Serve un nuovo rapporto tra economia e società, di Mauro Magatti

Negli anni 30, quando la crisi aveva provocato disastri, Keynes si trovò ad affrontare una situazione analoga. Oggi in Italia occorre vincere la stessa sfida.

Si può pensare di superare la lunga transizione che stiamo vivendo solo se partiamo dall’idea che, a livello mondiale, si sono messe in movimento forze storiche profonde che non riusciamo ancora bene a comprendere né a valutare nella loro reale portata. Nella babele dei linguaggi contemporanei e grazie alla potenza dei social, le democrazie in tutto il mondo sono scosse dal vento forte e disordinato di una protesta che si produce per vie laterali, canalizzando il malcontento dei perdenti della globalizzazione (come nel caso dei Gilet gialli in Francia). Ex ceto medio, che fatica economicamente ma che soprattutto non crede più all’idea che la crescita sia, di per sé, la soluzione dei suoi problemi. E per questo costituisce il fronte del no (con un neoluddismo sociale che mette insieme elementi contraddittori: dai No Tav al rifiuto delle tasse per il diesel) affidandosi a leader politici che in comune hanno solo i loro sentimenti e le loro parole anti-establishment (qualunque cosa ciò voglia dire).

Dietro la superficie, si coglie però un dato più profondo: siamo di fronte alla consumazione della relazione tra individuo e ordine sociale per come l’abbiamo pensata e costruita dagli anni ‘60 ad oggi. Un’ampia percentuale di gente comune è ormai convinta — non per condizionamenti ideologici ma sulla base delle proprie esperienze quotidiane — che la quota di benessere e sicurezza in cui può ragionevolmente sperare è molto modesta. E per questo non è più disponibile a stare al gioco. Si può discutere se tale percezione sia fondata o meno. Ma quello che conta (e che non sembra sia stato capito da buona parte della intellighenzia) è che ormai da tempo siamo usciti dall’immaginario della crescita illimitata che ha dominato fino al 2008. Il problema è che i partiti di sinistra (a cui tradizionalmente si attribuisce una visione critica dell’ordine economico) hanno da tempo cambiato posizione, sposando una linea progressista che combina libertà individuali, innovazione e mercato. Per questo, oggi sembrano del tutto incapaci di raccogliere le istanze sociali che fondamentalmente chiedono che qualcuno si metta in mezzo tra le vite individuali e i grandi processi associati alla globalizzazione (dalla finanza al terrorismo alle migrazioni). Sapendo mediare tra la spinta modernizzatrice e le esigenze (economiche ma anche identitarie) delle comunità e delle persone.

La vera paura di tanti è quella di finire per diventare degli scarti di un «sistema» che, nel nome di grandi discorsi sul progresso e l’innovazione, di fatto si disinteressa dei destini concreti della maggioranza delle persone. Come recitava efficacemente uno dei manifesti dei Gilet gialli «Le élite pensano alla fine del mondo, noi pensiamo alle fine del mese».

Ho parlato prima di forze profonde che sono insieme materiali e spirituali. Forse si può addirittura arrivare a dire che quello che sta accadendo in questi anni segna la conclusione della parabola cominciata nel 1968, della quale il liberismo di destra e di sinistra sono state le due ali politico-culturali. In realtà, in questo mezzo secolo, abbiamo costruito un modello di vita radicalmente individualistico che oggi la digitalizzazione porta alle sue estreme conseguenze, eliminando tutte le mediazioni intermedie e schiacciando la comunicazione sul tempo immediato. E tutto ciò proprio nel momento in cui il cambio delle condizioni storiche rende difficile soddisfare la promessa di benessere e felicità per tutti. Ma se milioni di singoli individui, socialmente isolati, culturalmente indeboliti ed economicamente marginali reclamano quella sicurezza che la crescita di per sé non è più in grado di garantire, allora il rischio di un repentino rovesciamento autoritario (in forme necessariamente inedite) diventa più realistico.

Prima si riconosce questa frattura e prima sarà possibile evitare gli esiti più nefasti. Ciò concretamente significa tornare a interrogarsi su come sia possibile tenere insieme oggi crescita economica e democrazia. I termini della questione sono stati già delineati da Dani Rodrik, il quale ha parlato di un trilemma: «Se vogliamo far progredire la globalizzazione dobbiamo rinunciare o allo Stato-nazione o alla democrazia politica. Se vogliamo difendere ed estendere la democrazia, dovremo scegliere fra lo Stato-nazione e l’integrazione economica internazionale. E se vogliamo conservare lo Stato-nazione e l’autodeterminazione dovremo scegliere fra potenziare la democrazia e potenziare la globalizzazione». Il corso della storia ci ha portato a questo snodo: se, come oggi è evidente, dalle democrazie sale la domanda di una maggiore protezione sociale anche in contrasto con le esigenze dell’economia globale, è necessario pensare a un’azione politica capace di corrispondere a tale domanda. In fondo, fu proprio questa la questione che Keynes si trovò ad affrontare già negli anni ‘30, quando il disordine finanziario aveva provocato tanti disastri: riconnettere in modo nuovo intelligente e non regressivo economia e società è oggi la sfida che occorre vincere. Da qui non si può scappare. Ed è da qui che occorre ripartire.

Il corriere della sera 14 dicembre 2018

 

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