracce di «dialoghi con La Pira», «con Balducci», «con Turoldo», «con don Tonino Bello», «con Jacques Gaillot»). E di più: quanto fosse difficile, per certi aspetti, trattare con lui, scorbutico e santo. In una cartella recante, nella coperta, il titolo rapido di «Episcopato no» è contenuta una lettera del segretario della congregazione vaticana dei vescovi che gli comunica il proposito di promuoverlo alla dignità episcopale. E copia della sua risposta: «Ringrazio, suo tramite, codesta congregazione apostolica per la benevola considerazione della mia opera nella vigna del Signore. La missione episcopale che mi viene offerta esige però un carisma che, intimamente, non posseggo: essere “uomo di unità”, ancorché guida coraggiosa, fra tante sensibilità diverse all’interno di una chiesa locale. Domineddio creatore mi ha invece fatto carattere senza virtù di diplomazia. Rinunzio per quanto sopra, e nel solo interesse della vigna del Signore, alla promozione ecclesiale».
Adiacente all’aula-studio del rettore è una grande sala adibita a biblioteca ed archivio. Anche di essa è “protettore” fra Davide, che ha consapevolezza e… terrore – per sua stessa usuale e candida ammissione – dell’importanza del compendio, che riunisce i documenti degli oltre sei secoli di vita del convento. Recandosi lì per le sue esplorazioni, ogni mattina il professor Dessì Manias vi trova due giovani tutti intenti, proprio in prossimità dei magici scaffali dell’archivio, a lavorare con lena certo non minore della sua. E’ facile per lui, insegnante di mestiere, entrare in confidenza con i ragazzi e da loro così apprende trattarsi di comunitari appartenenti al kibbutz di Campu ’e Piras, i quali, sul finire della loro intensiva esperienza di “rinascita umanistica” (altri dicono, con lessico clinico, “programma terapeutico”), hanno ottenuto di compierne un’altra assai stimolante sul versante dello studio: vogliono ricostruire la trama dei rapporti fra la comunità conventuale domenicana di Villamaura e quella coeva francescana di Stampace, entrambe sorte e sviluppatesi fuori delle antiche mura delle cosiddette “appendici” di Caregli medievale e spagnola. «Sì, l’abbiamo conosciuto anche noi molto bene, padre Gilio – risponde Gavintonio, che viene da Carbonazzi, al professore quando questi gli domanda se l’abbiano mai incontrato suo zio il rettore – . Abbiamo lavorato anche per lui, la scorsa estate». «Speriamo – aggiunge Lorenzo, il secondo della coppia che viene da Aletzi in Parte d’Ispi – che i padri li stampino, in suo onore, quei libri che lui aveva scritto e che noi gli abbiamo battuto a macchina, …lui non aveva tempo: sia il Quinto racconto di Galilea, con tutte quelle scene del Vangelo in cui immaginava che intervenissero anche i contemporanei nostri, le persone che conosciamo, le quali si mettevano a discutere con Cristo, gli apostoli, i lebbrosi, i soldati romani, il sommo sacerdote…, sia quell’altro, che per me è più bello ancora, della storia del figlio di Gesù portato in salvo in Sardegna quando il padre, Gesù appunto, veniva crocifisso a Gerusalemme… Perché nel Vangelo mica c’è scritto che Gesù non aveva figli, però… è una storia ideale».
E sono altre sorprese. Un religioso, con responsabilità anche ecclesiali di rilievo, che rielabora la storia nientemeno che di Nostro Signore, e la teologia della chiesa, vestendo la propria ricerca spirituale di letteratura e perciò di fantasia, ancorché con un filo conduttore non abusivo, molto pensato invece: che sorpresa veramente!
«Noi abbiamo capito il messaggio del Vangelo più attraverso il racconto fantastico di padre Gilio che non leggendo, nudo e crudo, il testo degli evangelisti. Lo posso dire o è peccato mortale?», soggiunge fra il serio e lo scherzo Gavintonio, che non perde allora l’occasione per rievocare la visita compiuta, mesi addietro, al kibbutz silvo-pastorale di S’Aspru e la deliziosa conversazione del rettore che con quegli altri ragazzi organizzati da padre Baingio s’era poi trattenuto quasi una settimana, a ridosso dell’estate. Appunto quando era venuta la proposta della dattiloscrittura dei suoi romanzi.
Dalla poesia alla prosa. Passano fra le mani del giovane professore tutti i dieci anni di superiorato conventuale, ed anche di più. Anche se sono, naturalmente, i tempi più recenti quelli che destano il maggior interesse al fine di trarne elementi buoni per l’indagine, indizi concreti… Fra essi paiono assumere una certa significatività quelli che rimandano ai rapporti, e anche ai contrasti, con alcuni degli uomini della curia locale a proposito di questioni che investono direttamente la conduzione anche amministrativa del santuario, a quei flussi di dare ed avere che antichi capitolati regolamentano nel dettaglio, tutti a favore della cosiddetta “mensa vescovile” e di altri bilanci di enti ecclesiastici dei quali nessuno ha mai dato, né dà, conto alcuno.
La gestione di questi affari, da parte della curia, è stata, da anni ormai, affidata alle mani di monsignor Armetto Gioffré, soprannominato D’Artagnan per via della simpatica somiglianza col primo moschettiere di Richelieu e Mazarin, che appunto all’ufficio di economo diocesano deve molta della sua autorità nell’ambiente ecclesiale: un’autorità malcelata da un fare all’apparenza umile ed insieme giocondo, ma che si esprime sempre e soltanto per iscritto. Attraverso lui, figlio di cavaliere nobile don della Sicilia orientale portatosi in Ordena per curare i prevalenti interessi recati in dote dalla moglie senza titoli, e fratello di uno dei più noti commercialisti e fiscalisti della città (il quale gli funge da prezioso consulente), sono passate, nel tempo, numerose centinaia di carte importanti, contratti con enti e privati e procure generali e speciali, testamenti ed atti notarili che hanno trasferito il controllo di proprietà e capitali, immobili e diritti d’uso, togliendo a qualcuno ed arricchendo qualcun altro. Non sono perciò mancate le ragioni, e le occasioni, di contenzioso, di conflitto anche all’interno degli istituti regolati de legibus ecclesiasticis ed anche da tutti gli altri commi del codex iuris canonici.
Di tali attività è traccia, almeno per quanto incide, direttamente o indirettamente, sugli interessi del santuario, negli appunti lasciati da padre Gilio. In particolare c’è un pro memoria riguardante lo scioglimento d’autorità della giunta amministrativa di una confraternita – quella intitolata a Lepanto – ricadente della storica giurisdizione pastorale della Tavola, con la contestata alienazione, da parte del commissario nominato dall’alto (lo stesso monsignor D’Artagnan), di alcuni cespiti – fondi e fabbricati – iscritti nel patrimonio del sodalizio, valutati qualcosa di meno di un miliardo di lire. Somma che, da oltre un anno, è congelata in banca – novecentoquarantasettemilioni – in un conto fruttifero del quale solo lui, il commissario straordinario, ha la firma.
Raccoglie, nel grande blocco, ordinandole con un numero progressivo, le informazioni fin qui acquisite, il professor Dessì Manias. Vorrebbe già da subito, per questo, chiamare il vescovo onde fissare, o confermare, l’appuntamento per il 1° gennaio. Se c’è onestà autentica nel suo interlocutore, potrà trovare la spiegazione ad episodi dei quali ha trovato evidenza sicura ed abbondante nell’archivio. Sia lettere sia, soprattutto, appunti che mettono nero su bianco il contenuto di telefonate o colloqui personali. Pensa tuttavia che, prima di tornare in episcopio, da lui intimamente sentito come palazzo di potere e, se non di omertà, certo di circospezione o di prudenza eccessiva e non virtuosa, sia utile ed opportuno un approfondimento mirato su alcune delle circostanze rivelate dall’appunto per il comandante dei carabinieri di Cavagna.
Riservandosi infatti di sviscerare meglio in una fase successiva la pista cosiddetta magrebina, alla quale insiste a non voler dare soverchio peso, egli individua in particolare nelle figure di tre personaggi citati nel momoriale gli snodi possibili della vicenda: l’anziano organista De Vitulussu, l’ex sacrestano Giacomo Marinia e, appunto, l’amministratore generale della diocesi, nonché mente dell’originaria sistemazione degli spazi museali, con quanto ad essa possa riferirsi, dalla catalogazione aggiornata dei pezzi esposti alla efficienza dell’impianto di protezione.
L’organista e il fuoco
Il primo nome dell’agenda è quello del vecchio organista. Ormai ritiratosi a vita tranquilla, il maestro Rosario De Vitulussu (ma il suo nome completo – in onore del santuario nel quale è stato battezzato nel giorno di Sant’Angela Merici del 1899, e dove ha tentato, all’indomani della grande guerra, un noviziato rimasto senza sbocchi – comprende anche un Domenico ed una Caterina) abita in una bellissima casa panoramica quasi a livello del vertice del Monte Leccis, uno dei polmoni verdi della città. Vivono con lui le quattro sorelle, tutte più anziane di lui ma tutte perfettamente sane ed in marcia verso il compimento del secolo.
Forse poco soltanto in apparenza di quanto è entrato nella sua esperienza di rispettato maestro di musica (diplomato a Reggio) e “maggiordomo” della Tavola di Celies è presente nella sua vita d’oggi. Egli è stato l’autentico filo rosso con cui i decenni hanno cucito fra loro reverendi padri ed illustri monsignori, seminaristi in boccio ed untuosi democristiani (mai amati dall’ultimo rettore), teneri chierichetti ed esperti cantori, devoti terziari ed umili (ma spesso anche intraprendenti) suore che hanno animato messe, assemblee ed attività ora formative ora ludiche nel recinto del chiostro e fuori. E’ ricco, non lo era di famiglia, lo è diventato. In molti, soprattutto fra i fedeli più agiati, lungo il mezzo secolo di servizio fra tasti e canne, gli hanno voluto mostrare apprezzamento per la sua proverbiale disponibilità, compensandolo in qualche modo e con generosità. Celibe per scoperto imperio di natura, il suo forte senso della famiglia egli lo ha dimostrato, vistosamente, intestando a ciascuno degli otto nipoti (eredi del nome perché figli dell’unico fratello maschio ed il solo, in casa, ad essersi sposato: il minore della nidiata ma il primo anche ad essersi involato) un appartamento in un palazzo, non lontano dal suo attico, che ha comprato in blocco, in un’asta fallimentare dove ha trionfato alla grande con appena seicentocinquantanove milioni versati tutti in contanti.
Oggi trascorre il tempo ricevendo come un dandy del passato, sì senza studi e senza pensiero ma con stile ed eleganza, gli amici, e frequentando le loro case. Non ha mai fatto questione di condizione sociale: gli sono stati e gli sono ancora assidui i giovani che vorrebbero entrare, suo tramite, nella conoscenza e magari nelle grazie di qualche potente della chiesa (ma non solo), e quelli più avanti nell’età, che già hanno raggiunto le loro piccole mete, delle quali amano conversare, con un bicchiere in mano, come fosse meritevole argomento da salotto buono.
Il salotto c’è, rosso vivo alle pareti e viola cupo nella volta (colori forti rubati ad un arcobaleno riverniciato per il carnevale), a dispetto del resto della casa che veste tinte e tonalità assai più consone alle altre anziane abitatrici. Nel singolare fuoco di quella stanza, tutti i giorni egli accoglie ed intrattiene, fra poltrone e divani di gran comodità, svariati ospiti sia laici che ecclesiastici. La dottrina non c’entra mai, il pettegolezzo sempre. Ma cinguettato con modo, quello stesso delle dame di livello cadetto che affollavano le grandi corti inutili del tempo che fu, in qualche parte d’Europa. Qui si danno convegno, ormai da diversi anni, uomini che hanno interesse ad incontrarsi per trascorrere, appunto, il tempo insieme, ed allungare lo sguardo, suggerendosi reciprocamente le zoommate, sul piccolo mondo del quale sono stati o sono ancora parte, naturalmente ignorando che sia veramente un “piccolo mondo”.
«Stia comodo, ospite gradito. Io ho molto stimato suo zio, compianto zio buonanima… Lo conoscevo da molti e molti anni, già da prima che arrivasse alla Tavola come rettore. Lo conoscevo da quando era stato da noi pochi anni dopo essere stato ordinato… Era giovane, giovanissimo, allora, aveva le funzioni di sacrista maggiore. Era stato qui… sarà stato quattro o cinque anni, non di più. Un caratterino… però generoso, molto altruista, proprio per indole. Fu mandato fuori, poi… in Abruzzo, poi a Caserta, e in altri posti, quasi tutti del meridione. Quando ebbe il trasferimento nuovamente qui, promosso rettore, si trovava a Reggio Calabria…».
La conversazione scorre rapida, ma – è palese – reticente.
«Lei aveva un buon rapporto?».
«Io ho collaborato sempre con tutti i rettori. Otto ne sono passati sotto di me. Naturalmente, quando lui è arrivato, io c’ero già quaranta… sì, quarantatré anni, e quindi avevo una mia autonomia, proprio per l’esperienza, conquistata sul campo dico. C’era un calendario fisso per le mie prestazioni, messe solenni, liturgie di santi, funerali importanti, matrimoni importanti…, ma io ero presente tutti i giorni come un impiegato. Sapevo…, so tutto del santuario… Non è che stessi a chiedere sempre gli ordini, conoscevo il mio lavoro, il mio dovere… Alla Tavola mi prestavo, oltre che come direttore di musica, anche come una guida per i pellegrini e per i turisti, dunque uno deve sapersi muovere…».
«E questa autonomia magari avrà creato, qualche volta, imbarazzi o problemi… o no?».
«Cose normali. Lui aveva il suo temperamento, io il mio, mi sono sempre fatto rispettare, e mi hanno sempre rispettato. E anche io naturalmente rispettavo tutti. C’era spazio per tutti e due, e anche per gli altri…».
«Posso farle delle domande precise, dico su questioni specifiche?».
«Sono qui. Se posso esserle utile… E poi, per la buonanima, morto in quell’incidente assurdo… Troppo presto, troppo giovane… Ora qualcuno sta chiacchierando, e sparlando, di lui, di questa morte sospetta, stanno addirittura… eh, gente cattiva, si dice di una relazione segreta a Flumini Uri… Certo era ancora giovane… Conosco il dritto e il rovescio di ogni cosa del santuario, modestamente dico, perché è la verità. Ci ho speso una vita, adesso tutto sta rotolando… prima quei conflitti senza fine, adesso questa morte improvvisa… Eh, padre Gilio si è portato nella tomba i suoi segreti».
«Segreti perché?».
«No, dico così… Ogni sacerdote è più d’un notaio, depositario dei segreti di una infinità di persone, basti pensare alla confessione… Anche se padre Gilio non è che fosse un grande confessore per la verità… Era portato ad altre attività. Le cose sue, poi, non degli altri, anche quelle se le è portate nella tomba. Soltanto il suo confessore, oltre a lui, sa le cose».
«Vorrei chiederle della conduzione del tesoro del convento. Chi ne era incaricato? Come erano distribuite le responsabilità?».
«Perché mi chiede del tesoro?».
«Beh, so che il tesoro del convento è un’autentica preziosa miniera di beni storici ed artistici, e che sul piano venale vale più di… una banca. Conoscendo mio zio, oltretutto, sia per la sua sensibilità alle cose culturali, sia per il suo rigore nell’amministrazione, ritengo che egli abbia posto una speciale cura nella gestione di questo patrimonio al quale la Tavola di Celies in Villamaura deve molto del suo prestigio, anche oltre la regione…».
«Verissimo. E infatti tutti quanti, noi personale del santuario, che non eravamo – dico al passato perché io non ci sono più, ma così è anche adesso, almeno spero –, che non eravamo soltanto dipendenti ma anzi in primo luogo devoti all’ordine domenicano, cioè cristiani cattolici romani con un culto speciale per il rosario e i santi dell’ordine… Santa Caterina da Siena, la nostra preferita…».
«Scusi la brutalità: si è parlato di furti, anzi di un’autentica spoliazione del tesoro…».
«Chi ne ha parlato?».
«Ci sono dei documenti che ho potuto vedere che testimoniano questo».
«Non credo proprio. Quando c’ero io, per quanto era nella mia responsabilità, ogni cosa è andata per il suo verso giusto… Ma io non avevo responsabilità particolari sul tesoro, se non su un organo di più di trecento anni fa, bellissimo ma non più funzionante… lo si doveva rimettere a posto, o vendere, c’era una richiesta dalla cattedrale di Sant’Alberto Magno, a Treviri… Quindi quello che so l’ho soltanto sentito qua e là…».
«Dunque avrà sentito parlare di questa spoliazione…».
«No, che spoliazione! Esagerato! Qualcosa potrà essere andata perduta, succede in tutti i musei. Magari in occasione delle varie sistemazioni dei locali, una volta per gli intonaci, un’altra per la corrente, un’altra per l’impianto di allarme… Eh, allora entravano ed uscivano un sacco di persone, gli operai delle imprese, i tecnici che dirigevano i lavori… Noi vigilavamo, è naturale, ma magari in quelle occasioni… L’occasione fa l’uomo ladro… Ma il tesoro è, grosso modo, intatto. Stia tranquillo».
«Va bene. Ma come erano ripartiti i compiti fra i religiosi ed il personale di servizio?».
«Erano loro, quando c’ero io, i padri, ad occuparsi del tesoro. Il personale, quel poco personale che c’era, ubbidiva. Si doveva fare una convenzione con il ministero della Difesa per avere l’assegnazione di giovani del servizio civile, degli obiettori insomma, specializzati come guide… Ma poi non si è concluso nulla, forse è meglio così, troppe presenze estranee di gente che ha studiato ma non conosce le cose… Io che, per età e anche per anzianità di servizio, ero un po’ speciale, ripeto: avevo la vigilanza dell’organo, di grandissimo valore, però non funzionante da prima della guerra, la grande guerra… lo sentivo suonare quando ero bambino, io non l’ho mai suonato… non avevo responsabilità dirette sulla custodia del tesoro… I padri, ecco, loro avevano le chiavi… il rettore, il vicario, il sacrista maggiore che è un altro frate, fra Davide…».
«E il sacrestano signor Marinia?».
«Ah, l’hanno licenziato, Giacomino. Hanno fatto male, malissimo. Se la sono presa con un debole. Hanno fatto male, anzi malissimo. Lui era innocente. Un gran lavoratore, onesto, generoso, devoto, rispettoso, ubbidiente, aveva lavorato gratis per molti anni con il padrino buonanima, rinunciando al tempo libero dopo le sue otto ore al giardinaggio del Comune, poi aveva preso il suo posto perché se lo meritava, era portato a questo lavoro, era cresciuto al santuario da piccolo… Ma, scusi, perché mi chiede di lui?».
«Beh, si parlava delle persone che avevano avuto qualche responsabilità nella custodia del tesoro…».
«No, ma lui non c’entra nulla, così come io. Gliel’ho già detto: erano i padri che gestivano tutto. Quando c’erano visite di turisti, di pellegrini, di scolaresche, di gruppi parrocchiali ecc., io mi occupavo della guida nel santuario, solo del santuario – chiesa e sacrestie grande e piccola – poi passavo la cosa a fra Davide per la visita al tesoro… Si occupavano dell’allarme, e di tutto quanto».
«E monsignor Gioffré? Lo vedo anche qui, in fotografia. Non è lui? Ha un volto simpatico…, sembra un moschettiere di Mazzarino».
«Lui è un grande esperto d’arte, però non fa parte della comunità dei padri. I padri gli avevano chiesto, all’inizio, di consigliare la migliore sistemazione delle vetrinette e di tutto quanto poteva dare risalto al patrimonio d’arte del santuario. Ha fatto tutto gratis, con molta dedizione. Perché è un esperto e una persona per bene. E’ l’uomo di fiducia del vescovo, ma a lui si affidano anche i vescovi di Olaspri, Norbio, Pontario e altri ancora…, di Cuadu e Balanotti anche, perché se ne intende di finanza e di bilanci, non per niente è l’amministratore della diocesi. Viene da una famiglia molto nota a Balardi, ha origini cavalleresche in Sicilia, una zia ha sposato un ambasciatore ed un altro parente stretto è monsignore in Vaticano. Ha studiato economia, poi è entrato in seminario ed ha bruciato le tappe perché era il migliore del suo corso, è molto valido sotto tutti i punti di vista, finirà vescovo vedrà… E’ stato ordinato nel 1970, alla vigilia dell’arrivo del papa, dal cardinale Cabbas, oggi è anche priore dell’Ordine di Santa Brigida e confessore di diversi collegi religiosi. Ha un suo fascino, spirituale dico, non comune…».
«Ma non ha avuto parte nella gestione del tesoro in questi anni?».
«Ma perché queste domande? Veramente non capisco cosa c’entri tutto questo con gli onori alla memoria di padre Gilio Manias di Settulai… Lei, come nipote, non è di questo che si doveva occupare?».
«Sì, vorrei rendere onore a mio zio, ed anche le domande che le ho rivolto sono finalizzate a questo».
«Io non ce lo vedo questo collegamento. Comunque, la gestione del tesoro del santuario era la migliore possibile, trasparente e corretta, per quanto ne so».
«Ma sono mancati almeno cento oggetti di valore storico enorme! Sono stati sottratti nel tempo, forse già da quando c’era ancora lei!».
«Lei torna al discorso di prima, che è del tutto campato in aria. Lo vorrei vedere questo elenco delle cose scomparse! Ma poi, io che c’entro? E basta così, mi dispiace che non l’abbia capito. Adesso, comunque, ho un impegno, aspetto persone, e perciò la debbo salutare, signore».
Signor Giacomino
L’abitazione di Giacomo Marinia lascia l’impressione intimidente del bunker. Un cancello, alla fine di un corridoio al primo piano di un palazzo antico ma non di bell’apparenza, protegge dall’esterno la porta d’ingresso in legno, anch’essa rinforzata. Dentro è una gran luce, per la felice disposizione delle stanze che, attraverso grandi finestroni anch’essi però tutti blindati, guardano, in successione, alla parte orientale della città ed alle frazioni spalmate nella magnifica pianura di San Lorenzo.
«Si accomodi», rauca gentile al suo ospite l’ex sacrestano della Tavola domenicana. Elegante, profumato, testa carica di gel, aria anche lui da dandy tanto da sembrare la fotografia del maestro De Vitulussu quando aveva almeno cinquant’anni di meno, foulard al collo ed alcuni vistosi anelli in entrambe le mani, il giovanotto – avrà trent’anni al massimo – accompagna il professore che gli ha chiesto appuntamento in un salottino, anch’esso curiosamente dalle pareti vermiglie e soffitto scuro, come un cielo imbronciato sopra l’inferno. Priva di finestre, la stanza, non grande, ha la forma press’a poco di un triangolo isoscele. Fra due poltroncine, un piccolo tavolo accoglie pochi giornali e, sopra questi, una rivoltella fa bella mostra di sé.
«E quella cos’è?», domanda sorpreso il professore.
«Ah, scusi, la stavo rimettendo al suo posto quando lei ha suonato…, ma prego, si accomodi», risponde l’altro fintamente dispiaciuto di aver spaventato il suo ospite. Quindi prende l’arma, l’accarezza come fosse un gattino e, fissandola in lunghezza e profondità, indugia qualche istante, commediante dell’equivoco. Si avvicina poi alla parete corta della stanza e, spostato un quadro – è, sorprendentemente, il ritratto del… moschettiere D’Artagnan realizzato con l’aerografo e combinato, a mo’ di putti barocchi, con i volti di altri tre più anziani sacerdoti forse condiocesani –, digita, nello sportello di una cassaforte a muro che è lì nascosta, le cifre segrete della combinazione. Compie l’operazione come un rito solenne, pope di una qualche religione pagana che voglia scimmiottare ben altri riti ai quali egli ha assistito, paggio senza fede, chissà quante volte…
«Sono qui a sentirla, professore», fa – disponibile e studiatamente cortese – il commediante. E già s’annuncia, anche stavolta, una conversazione stranamente sospesa così negli argomenti stessi come nei soggetti evocati nella successione delle scene…
«Io so che lei ha collaborato diversi anni con mio zio rettore del santuario della Tavola di Celies. So anche che, negli ultimi anni, i rapporti si erano guastati. Ecco, io vorrei chiederle soltanto una testimonianza su di lui e sui motivi dei contrasti degli ultimi tempi. Vorrei farmi chiari, in sostanza, alcuni aspetti della vita di mio zio che ignoro o mi sfuggono».
«Cosa vuole che le dica… Lui si era incattivito nell’ultimo periodo, non gli andava bene più niente di quello che io facevo. Ma non solo io… Non gli garbava che io mi facessi aiutare, nel disbrigo delle commissioni e di tutto quello che è il lavoro del sacrestano in un santuario importante e grande come il nostro, da degli amici, sempre gratis badi bene, per spirito di volontariato, come anch’io avevo fatto con mio zio padrino…».
«E per quali ragioni, secondo lei, c’era questa ostilità?».
«Lo ignoro. Si era chiuso a me. Ma non solo a me, le ripeto. A monsignor Armetto, che aveva preso le mie difese quando si era intestardito a licenziarmi, magari per assumere qualcun altro, e aveva cercato scuse per giustificare la sua decisione, aveva detto che non gli piacevano i miei amici, che invece venivano a darmi una mano, perché gli sembravano “loschi”, ma gli sembravano così perché non li conosceva… E poi, figurarsi, parlava lui che tutti i giorni si fermava con almeno cinquanta delinquenti, tipi loschi veramente!».
«E del tesoro del santuario cosa mi dice? E’ vero che sono stati rubati almeno cento oggetti tutti di grande valore storico?».
«E’ certo che ne sono scomparsi, ma io non ne so nulla. Lì è sempre mancata una vigilanza, perché non volevano spendere, erano abbastanza avari i padri, bisogna dirlo, anche padre Gilio Manias con rispetto parlando… Forse pensava, e io non lo voglio giudicare, me ne guardo bene, che fosse meglio spendere per le opere tipo “drogati delle comunità”, “carcerati” o “marocchini” e “neri della giungla” che arrivano qui sposati con dieci donne… Questione di scelte».
«Ma le risulta che ad alcuni locali siano state cambiate le serrature senza che il rettore ne sapesse nulla? e che attraverso quelle stanze sia stato portato fuori, clandestinamente, forse un terzo, un quarto dell’intera dotazione del tesoro del santuario?».
«Il cambio delle serrature lo confermo, le vecchie erano bloccate. L’abbiamo fatto per aumentare la sicurezza. Furti, lei dice… Non ne so nulla io, ma credo proprio di no. Ha parlato col sacrista maggiore fra Davide? o col vicario padre Alessandro? o con gli altri padri che certamente erano informati di tutto, perché padre Gilio, bisogna dargliene atto di questo, era uno che di queste cose della gestione, di cui non si interessava granché, ne faceva partecipi tutti i padri della comunità».
«Un’ultima cosa. Ho sentito dire, a proposito di un traffico di oggetti sacri rubati, che questi sarebbero finiti nelle case di qualche boss mafioso, in Sicilia e forse anche in America… Cosa le sembra? Si vocifera che questi boss siano, da atei pratici, come si dice, oltre che criminali, persone molto devote ai santi».
«E mica sono mafioso io! Ma davvero le pare che io possa sapere di queste cose? E comunque è assurdo, troppa fantasia, tutta fantasia. Gli ostensori nostri venduti ai mafiosi di Palermo…, o le pissidi… Cose da film gialli, basta avere fantasia… Da quanto sono uscito dal servizio al santuario me ne vivo tranquillo in questa casa. Mi godo la mia onesta povertà. Dai miei genitori ho avuto qualcosa che mi consente di andare avanti discretamente. La casa è mia, mi pagano una invalidità anche se sono soltanto quattrocentomila lire al mese. Poi do una mano a un patronato, lavoro solo la mattina tre ore, e anche da lì recupero qualcosa. Poi ho amici che, se serve, non mi lasciano certo nel bisogno. Ogni tanto, accompagno con la macchina Rosario, il signor Rosario dove lui deve andare, perché è sempre richiesto, gli vogliono bene tutti, anche fuori di Caregli…, non guida da molti anni per via di un disturbo alla vista, e allora io mi presto… e lui è sempre molto generoso con me, mi dà quasi tutto il compenso che riceve…».
«Non le ho chiesto conto della sua vita…», lo interrompe il professore.
«Ma io non ho nulla da nascondere, e quindi…», ribatte l’uomo del bunker, con aria da televenditore. Aggiunge: «Sì, vivo semplicemente e delle cose del santuario – calici o paramenti, antichi o moderni – non mi interesso più da un anno, perché quello che è fatto è fatto… Rottura totale, pazienza. Non ho rancore, se è questo che vuol sapere, verso padre Gilio che mi ha fatto molto male. Mi aveva accusato ingiustamente di tante colpe, perfino di avergli organizzato, una volta, una chiassata davanti al santuario con i parrocchiani di Campos e con quelli di Paulei, per contestarlo quando mi aveva licenziato, e poi di avergli fatto arrivare minacce… Figurarsi! Ho subìto l’umiliazione di essere interrogato in questura, e all’inizio anche i carabinieri sono arrivati a casa a frugare… ».
Nuovo stop dal professore: «Ripeto: lo scopo della mia visita è un altro, è di avere altre risposte».
Indifferente alla precisazione, l’ex sacrestano riprende da dove ha lasciato: …«poi sono intervenuti in tanti in mia difesa, quelli che mi conoscono, sacerdoti importanti che si fanno ascoltare, monsignor Pisinu della cattedrale, che mi onora della sua amicizia da quando ero ragazzino e lui era parroco al Villaggio delle case minime, dove noi vivevamo, e lui mi insegnava anche il catechismo, e poi monsignor Deriu, che era il confessore dei miei genitori perché è il miglior confessore di tutta Caregli, e anche il miglior predicatore modestamente, e anche lui mi stima molto, con lui si va a cavallo, è bravissimo anche nell’equitazione, uno sportivo sempre togo anche se ha già sessant’anni, e poi monsignor Silvestri, parroco adesso a Campos, una persona coltissima e di carattere, io lo farei subito vescovo perché sa comandare e raddrizzare quelli che sono spenti, è strano che ancora non l’abbiano promosso perché se lo merita davvero, e poi monsignor Armetto, l’economo e anche moderatore di curia, con cui siamo come fratelli da prima del seminario, siamo coetanei, facciamo le vacanze sempre insieme… E altri ancora sono intervenuti a mia difesa quando mi hanno chiamato in questura per quella chiassata e meno ancora c’entro per la macchina distrutta il giorno di Ferragosto… Gliel’avrà fatta saltare qualcuno di quelli che chiedevano troppo e lui non ha potuto aiutare, qualche drogato, o magari un nero, un marocchino magari… Sono i rischi di chi è in certi giri… Io non c’entravo nulla, il commissario l’ha riconosciuto e mi ha anche chiesto scusa. Io l’ho perdonato subito padre Gilio, non porto rancore. Quest’incidente lo ha tolto di mezzo troppo giovane, poteva fare ancora del bene…».
Fine dell’arringa di autodifesa. Colloquio forse inutile, forse no.
Di Giacomo Marinia si era sussurrato – mai detto – molto male. Ovunque. Soltanto nel vescovado le voci non erano mai giunte, o non erano mai state raccolte. La prudenza, si sa, può rivelarsi – a seconda delle intenzioni – virtù o vizio… E ogni volta è una scommessa, scoprire se sia l’una o l’altro. Il duplice riferimento negativo contenuto nella lettera del rettore al comandante della stazione di Cavagna («il casuale e sgraditissimo incontro del sullodato…», «il ripetersi, in circostanze diverse ma non meno gravi ed inquietanti…») sembra comunque indicazione di una pista non da trascurare. Non per risolvere il caso, ma per visitare, o penetrare, quelle atmosfere generate dai singoli le quali potrebbero spiegare il verosimile, e un giorno, chissà, il verocerto.
Pizzo moschettiere
L’incontro con monsignor Armetto Gioffré (il suo titolo prelatizio, ottenuto in occasione dell’investitura ad economo diocesano, è quello di “cameriere segreto di S.S.”) potrebbe dare al professor Dessì Manias quella risposta ai suoi dubbi che ancora non è emersa nei vari abboccamenti con i personaggi del dramma. Egli riconosce, malinconico, di aver fallito l’obiettivo con entrambi i suoi precedenti interlocutori, di non esser stato abile nel far uscire allo scoperto, con le notizie confidenziali di cui certo essi sono portatori, né il vecchio né il giovane del servizio pratico al santuario. Si ripromette adesso di essere più incisivo nel porre le sue domande, più capace di sbarrare le strade di fuga del suo terzo interlocutore.
L’abitazione che il sacerdote condivide già da almeno un anno con una coppia di amici, è nel moderno ed elegante quartiere cosiddetto Europa, nella periferia ricca della città.
«Benvenuto, professore». Moschettiere giovane e prestante, simpatico e cordialone con i baffetti staccati ed a punta e il pizzo barocco alla Sant’Efisio, in perfetta sottana nera e, sopra, un maglione grigio a V e senza maniche, che gli arriva fin quasi alle ginocchia, egli riceve, al quarto piano dello stabile completamente recintato da un rigoglioso verde, il suo ospite, precedendolo, agile e svolazzante, con movenze feline, in una sala-studio tutta vetri che guarda allo stagno ed ai suoi fenicotteri in gioco. «Sono a sua disposizione, anche se forse, come le ho detto al telefono, non sono la persona giusta per parlare di padre Gilio Manias, dato che i nostri incontri rimontano ormai a diversi anni addietro, mentre negli ultimi tempi le occasioni di vederci non è che siano state molte…», esordisce, con voce lieve ed affettata gentilezza, il moderatoris curiae et oeconomus. «Io mi occupo ormai quasi esclusivamente dell’economato diocesano, che è un impegno non da poco, e quindi negli ultimi anni con i padri del santuario della Tavola gli incontri si sono fatti, per necessità di cose, poco frequenti. Oltretutto, consideri che Celies in Villamaura non è compendio diocesano, ma domenicano, e quindi c’è un ambito di autonomia, sia economica che pastorale, rispetto alla chiesa diocesana e al suo ordinario, che spiega questa scarsa assiduità».
«Lo capisco bene, monsignore», risponde, non senza qualche diffidenza, l’ospite, che in quelle prime parole del suo interlocutore scorge una specie di presa di distanza, quasi un preannuncio di omertà. Poi aggiunge subito: «Ma io ho chiesto di incontrarla, e spero di non farle perdere molto tempo – oggi, poi, chiudiamo l’anno e lei avrà altri impegni –, per cercare di conoscere meglio alcuni aspetti soltanto della esperienza di mio zio come rettore del santuario, aspetti che lei può aiutarmi a lumeggiare perché l’hanno vista, in qualche modo, coprotagonista con lui di attività importanti per la valorizzazione del patrimonio artistico del santuario».
«Ah, bene», pare compiacersi del riconoscimento il giovane prelato in carriera. Per diffusa ammissione di simpatizzanti e non, egli è l’ascoltato leader delle ultime leve di preti sfornati dal seminario maggiore di Gereas con «brio e allegretto» (secondo la sempre più critica opinione dei colleghi della matura guardia conciliare e talvolta perfino con il parere contrario dei professori della facoltà). Ogni anno, il giorno anniversario della propria ordinazione, egli suole riunire i giovanotti – tutti rigorosamente con talare, fascia e berretta pomponata (e trattandosi di novembre, anche mantellone di panno nero) – e con loro celebra i riti d’una fraternità di marca lefebvriana. Tenebrosi venticinquenni. Insieme leggono, in un latino che pur è per taluno alquanto faticoso, il cerimoniale tridentino dell’ostiariato, lettorato, esorcistato ed accolitato, con pratica anche della sacra tonsura a qualche candidato al talarino. «Per amore alla chiesa e memoriale», si giustificano gli interessati con quelli che, scopertili, li interrogano sospettosi. Rivendicano la libertà della sequela spirituale a Pio V, il santo pontefice cui si devono i nuovi formulari di catechismo, breviario e messale in chiave di stretta controriforma, il santo dell’inquisizione a tutto campo, il santo della scomunica a Elisabetta I Tudor e della lega antiturca che vinse a Lepanto…
Nel presente di monsignor Armetto non c’è però soltanto… il passato, c’è anche… il futuro. Ed è, appunto, per prefigurarlo educando chi ancora non sa nulla, che egli ogni settimana si applica a scrivere un articolo a tutta pagina e molti corsivetti sul giornale diocesano, Orizzonti nuovi ovvero, come dicono i più incontentabili fra i preti cui esso perviene in abbonamento gratuito e non richiesto, «il giornale che non vale la carta». E’ certissimo che la semina, dati i presupposti, non avrà mai la fortuna di dare frutto, ma monsignor Armetto, cavaliere dell’impossibile, non rinuncia soltanto per questo a farsi pedagogo di una platea sognata…
«La cosa è abbastanza vecchiotta – osserva il moderatoris curiae et oeconomus, accennando a rievocare il suo passato di consulente –. Io ero stato incaricato dal rettore precedente di rinnovare gli assetti museali del tesoro della Tavola perché esso fosse meglio fruibile da parte del pubblico, a vantaggio cioè dei flussi di pellegrini o dei visitatori magari più interessati all’aspetto artistico-culturale, perché si voleva che le sale fossero aperte tutti i giorni… Ci lavorai molti e molti mesi, quasi un anno, con alcuni amici che per puro volontariato collaborarono con me. Tutto era quasi fatto, anche sul piano attuativo dei progetti che io stesso avevo predisposto e che il rettore aveva approvato, quando al santuario arrivò padre Gilio per sostituire padre Daniele, trasferito all’improvviso, non si è capito mai perché così all’improvviso, alla casa generalizia. Padre Gilio bloccò tutto, la cosa fu alquanto sgradevole, perché non si capiva proprio la ragione di questo suo comportamento… Io mi ritirai, e soltanto in tempi recenti, dopo tutto quello sconquasso di cui avrà letto anche sui giornali, con tutte quelle lettere che sono state pubblicate per i presunti, e incredibili e falsi, casi osceni capitati, per le malignità sparse alla grande da tutte le parti, e per il licenziamento del sacrestano, decisione sicuramente ingiusta e ingiustificata, sì soltanto in tempi recenti ho rimesso piede al santuario, su invito di padre Gilio stesso, per questioni attinenti proprio al tesoro…».
«Cioè?».
«Il rettore era convinto che fossero spartiti molti oggetti sacri, di antico artigianato artistico locale ma anche iberico dei secoli in cui l’Ordena dipendeva da Madrid, e mi chiese di partecipare a una specie di ricognizione collettiva, con alcuni padri della sua comunità conventuale e un altro esperto, una docente universitaria, per ricostruire un inventario che fosse confrontabile con quello che egli sosteneva di avere ricostruito assemblando diversi documenti originali, che invece io sono convinto non siano mai esistiti… Perché se fosse stato così, non credo che padre Daniele non ne sarebbe stato a conoscenza, e invece non me ne aveva mai parlato. E lui, padre Daniele, a me aveva consegnato un elenco sì, non scarno, però, tutto sommato, abbastanza più magro di quello che diceva padre Gilio… C’erano, lo ricordo bene, 846 fra oggetti liturgici e parati di varia fattura e vario pregio, io ne ho catalogato 846 ora saranno una decina d’anni… Padre Gilio, con quelle carte che diceva di avere, sosteneva che dovevano essere più di mille, perché dovevano esserci, secondo lui, tutte le donazioni fatte, per esempio, dai vescovi domenicani che hanno guidato nei secoli la diocesi e anche le altre della provincia e della regione, e ognuno qualcosa l’aveva regalata al santuario, chi una mitria chi una pisside o un calice ecc. Ma questo io non l’ho mai trovato, è rimasto un mistero».
Riprende, deluso per l’elusività e genericità di D’Artagnan, il professore: «Io so che era opinione di mio zio fossero scomparsi oltre cento pezzi. Era constatazione sua e di tutti che l’accesso ad alcuni locali con sbocco all’esterno fosse sbarrato da serrature non autorizzate da lui. Era constatazione sua e di tutti che l’impianto di allarme fosse stato disattivato, e naturalmente fosse stato disattivato da mani interessate. Era opinione sua che quelle mani fossero di uno interno all’ambiente…, o anche più di uno…».
«La mia parte è iniziata e finita come le ho detto. Del resto non so nulla. Come prete e come operatore nel settore, perché qualche esperienza e competenza ce l’ho e me la riconoscono tutti, e anche per quanto rivendico a mio merito per il lavoro compiuto di riordino e schedatura compiuto tempo fa, spero proprio, e anzi sono convinto, certissimo, che quelle perdite di cui lei mi riferisce come opinione di suo zio non rispondano alla realtà dei fatti. Soltanto questo posso dirle».
Una pausa di silenzio, poi la ripresa, in tono sommesso, come per obbedire ad un copione: «Qualche dispersione può essersi avuta, purtroppo. E’ doloroso ma anche inevitabile, è probabile in linea di fatto ed anche però inevitabile in linea di principio. Io stesso, raccogliendo un invito del rettore, qualche tempo recente fa, ho rinvenuto alcuni oggetti che si pensava fossero scomparsi chissà dove… Qualcuno aveva pasticciato le cose, ma non era certo niente di grave… Dell’allarme disattivato, anzi tranciato, poi, la responsabilità è evidentemente di altri, porta nomi e cognomi e anche titoli…».
Altro incontro deludente. Cosa concluderne? Bisognerà forse allargare il giro delle interviste, ascoltare i membri della comunità conventuale, i più attivi fra quelli impegnati nelle iniziative sociali del santuario – tutti laici –, forse anche chiedere un colloquio confidenziale con chi conosce meglio D’Artagnan, o il dandy Giacomino, o l’anziano Rosario-Domenico-Caterina: don Pisinu cioè, e don Deriu, e don Silvestri…