Gli eroici 79 compleanni di Angelo Pittau, presbitero, giornalista e poeta, direttore della Caritas alerese. Evviva don Angelo costruttore di “ponti”!, di Gianfranco Murtas
«All’inizio insegnavo pastorale nella Facoltà Teologica e latino, nelle ore libere insegnavo anche in un collegio delle suore del Sacro Cuore. Il collegio era frequentato dalle figlie dei ricchi e dei politici del Vietnam del Sud. Poi il Vescovo mi chiese di insegnare latino anche nel seminario diocesano. Era una situazione assurda: i Vietnamiti dovevano studiare il francese e poi il latino: gran parte delle lezioni alla facoltà erano in latino!
«Dopo alcuni mesi mi ribellai a questa situazione, lasciai la comunità dei Padri Gesuiti dove vivevo con tutti i confort ed andai ad abitare in un villaggio di Montagnards con un Padre vietnamita che avevo conosciuto in Francia. Con lui ero stato in Francia nell’esperienza coi Piccoli Fratelli del Vangelo: alla fine dell’esperienza io rientrai in seminario a Cuglieri e lui in Vietnam. Vivevamo assieme, lui, la sorella Huong e una quindicina di ragazzi e ragazze orfani nel villaggio di Montagnards che si chiamava “So Muoi Sau”, km 16.
«La nostra casa era una capanna di legno come le case dei Montagnards, per chiesa avevamo una capanna: era chiesa, luogo di riunione della comunità, ambulatorio medico, scuola per i ragazzi e per le ragazze della comunità. Con una “mobylette” la mattina andavo a Dalat ad insegnare. Presi subito la licenza in teologia e così insegnavo anche alla facoltà oltre che il latino anche dogmatica. Celebravo messa la mattina presto in una piccola comunità di Piccole Sorelle di P. De Foucault in un villaggio di lebbrosi, Kala. Ho ancora nostalgia del canto alla messa di quelle tre suore vietnamite, ho nostalgia di quelle messe, dell’odore di nafta della lampada del Santissimo, dell’alba che arrivava tra le fessure delle mura di legno della cappella… Era certamente un anticipo di paradiso. Avevo bisogno di capire di più, così cercai di avere contatto con un Padre delle Missioni estere di Parigi. Era missionario e teologo. Aveva studiato la lingua, i costumi di alcune tribù Montagnard, cercò in tutti i modi di conservare la loro lingua, la loro cultura, la saggezza del loro vivere. Poi anche lui dovette lasciare il villaggio, ritornato in Francia insegnò alla Sorbona.
«Fu anche l’amore a questi popoli delle montagne Annamite, a questi popoli minoritari, vittime del conflitto tra Vietnamiti del Sud e del Nord, vittime degli Americani a farmi decidere di lasciare Dalat per So Muoi Sau. Con Padre Khoa poi decidemmo di proporre ad un altro giovane italiano, che aveva vissuto con noi in Francia l’esperienza dei Piccoli Fratelli, di raggiungerci in Vietnam. Lui accettò e venne ad abitare con noi nel villaggio. Vivevamo come i locali: il P. Khoa, la sorella Huong, Ambrogio ed io. Come loro vivevamo nel villaggio impauriti dagli Americani, terrorizzati per le mine, i mitragliamenti, gli agguati, per i vietcong, per il loro tentativo di indottrinarci.
«Non so se avessi vera paura, vivevo uno stato di grazia che mi dava coraggio. Non ero imprudente. Insegnavo anche nel villaggio a non essere imprudenti. Ambrogio pian piano con l’agricoltura e l’allevamento aiutò a far mangiare tutti. Trovavo i soldi necessari per la vita della comunità facendo servizi di reportage in zone belliche. Le agenzie a Saigon mi compravano le foto e potevo così assicurare il riso al villaggio. Khoa si occupava della pastorale, dell’evangelizzazione come anche del vivere delle famiglie, dei bambini, dei giovani, dei vecchi.
«Mi immersi nella cultura del primitivo che non aveva scrittura ma segni, incisioni nei tronchi, colori, capii il bello, l’arte, il canto, i costumi del vivere, il culto dei morti, l’emozione del nascere quando Huong la notte mi chiedeva di accompagnarla perché una donna stava per partorire. Tenevo alta la lampada e lei l’aiutava a partorire. Nel villaggio sono diventato uomo. Incominciai a imparare il koho, la lingua del villaggio dove mi trovavo e che parlavano forse tremila Montagnards. C’era una lavagna verde nella capanna della chiesa, Huong ed io scrivevamo la parola in francese cercando di farne capire il significato e loro (bambini e la sera anche grandi) scrivevano la parola in koho. La pronunciavano, cercavano di spiegarla. Era un lavoro lungo, riuscimmo a tradurre in koho il Vangelo delle domeniche. Entravamo nei loro schemi mentali, nel loro linguaggio, nei loro segni e nei loro colori. Sorrido pensando che siamo arrivati a battezzare a Pasqua oltre duecento adulti. Un rito lì per lì inventato. Loro abitavano sulla riva sinistra del fiume Darian (da è acqua). Mi misi in una roccia al centro del fiume, i battezzandi scendevano nell’acqua, mi venivano vicino, mettevo la mano sulla loro testa e li immergevo nell’acqua del fiume pronunciando la formula del battesimo in latino.
«Prima abitavano sulla riva sinistra del Darian, bruciammo le loro capanne, i loro dei: sulla riva destra trovarono nuove capanne, terra da coltivare, animali da allevare, la casa della comunità, la chiesa. Erano Montagnards, restavano Montagnards, parlavano koho ma non avevano più paura dei loro dei, erano liberi. È la vita che ti aiuta a mettere assieme cultura e quotidianità. Come loro avevo paura, come loro coltivavo un orto, allevavo vacche e capre. Condividevo le loro vite, entravano nella mia capanna come io entravo nella loro, non ci si formalizzava negli schemi mentali, venivano sminate (quando ci riuscivano).
«I Vietcong della foresta venivano nel nostro villaggio la notte, cominciarono anch’essi a mettere le loro regole: dovevamo fornire medicine, riso. Cominciarono a cercare notizie, a costringere i giovani a seguirli. Eravamo tra due fuochi, eravamo nella guerra. A gennaio del ’68 cominciò l’attacco del Tet, ormai non c’era più nessuna zona sicura. Attaccarono l’aeroporto di Dalat, prima la zona era sicura. Si pensava che fosse quasi una zona libera, dove i Vietnamiti del Sud avevano concordato con i Vietcong una non belligeranza. Cadde l’illusione. Trovavo molta difficoltà a raggiungere Dalat, per poter insegnare. La Facoltà di Teologia restava chiusa per lunghi periodi, così anche le scuole superiori e l’università di Dalat.
«Incominciai a viaggiare per il Sud Vietnam. Le agenzie internazionali mi chiedevano di accompagnare i loro giornalisti. Da Saigon andai per tutta la Cocincina nel Delta del Mekcong, andai in Cambogia stessa. Avevo la tessera di giornalista di guerra. Mi accreditai, divenni quasi un veterano. Poi cominciai ad andare a Danang, Hué, Quan Tri nei teatri di guerra più amari. Ho raccontato di questi miei viaggi nel libro “Vietnam una pace difficile”. All’uscita del libro le autorità militari americane e vietnamite costrinsero i Padri di Dalat a farmi rientrare in Italia.
«Non potevo non denunciare ciò che vedevo: un popolo vittima di un guerra ingiusta. Una guerra di torture, violenze fisiche e psichiche, bombardamenti, devastazioni, uccisioni di inermi, una violazione della vita orribile. In me saliva la nausea, mi sentivo anch’io violato, usato, abusato. Non avevo paura tuttavia, continuavo ad aiutare il mio villaggio come potevo. Mi sentivo Vietnamita, Montagnard, in me sentivo la violenza del mondo. Scrissi il libro di poesie “Mie ferite”».
Dal “paese d’ombre” al vasto mondo
Villacidrese di stirpe antica e di sentimenti ed umori, mondialista di sogni ed obiettivi, don Angelo Pittau – prete fidei donum in Vietnam negli anni della guerra, operaio di fatica a Marsiglia, Lione e Torino, inventore di comunità dalle mille concrete realizzazioni tanto più nella sua Sardegna, fra Medio Campidano, Marmilla e Terralbese, poeta mistico come soltanto potrebbero esserlo i Piccoli Fratelli di Charles de Foucault cui idealmente si associò nella sua adolescenza – don Angelo Pittau compie, in discreta salute e mente ininterrottamente progettuale, i suoi 79 anni. Lo fa con la sua messa di ringraziamento all’altare della chiesa madre di Villacidro – quella intitolata a Santa Barbara, in cui sono parzialmente custodite (così come in Giappone) le ceneri del fratello arcivescovo Giuseppe S.J. –, lo fa sbrigando come sempre e da sempre gli impegni feriali messi in agenda, lo fa – immagino – raccogliendosi di sera, nella sua piccola mansarda cidrese, dirimpetto quasi alla casa che fu di Giuseppe Dessì, a fissare sulla carta i versi dell’ispirazione.
Fra qualche giorno, poi, presenterà a Villacidro, e a Guspini, e ancora a tappe in quasi tutti i paesi della sua diocesi di Ales-Terralba, un libro-intervista che egli ha firmato (ed io, insieme con l’editore Andrea Giulio Pirastu, amico comune, curato in ogni parte) con l’intenzione di raccogliere le sue riflessioni di vita: direi le riflessioni di una vita piena, di una vita combattuta in società con il suo Dio e con i poveri incontrati e cercati fra meridiani e paralleli.
In diverse circostanze ho confidato esser stato egli uno dei maestri della mia vita, un orientatore nato (e perfetto) di vocazioni umane. Più di quarant’anni di consuetudine spalmata su molti fronti mi indussero qualche tempo fa a proporgli di realizzare insieme un libro-intervista. Raccolsi allora molti materiali presenti nei miei archivi, a cominciare dalle annate più remote di “Nuovo Cammino”, il periodico della diocesi alerese, che documentano alcune delle prime prove letterarie di don Angelo ragazzo, seminarista al vescovile di Seddanus, a Villacidro. Riordinai il molto che aveva prodotto il mio sodalizio con lui: le presentazioni delle sue opere poetiche, il mio “Partenia in Norbio” (con l’esposizione dettagliata delle sue attività, dai centri di ascolto alle comunità di Is Benas e di Pimpisu, e le altre ancora), i contributi diversi offerti al suo mensile “Confronto” fra anni ’70 ed anni ’90, le prove delle comuni esplorazioni della personalità sapiente di monsignor Antonio Tedde. Coinvolsi poi, come in una doverosa e gustosa combinazione intergenerazionale, uno dei più cari allievi di don Angelo stesso, fra Villacidro, Guspini e Cagliari, editore giovane – titolare della EDIUNI – e fecondo promotore di iniziative convegnistiche in campo di exallievi salesiani: Andrea Giulio Pirastu, abile regista e classificatore di assortiti materiali fotografici.
Sono venuti così, in successione nell’arco di qualche settimana, una decina di incontri, a Villacidro, per conversare in tre del generale e del particolare, e registrare l’audiovideo. Poi le sbobinature, un corposo inserto con sessanta o settanta istantanee, la revisione critica dei testi, le integrazioni, le bozze in rifinitura… Ed ecco finalmente adesso “Viaggiando Chiesa (da Villacidro al mondo dal Vietnam alla Sardegna). I preti non sono fatti in serie”.
Ho pensato sarebbe stato bello festeggiare oggi il compleanno del nostro amatissimo don Angelo Pittau Pibiri anticipando alcune pagine – tre, quattro, non di più, delle oltre duecento del libro prossimo venturo – che illuminano taluna delle molte tappe ritmanti la sua intensissima vita sociale.
Da ragazzino al seminario di Villacidro
«Nella mia infanzia non dissi mai che desideravo farmi prete. Ero aspirante capo dell’Azione Cattolica, come chierichetto andavo a messa tutti i giorni, la mattina alle sei. Ma il giorno della cresima, la sera, dissi che volevo diventare prete, entrare in seminario, così all’improvviso. Ero un ragazzo vivace, forse monello. Ricordo mia sorella affacciarsi negli orti della Fluminera dall’alto di casa a richiamarmi: gridava “Angelo dimoniu”.
«La mia decisione meravigliò tutti, ma non venne messa in discussione. I miei genitori erano credenti praticanti. Giuseppe mio fratello era partito Gesuita, mia sorella suora. Dovetti prepararmi subito all’esame di ammissione alla scuola media, diedi l’esame nella scuola media Vescovile di San Gavino, mi preparò la maestra Amelia Trudu, eravamo nel 1951 […].
«Ero ribelle per tante cose insulse della vita di seminario, cose che ai Superiori sembravano indispensabili e che invece per me erano delle torture, non solo per me. Riuscivo a ridere di tutto, non ho vissuto il seminario come caserma o prigione, evadevo con i miei pensieri, i miei sogni. Stare in seminario per me fu un esercizio di resistenza. Resistevo perché volevo essere prete.
«Certo molti lasciavano lungo l’anno o in estate, la classe si assottigliava, da trenta delle medie si passò ai dieci della quinta ginnasio, ai cinque che poi andarono a Cuglieri. Non mi lasciai rovinare dalla caserma. Ma fu anche il seminario a darmi orizzonti: il Vescovo, mons. Atzori, don Murgia, i missionari che venivano a trovarci, i laici di Azione Cattolica, i poveri e i malati che visitavo in estate con don Manias. Non ero molto osservante delle regole, non ho mai avuto più di otto in disciplina! Ma mi ero creato il mio spazio: ero l’incaricato della sacrestia e della cappella, mentre gli altri andavano a giocare».
A dir dei Piccoli Fratelli
«Ragazzo seguivo con tensione le notizie della guerra di Corea, della caduta del colonialismo, del risveglio dei popoli di colore, della necessità di andare oltre il pontificato di Pio XII. La diocesi affidata a mons. Tedde era dentro queste riflessioni: alcuni preti erano andati missionari in Messico, Brasile […]. Carlo Carretto che si ritirò nel deserto a pregare, a lavorare e che lavorava a Bindua non poteva non stupire il mio cuore di ragazzo. D’altra parte avevo un Vescovo che faceva autostop, a volte accettava un passaggio in lambretta, che tolse le “classi” nelle liturgie, le tariffe per i sacramenti e per le messe, che aveva la sottana macchiata dal moccio dei suoi orfani. Una Chiesa povera, mendicante con lui Vescovo solidale con il dramma degli operai di miniera, dei contadini e pastori, degli orfani, dei ragazzi e giovani senza cultura: tutto questo era mons. Tedde per me […].
«La vicinanza dei Piccoli Fratelli, vicinanza mistica più che fisica, mi ha segnato nella mia crescita umana ed ecclesiale, sono andato avanti sulla strada che imparai dai Piccoli Fratelli adeguando il loro insegnamento di vita spirituale alla concretezza delle situazioni di vita umana, sociale in cui mi venivo a trovare […]. Nella mia vita con le giornate piene di lavoro, quasi senza respiro, ho cercato sempre momenti di silenzio, di preghiera, di contemplazione, di interiorità. Ho cercato di fare pace nel tumulto del mio vivere. Non c’è bisogno di esteriorizzare, c’è bisogno di dare un “ritmo” […]. Anche il servire è interiorità».
A Cuglieri la libertà conquistata
«Per me l’andare a Cuglieri fu un salto di vita. Ricordo il lungo viaggio in camion, con i materassi, le valigie. La strada bianca, le campagne non coltivate, il caldo. Non ressi per l’emozione e mi misi a piangere segretamente. Il pianto è una costante nella mia vita. Mi emoziono fortemente nel mio intimo e questa emozione si manifesta nel pianto, nelle lacrime, in un turbamento profondo. A volte gli altri ridono ma io non me ne vergogno.
«Andare a Cuglieri fu uno strappo, strappo dalla mia famiglia, dal mio paese, dai miei orizzonti. Ma a Cuglieri trovai un respiro culturale che mi eccitava, questo sia in liceo che in teologia. A Cuglieri la vita era bella. Non amavo lo sport, calcio e pallavolo, anche se prefetti e prefettini mi volevano obbligare a praticare uno sport. Io evadevo o andando a lavorare nel parco del seminario o rifugiandomi in biblioteca. Pian piano mi impegnai nella Congregazione Mariana, nel Circolo Missionario, o in attività fuori seminario (Lega Missionaria Studenti). Soprattutto mi rifugiavo scrivendo drammi che poi facevo recitare ai miei amici nelle varie “accademie” del seminario. Ho ancora questi drammi: una ventina di quaderni».
Scrivere di dubbi e ribellioni
«Sin dal ginnasio scrivevo i miei diari in quaderni dalla copertina nera e bordo rosso, li conservo ancora. Nei diari ci sono le mie inquietudini, i miei perché, anche le mie angosce. Nei diari c’era già la fatica del vivere, delle mie scelte, dei miei dubbi. Nella mia vita tutto questo c’è ancora ma mi accorgo che la causa non è il regime della Chiesa, regime che nella Chiesa non è cambiato ancora. Angoscia, fatica di vivere, dubbi, ribellioni fanno parte del mio essere in questa vita, nel mondo di oggi. Si vive nel rischio forse perché sono credente. Fede non è avere certezze… È vivere come se… E questo è dolore».
Criticando il Piano di Rinascita
«C’era allora in Sardegna una grande attesa per il Piano di Rinascita sardo. Credo che strategicamente la Regione si impegnasse a presentare il Piano di Rinascita in tutte le realtà della Sardegna. Fu così che esso venne presentato anche nel seminario di Cuglieri. Vennero in seminario a parlare ai chierici un po’ tutti gli assessori e poi venne anche il presidente della Regione Corrias.
«Con Petronio Floris avevamo preparato un documento di una ventina di pagine, l’avevamo duplicato e diffuso tra i chierici. Il nostro documento aveva la pretesa di preparare i chierici alla presentazione del Piano che avrebbero fatto gli assessori regionali. Era molto critico e prendeva posizione contro certe scelte, mi sembrava che il Piano abbandonasse la scelta dell’agricoltura per prendere quello della chimica, del tessile. Noi eravamo contrari».
A Marsiglia per scaricare granaglie
«Alla fine della terza teologia, prima del diaconato, andai in Francia per sei mesi. Abbandonai il seminario per fare un’esperienza di lavoro e di vita di preghiera con un gruppo di 30 giovani di 26 paesi diversi, eravamo con una comunità di Piccoli Fratelli del Vangelo. Non volevamo fare i “piccoli fratelli” ma volevamo chiedere qualcosa di più a noi stessi. Pregavamo la mattina presto e poi si andava a lavorare, al rientro ancora pregavamo. Lavoravo in una fattoria, poi andavamo al porto di Marsiglia e scaricavamo le granaglie dalle navi: la mattina presto eravamo nei campi di un mas a lavorare come braccianti.
«Le relazioni che avevo avviato a Bindua (non solo con i Piccoli Fratelli ma anche con un gruppo di laici di Cagliari, alcuni giovani e altri meno giovani), mi aiutarono molto e hanno continuato ad aiutarmi da prete: penso ad Arturo Paoli, a Carlo Carretto, a Gerard Faber, a Paul Cheval soprattutto nei primi vent’anni del mio sacerdozio […].
«Volevo essere prete per il mondo e imparai che si può essere fratello universale anche chiuso in un piccolo villaggio degli Altopiani Annamiti o del Sahara, o della Marmilla […].
«Ho il sogno ancora di quella cappella: una piccola stanza nuda, con un tavolo per la messa, un piccolo tabernacolo, un lumino, delle stuoie per inginocchiarsi, prostrarsi o sedere […]. Perché volli fare quella esperienza? Volevo essere un prete nuovo, diverso, volevo rompere la casta, era il desiderio di proiettarmi in un’altra dimensione del servizio ecclesiale e sociale. Anch’io sognavo una Chiesa-comunione dove il popolo di Dio aveva la sua centralità».
Diarista e poeta
«Negli anni di teologia ricevetti i vari ordini minori per l’ammissione al diaconato e al presbiterato, dalla tonsura al suddiaconato come tappe scontate, forse senza coinvolgimento totale, lucido. Tuttavia dai diari di allora risulta che niente era scontato, tutto per me era una conquista, una lotta. Mi trovavo dinanzi alle scelte di vita, anzi mi trovavo dinanzi alla vita. Non ero spensierato ma nemmeno angosciato. Sentivo in me delle potenzialità da sviluppare, da mettere in opera e allo stesso tempo ero lucido nei miei limiti. Sviluppai in me non tanto la percezione delle sicurezze che il mio essere prete mi avrebbe dato, quanto i rischi, le sfide che avrei dovuto affrontare.
«In quegli anni scrissi un libro di poesie che poi stampai appena fatto prete. Nella copertina misi questa poesia:
Non posso darti nome né volto
perché sarebbe sceglierti
ed io non ho scelta
anche se hai il mistero dei brividi miei,
la chiave del mio sonno pesante
la speranza e il profumo del fiore
del mio albero in fiore
Ma ora io ti chiamo
e un volto ti do per un attimo
per dirti che ti ho pensato
ed incontrarti un giorno vorrei
un giorno senza fine e senza ansie
tra le stelle e gli angeli belli
e i sorrisi belli dei nostri occhi
Iddio che sa chi dovevi essere
dirà allora del mio andare solo
e del dialogo nostro muto».
La prima messa e l’accademia
«La programmazione che feci per la mia prima messa fu il fissarla per il giorno stesso dell’ordinazione sacerdotale, di pomeriggio. Dopo la messa ci siamo recati con la gente al saloncino della parrocchia per un momento di festa. Allora dicevano per “accademia“ […].Mi ricordo che oltre a ringraziare dissi che avrebbero dovuto baciare non le mie ma le mani a mio padre e ai miei fratelli perché loro avevano lavorato per pagare la retta del seminario maggiore e minore. Si offrì un amaretto, un savoiardo, il caffè o un bicchierino di rosolio. Questa fu la festa della mia prima messa […]. Celebrai con un camice senza pizzo, con una casula semplicissima».
Viceparroco a Tuili
«Quando arrivai a Tuili incominciavano le fazioni della Democrazia Cristiana, apparvero i primi comunisti. Non ruppero la coscienza comunitaria, continuava la partecipazione comunitaria alle feste religiose, ai momenti delle nascite e delle morti, ai matrimoni. Le famiglie di riferimento continuarono ad essere i medici, i giudici, i maestri elementari, i proprietari.
«Non c’era o non veniva percepito, un sistema di ingiustizia. Il lavoro, anche quello di zappare il grano, le fave oppure di pascere il gregge non proprio, era rispettato, amato, compensato. Non c’era elemosina. Ho amato sempre Tuili per questo. Ricordo il ruolo delle San Vincenzo, non era di elemosina ma di serena condivisione. Loro mi hanno insegnato tanto per il mio impegno poi in Caritas.
«Mi calai nella vita del paese, le stesse iniziative pastorali (oratorio, coro parrocchiale, visite alle famiglie, gite coi giovani e ragazzi…) divennero del paese non solo della parrocchia. Tuili, lo ripeto, mi insegnò tanto. Mi diede responsabilità, maturità».
La religiosità popolare
«Sono certo che una qualsiasi azione pastorale in una comunità parrocchiale non possa prescindere dal rispetto dell’autentica religiosità popolare. Tutti esprimono la loro religiosità come sanno e possono. Noi ecclesiastici abbiamo trasformato tutto in legge, anche la fede. Il popolo invece della fede ne ha fatto una relazione con il Padre misericordioso. Ognuno ha la sua religiosità, uno l’esprime come sa e può: uno ha l’immaginetta nel portafoglio, l’altro si fa il segno della croce quando si alza, un altro prega senza mai andare in chiesa, un altro crede che la fede della moglie sia anche la sua fede. Noi preti invece abbiamo trasformato tutto in legge».
Perché in Vietnam
«Studiavo alla Pro Deo, mi incontravo spesso con dei Gesuiti. Feci amicizia con Padre Giorgio Melis, era professore nell’università di Macerata ed esperto dell’Estremo Oriente. Ritornava dal Vietnam, fu costretto a lasciare la facoltà di teologia di Dalat per le sue idee critiche sul governo del Sud-Vietnam e sulla presenza degli Americani in Vietnam.
«I Gesuiti del Vietnam erano tutti reduci della Cina, avevano conosciuto prigione e angherie da parte dei comunisti, gli stessi cristiani vietnamiti erano in gran parte scappati dal Nord comunista. Padre Melis con le sue idee decisamente non poteva più stare in Vietnam per quanto anche lui fosse vittima dei comunisti. Così dovette rientrare in Italia. Ma la sua partenza creò problemi grossi nella facoltà, non si trovava chi potesse sostituirlo.
«D’altra parte la guerra imperversava, attacchi dei vietcong, bombardamenti degli Americani, angherie dei soldati di Thieu. Padre Melis mi chiese se volevo andare al suo posto, i Superiori della Facoltà erano d’accordo, pronti a ricevermi.
«Per me il Vietnam era un’icona del mondo. Era la lotta per la libertà, la giustizia, la pace. Per questo mi sentii fortemente motivato, non feci calcoli anche se mi stuzzicava l’esperienza che avrei potuto fare in Vietnam per il giornalismo.
«I Gesuiti nell’accordo mi garantirono vitto e alloggio. A casa mi promisero un certo aiuto economico, un fratello mi garantì quindicimila lire al mese, delle zie mi avrebbero mandato delle intenzioni per le messe. Partivo come prete Fidei Donum, forse uno dei primi, partivo con l’accordo del mio Vescovo e quello di Dalat».
Mille giorni dopo: la cacciata
«Le autorità vietnamite e americane fecero capire ai Gesuiti che dovevo andare via, subito. Non mi diedero tempo nemmeno di fare i bagagli, di salutare. Mi trovai catapultato in Thailandia in attesa di un aereo per l’Italia. Mi sentivo distrutto, sconfitto. In Thailandia i Padri che mi ospitavano e mons. Carretto fratello di Carlo Carretto mi portarono in ospedale, forse restai alcuni giorni in coma. Mi risvegliai o ripresi conoscenza mentre mi lavavano in una vasca da bagno.
«Non so cosa mi fosse successo. Lasciato l’ospedale restai alcuni giorni ancora a Bangkok e poi rientrai in Italia ma non per molto. Seppi che un gruppo di preti di varie regioni d’Italia volevano fare uno stage in Francia, a Lione con i Piccoli Fratelli del Vangelo e con i preti operai del Prado. Mi unii a loro, non mi sentivo pronto per rientrare in diocesi, mons. Tedde mi lasciò libero.
«Raggiunsi la periferia di Lione, ci sistemammo nel piccolo villaggio di Grenay in una vecchia canonica abbandonata. Eravamo una quindicina. Facevamo vita comune: preghiere, adorazione, lectio divina. La mattina alle sette entravamo nel cantiere, io facevo il manovale. Mi vedo ancora dinanzi ai cumuli di sabbia, ai secchi di cemento, alla betoniera che non si fermava mai e che dovevo alimentare: sabbia, cemento, acqua, sabbia, cemento, acqua. Senza sosta. Rientravo la sera nella canonica e mi buttavo per terra per l’adorazione. Quattro mesi così, arrivò l’inverno, il freddo, la pioggia, la neve. Sentivo che le ferite si cicatrizzavano: si faceva pace in me senza dimenticare il Vietnam. La durezza del vivere mi portò ad ammalarmi ai polmoni. Dovevo smettere.
«Pensai di rientrare in Italia. L’amicizia con mons. Bettazzi allora Vescovo di Ivrea, alcuni contatti con mons. Carlo Chiavazza direttore del “Nostro Tempo” settimanale di Torino, l’amicizia con alcuni preti di Torino mi spinsero a non rientrare subito in diocesi e andare a Torino.
«Nella mia vita ci sono stati sempre dei momenti che improvvisamente. Sono stato un ragazzo che ha lavorato tutta la vita, prima di entrare in seminario e dopo, fra gli anni ’50 e gli anni ’60, quando esplose in Italia lo sviluppo industriale e la gente scappava dai nostri paesi per andare a lavorare in Belgio, in Francia, in Svizzera, oppure nelle nostre regioni del Nord, nel famoso triangolo Genova Milano Torino. Erano gli anni in cui il mondo che conoscevo era tutto in tumulto, voleva e cercava il cambiamento. I portoghesi scappavano dall’Angola o dal Mozambico. Il colonialismo era fortunatamente entrato in crisi in tutto il mondo. In tutto il mondo povero dire lavoro voleva dire sfruttamento. Qualcuno, e anche più di qualcuno, disse che ero marxista. Ma il lavoro non è una categoria cristiana? Dio ha lavorato, è stato il primo lavoratore e poi la giustizia, la dignità della persona!».
Missione Torino (periferia operaia)
«A Torino mi accolse il Card. Michele Pellegrino, che chiese a don Piergiorgio Ferrero e a me di fondare una parrocchia nella periferia, alla fine di Corso Orbassano vicino al cancello di Mirafiori Sud.
«Erano sorte un’infinità di case per impiegati e ceto medio e grandi palazzoni per operai. Si stimava una presenza di ventiduemila abitanti: c’era il quartiere, ma non c’era la parrocchia.
«Andammo a vivere in via Chevalley 2, in un appartamento in affitto A Piergiorgio e a me si aggiunse presto un altro giovane prete, don Domenico Monticone, anche lui voleva fare il prete operaio ma non ne aveva la forza. C’era una piccola cappella gentilizia al confine con il Gerbido, divenne la nostra chiesa parrocchiale: forse poteva contenere cinquanta persone! Il Cardinale eresse la parrocchia con il titolo dell’Ascensione […].
«La mattina andavo a lavorare in una impresa edile dentro Mirafiori. Ritornavo a casa alle due e mezza. Incominciavo così il lavoro pastorale: i giovani del quartiere, i comitati di quartiere, la formazione delle famiglie, la scuola di fede, i corsi biblici, la vicinanza agli operai, ai disoccupati, ai senza casa, all’accoglienza dei migranti che arrivavano dalle regioni del Sud Italia.
«In quegli anni a Torino cominciò a lavorare anche don Ciotti, i genitori abitavano nel nostro stesso pianerottolo, dinanzi al nostro appartamento. Fu Luigi Ciotti a sensibilizzarci e a sensibilizzare i giovani della parrocchia ai problemi del carcere minorile sia per i maschi che per le donne. Luigi Ciotti operava ancora nella stazione di Porta Nuova dove aveva allestito alcuni vagoni per l’accoglienza.
«Con gli emigrati in cerca di lavoro arrivarono a Torino tanti ex preti in cerca di lavoro e di vita nuova. Mi introdusse in questo problema don Cavallo che aveva creato un’organizzazione per accogliere questi confratelli. Erano sperduti, senza lavoro, senza casa, alcuni con il problema della compagna. Non avevano titoli di studio, nessuna qualifica. Organizzai un gruppo che preparava questi preti ma anche gli immigrati a prendere il titolo di terza media e una qualifica. Con una rete di amicizie riuscivamo a farli assumere come portinai, centralinisti e così potevano studiare.
«In quel periodo a Torino, sia nella società civile che in quella ecclesiale, si respirava il nuovo, un futuro di sviluppo, di apertura, di dialogo, di sperimentazione. Era la Torino del Concilio, del “Camminare insieme”, la bellissima lettera pastorale del Card. Pellegrino. Certo c’erano anche le resistenze o fughe in avanti non controllate e grandi conflittualità anche nella Chiesa. Ma si comunicava. Nel quartiere dove eravamo c’era anche un mondo sotterraneo di ribellione, di violenza: le Brigate Rosse a Torino nacquero in via del Prete, nel quartiere dove operavamo.
«Ero impegnato nel comitato di quartiere, dirigevo il giornale di quartiere “Mirafiori Sud – Ovest” poi venni chiamato a dirigere “Confronto” bisettimanale della appena nata FLM. Fu un cammino breve per le gravi conflittualità e visioni diverse della lotta a Mirafiori, delle occupazioni delle case, della lotta politica. Iniziava l’era del dialogo, dialogo della Chiesa con la sinistra politica e sindacale. Il Card. Pellegrino venne ai cancelli di Mirafiori Sud – Ovest che avevamo occupato».
Il rientro in patria, Villacidro centro dell’universo
«Mi arrivò, alla fine del 1973, verso Natale, una lettera di mons. Tedde che mi chiedeva di rientrare in diocesi perché c’era da fondare una parrocchia a Villacidro. Per lui era tempo che riprendessi il lavoro nella Chiesa locale e mi impegnassi in qualcosa di nuovo: questo qualcosa di nuovo lo vedeva nella periferia del mio paese natale Villacidro dove le fabbriche e il dinamismo di sviluppo creato da quegli insediamenti avevano dato vita ad un quartiere nuovo con nuove case e nuovi abitanti, con gente che veniva anche da fuori paese e da fuori anche del circondario. Quel quartiere comprendeva la zona delle casermette.
«Il Vescovo mi chiese se me la sentivo di fare il parroco di quella zona di Villacidro che non aveva chiesa, non aveva strutture. Allora si trattava soltanto di un progetto, di inventare il nuovo – la novità di fare Chiesa, non una “chiesa” – raccogliendo la provocazione, il bisogno sociale e religioso che si presentava. Risposi a mons. Tedde che avrei fatto senz’altro l’obbedienza, ma che avevo bisogno di qualche settimana – poi furono tre mesi – per riflettere, per riordinare i pensieri, per misurare le mie forze.
«Rientrato in Italia andai a Roma sia per incontrare, nella sua casa, Giuseppe Dessì, sia per continuare a coltivare i rapporti con l’IDOC internazionale. In quel periodo fui molto colpito anche da quanto si diceva dei “mali di Roma”, dell’impegno della Chiesa per soccorrere anche al bisogno materiale degli emarginati romani.
«Arrivato a Villacidro parroco della parrocchia Madonna del Rosario mi trovai senza chiesa e senza strutture. Così presi in affitto un garage per farne la chiesa, io stesso fui il manovale per adattare il garage. Subito creai un gruppo di giovani ragazzi e ragazze. Lo chiamai “gruppo base”, tolsi il “di base” per non creare subito polemiche. Ci radunavamo nella mia mansarda, poi in casa di Antonio Rossi o a casa dei giovani stessi. A volte non c’erano sedie a sufficienza e così… permettevo che le ragazze sedessero sulle ginocchia dei loro ragazzi.
«I laici diventarono subito i protagonisti della comunità parrocchiale in formazione: laici maschi e femmine. Allora alla messa si diceva “fratelli”, io dicevo “fratelli e sorelle” […]. Ci radunavamo per pregare con i salmi (Vespri), ci confrontavamo sul Vangelo domenicale, facevamo alla luce della parola “revisioni di vita” […]. Fondammo il comitato di quartiere, la gente si radunava nella chiesetta, quella divenne l’unico spazio di aggregazione per circa tremila persone. La chiesetta garage non aveva più di ottanta posti. A messa la gente stava accalcata dinanzi all’altare e fuori per strada.
«Con il comitato di quartiere, organizzammo la partecipazione dei genitori ai problemi della scuola: asilo, elementari, medie. Quando arrivarono i decreti delegati noi ci siamo lasciati coinvolgere pienamente. I bambini erano numerosissimi, non c’erano strutture scolastiche a sufficienza, incoraggiammo ed organizzammo i genitori nel coinvolgimento dei problemi della scuola, a noi si unirono altri giovani e un gruppo di docenti.
«E c’era il problema del lavoro: i sindacati erano presenti e vivacissimi. Si cercò di lavorare assieme, anche per questo la chiesetta fu luogo di incontro e di scontro, di dibattito. Eravamo presenti nel quartiere, nelle scuole, nelle fabbriche.
«Purtroppo incominciò subito, dopo neppure dieci anni dall’inizio dell’industrializzazione, la crisi delle fabbriche. Incominciarono a chiudere la SNIA Viscosa, la Filati Industriali. Non potevo non schierarmi e schierarmi fu avere contro il mondo della Democrazia Cristiana, dei ben pensanti, dell’Azione Cattolica.
«L’impegno nel sociale allora come del resto oggi per me ha una dimensione non solo laica ma spirituale. Il servizio è spirituale, il “come colui che serve” è il Cristo servo di tutti. Per me l’unico abito liturgico che andrebbe esaltato è il panno di cui Gesù si cinse i fianchi per asciugare i piedi degli apostoli dopo averglieli lavati».
Religione come socialità ispirata
«Fondammo la “Scuoletta”: i bambini e ragazzi delle famiglie più disagiate li accoglievamo per aiutarli a fare i compiti, per essere competitivi con gli altri ragazzi, per non lasciarli indietro. Oggi si parla di dispersione scolastica, si combatte la dispersione scolastica mettendosi a servizio. La sera avevamo creato i corsi di recupero: molti operai e giovani li frequentavamo per poi presentarsi agli esami di terza media.
«Con il tempo la comunità parrocchiale, passando dalla chiesetta alla casermetta, si creò le sue strutture: aule, palestre, sale d’incontro, palestre scoperte, l’oratorio non solo come luogo di gioco ma di formazione culturale e di lavoro.
«Per meglio lavorare con la scuola avevamo creato “l’Università della famiglia”. Era un movimento che ci permetteva di lavorare assieme con i docenti e con i genitori e con il mondo della solidarietà. Chiamavamo, per rigorosità di impegno, docenti dell’università, pedagogisti, psicologi, medici che parlassero “in questo mondo che cambia” ai genitori e alla scuola. In questo lavoro ci aiutavano alcuni docenti del Liceo Classico di Villacidro e gli alunni stessi del liceo».
Parrocchia-comunità e luogo comunitario
«Praticamente in sette anni ci siamo dotati di tutte le strutture che ci servivano. Ottenemmo un piccolo finanziamento a valere sulla legge 162, non erano nemmeno 100 milioni di lire, ma noi abbiamo costruito per 880 milioni. Non abbiamo avuto nemmeno un soldo della Regione, è stata la comunità del paese che mi ha aiutato in tutte queste realizzazioni. E direi anche che, ancor prima di essere completate, le strutture sono state messe a servizio del paese e sono state utilizzate dal paese: la banda musicale non aveva sede e così abbiamo dato per un po’ di tempo la sede alla banda musicale, così alla Villacidrese calcio, al Villacidro. Nacque la squadra di pallavolo Madonna del Rosario nel nostro oratorio, gli scout avevano anche loro una sede in parrocchia… Nel 1993 misi nella casa parrocchiale il Centro d’Ascolto, nell’oratorio la mattina avevamo i corsi professionali.
«I figli dei poveri venivano bocciati a scuola e non ce la facevano a prendere la licenza. Noi organizzavamo i corsi di recupero per la licenza di terza media, sono state molte centinaia gli uomini e le donne delle fabbriche che hanno potuto prendere la licenza media, perché noi tenevamo il corso la sera, dopo il lavoro… Centinaia sono stati anche i ragazzi che frequentarono i corsi professionali, che si svolgevano la mattina oppure il pomeriggio, dentro i locali delle opere parrocchiali. Qualcuno diventò falegname o meccanico, altri operatori in altri settori perché seguirono i corsi di informatica di secondo livello, altri di tecnici delle comunicazioni…
«Molti hanno anche trovato collocazione da Nonna Isa. I corsi non erano soltanto manuali, avevamo una larga gamma di scelte da offrire. Abbiamo promosso anche corsi per educatori professionali: si chiamavano “educatori di comunità”, questo ha permesso che questi giovani creassero successivamente cooperative, diventassero autonomi e creassero a loro volta altre occasioni di lavoro. La parrocchia era relazione, servizio […].
«Dai primi anni della parrocchia Madonna del Rosario vennero da noi tante personalità: dalla Pro Civitate Christiana di Assisi, Giuseppe Lazzatti, Raniero La Valle – già direttore de “L’Avvenire d’Italia”, il giornale di Bologna che aveva accompagnato il Concilio –, don Giuseppe Dossetti (entrato nella mia vita verso il 1976), don Ciotti […]. Poi Carlo Carretto, Arturo Paoli, Gerardo, e poi mons. Di Liegro, mons. Pasini, il Vescovo ausiliare di Sarajevo… Abbiamo ospitato anche Giovanni Franzoni nel periodo della più dura contestazione».
Una faticosa pedagogia
«Cercavamo di comprendere le nuove problematiche della vita moderna, le separazioni, i divorzi… Cominciavano le conflittualità generazionali, fra genitori e figli; cominciava, e purtroppo si diffuse in fretta, lo sballo, l’iniziazione alla droga un modello di vita facile, del guadagnare senza lavorare, del mettersi in malattia pur stando bene, del giovedì a caccia, dell’assenteismo […]. Non ci siamo adagiati in un mondo che perdeva eticità, vedevamo il positivo e il negativo, vedevamo che stava arrivando non tanto il benessere, che è cosa sacrosanta, ma il consumismo, anzi lo spreco […].
«Insegnavo al liceo e un giorno dissi: “posso guardare sotto i banchi? Vedo che avete tutti quanti gli stessi pantaloni”… Risate, però l’osservazione fece riflettere. Era un tentativo di rispondere ai bisogni della gente facendo riflettere. Ricordo che fece storia, mi pare su “L’Unione Sarda”, quando denunciai il fatto che l’andare ai corsi professionali per quelli che erano in cassa integrazione era diventata una festa. Durante il viaggio in pullman mettevano la registrazione di canzoni salaci, raccontavano barzellette pesanti.
«Osservavo e facevo osservare che chi non ha lavoro e vive di un aiuto dello Stato non ha voglia di divertirsi così. Presero la cassa integrazione come un di più: il corso non era che una facciata, perché tanto i soldi arrivavano senza lavorare. Denunciai questo venti o trent’anni fa, perché questo ha portato la decadenza di Villacidro e Guspini. Molti si adagiarono nella cassa integrazione e nelle pensioni facili. Combattei la frase “la difesa dell’esistente” perché non si può tenere mille persone in cassa integrazione per anni e anni. Così oggi siamo arrivati alla pensione del nonno che campa figli e nipoti! È trent’anni che nel nostro territorio abbiamo questo scandalo. Si dice: “la zona più povera d’Italia”, ma la nostra povertà non è povertà di risorse bensì povertà di passività culturale, di comportamento…».
Dal Linas uno sguardo sul mondo, ma…
«Pensavamo in grande, per il terremoto dell’Irpinia coinvolsi le parrocchie, il liceo, il territorio: ci furono tante donazioni, misero i camion a disposizione gratis. Ci andai con decine di volontari per un mese. Lo stesso per soccorrere le vittime delle guerre nell’ex Jugoslavia, in Croazia, in Bosnia. In Croazia fondammo un Centro di Ascolto a Sisak e a Packraz. Andammo a Sarajevo con oltre quaranta volontari a ricostruire le case bombardate.
«La dimensione di solidarietà internazionale ci portò in Honduras, in Tanzania, in Ciad. In quegli anni ci sembrava di poter fare tutto, ma poi tutto diventò terribilmente duro. L’assistenzialismo, i soldi che arrivavano per la cassa integrazione mentre tanti avevano il doppio lavoro… Ci si adagiò, si restò affogati dai piccoli privilegi, venne meno la solidarietà, la lotta per i diritti, la voglia di cambiare, il resistere all’adagiarsi. Quello era il momento della denuncia, della parresia. Restammo voce che grida nel deserto, davamo solo fastidio. Anche la Chiesa si rifugiò nell’assistenzialismo. Fu in quel periodo che lasciai la Caritas. Non servivo più, disturbavo».
Presbitero è meglio che sacerdote
«Il prete continua a considerarsi il sacerdote che entra “solo” nel santuario, che “solo” ha rapporto con Dio, con le cose sacre, che è separato, diverso dalla gente. Aggiungici che spesso è ignorante, non sa cosa sta facendo, a nome di chi e per chi, a volte non entra nel mistero e tanto meno in relazione con il popolo che è presente e che non solo gli sta difronte. Non ha passione con la gente, non piange con chi piange, non gioisce con chi gioisce.
«Tutto è senza pathos: esequie, battesimi, matrimoni… Alle celebrazioni spesso si dicono banalità, non c’è coinvolgimento, tutto fil liscio seguendo il messale; oggi poi ci sono i foglietti domenicali preparati da chi sa quale “esperto” che ti fa pregare secondo le sue riflessioni rese spente, insulse “dall’adattarsi” a tutte le assemblee […]. Non voglio dire che io sia diverso, sia nel celebrare che nelle omelie. Tuttavia a lungo nella parrocchia Madonna del Rosario all’omelia la domenica partecipavano anche i laici. Le omelie erano attualizzate per le persone che avevi davanti, per il momento che l’assemblea stava vivendo».
Centro d’Ascolto, Centri d’Ascolto
«Nacque il Centro di Ascolto Madonna del Rosario: la parrocchia venne sensibilizzata alla carità, al dono. I volontari accoglievano, ascoltavano quanti venivano. C’era empatia, amicizia, fratellanza. I volontari aiutavano le famiglie con le risorse della parrocchia, delle famiglie, della generosità dei singoli, con la loro stessa generosità.
«Ricevevamo oltre cento persone alla settimana: malati, poveri, nomadi, poi le famiglie con minori in disagio, famiglie in difficoltà relazionale. Ci dotammo di un’équipe psico-socio-pedagogica, poi di medici, psicologi, psichiatri. Ci aprimmo ai problemi delle tossicodipendenze, della psichiatria.
«Nacquero 28 gruppi-famiglia in 28 posti diversi della parrocchia. Andavo una volta al mese da tutti. Le famiglie si riunivano, leggevamo il Vangelo e affrontavamo con il metodo della “revisione di vita”, i problemi del momento, tanto i problemi della famiglia quanto quelli della comunità. Fu un bel sostegno alla parrocchia, direi che quei gruppi erano la parrocchia diffusa, una comunità libera ma insieme coesa. A loro non sfuggiva niente, dove non arrivavamo noi arrivavano loro, ovunque. Ci fu un periodo in cui pensammo di fare un piccolo oratorio nei pilotis delle case popolari, mi dissero che avremmo favorito l’isolamento senza volerlo: tanti piccoli isolamenti, e invece era opportuno il contrario, bisognava mischiare le presenze, creare relazioni…
«Nel Centro di Ascolto Madonna del Rosario si creò il servizio per i tossicodipendenti e gli alcooldipendenti, per quelli con problemi psichiatrici. Un gruppo di giovani fondò il Gruppo Siloe per malati mentali abbandonati dalle famiglie. Arrivai a comprare un pullmino, di seconda mano ovviamente, i volontari passavano nelle case e prendevano i malati e li portavano dove avevamo i nostri spazi, nelle casermette all’inizio, poi nei locali della chiesa nuova. Allestimmo dei piccoli laboratori, si trattava di disegnare sul vetro o traforare, erano laboratori di manualità, di canto, anche di logoterapia (ma allora non si usavano questi termini). Il Gruppo Siloe nacque dai giovani, i giovani ci aprirono ai malati mentali.
«Potevamo contare su questi giovani, fu una bella esperienza formativa anche per loro. Quando esplose il problema psichiatrico per la chiusura dei manicomi per noi fu naturale impegnarci a fondare una comunità per accogliere i malati mentali. Betania nacque per dare una vita bella a queste persone svantaggiate. Nacque in parrocchia. Prima i malati mentali restavano tutta la vita chiusi in casa o erano reclusi in manicomio».
1977, un mensile di cinquemila copie
«Noi vedevamo come con il terrorismo, che allora era già esploso in Italia e aveva fatto già decine di vittime, si profilava la morte del mondo operaio, la morte della coscienza di popolo, cioè del desiderio di riscatto, della volontà di mettere le proprie risorse al servizio della comunità. Comprendevamo che arrivava il periodo oscuro dell’antipolitica e dell’antisindacato, allo stesso tempo quello di chi avrebbe approfittato della politica e del sindacato. Abbiamo voluto contrastare questa dinamica perversa. Abbiamo così creato un gruppo di base che ragionasse insieme e portasse avanti questo suo ragionare insieme.
«Così prima nacquero i nostri dibattiti, poi abbiamo avuto la necessità del giornale. Ci riunivamo in seminario una cinquantina di persone, facevamo il riassunto di questi incontri e iniziammo a pubblicare una specie di riassunto di questo dibattere e a diffonderlo come foglio duplicato chiamato “Insieme”.
«Da questi incontri poi nacque “Confronto”. Si creò una rete di conoscenze che andava oltre Villacidro, coinvolgeva tutta la nostra diocesi, al di là degli schieramenti politici, senza legarci o negarci a nessuno. Ci vedevamo ogni quindici giorni, discutevamo e dopo cenavamo insieme – questa dimensione conviviale è stata una costante per me –, da questo nacque la redazione. Nasceva per confrontarci e dal confronto nasceva il giornale. Questi incontri divennero la redazione di “Confronto” […]. Per noi la piccola notizia del luogo non era soltanto cronaca, era un’idea progettuale…».
Fare, fare, ma è d’obbligo prima pensare (e pregare)
Quanto ancora avrei potuto piluccare (e qui riversare) da una intervista impegnativa, testimoniale, come quella cui il presbitero-poeta, il professore-giornalista, il missionario-pedagogista ha consegnato se stesso, concedendosi ad una operazione verità dai tratti assolutamente coinvolgenti e perfino commoventi…
Dagli anni ’70 ad oggi sono trascorsi quattro decenni e più, e don Pittau li racconta come testimone e protagonista ad un tempo. Dicendo “io”, e rettificando in continuazione, quasi mortificato per una (invero impossibilissima) accusa di egotismo, con un “noi”, presenta i fatti ma più ancora i perché dei fatti, quel mondo morale e spirituale da cui ogni sua azione prende forma ed energia.
Le esperienze delle comunità come risposta umanista e cristiana, solidale nell’operativo, ai bisogni i più diversi e tutti pressanti. Le esperienze delle comunità dopo quelle dei centri d’ascolto sparsi nel territorio della sua diocesi. Le esperienze delle cooperative giovanili ma anche di quelle dei maturi pastori della “San Giuseppe” alle prese con passività abnormi da risanare soltanto con un giusto mutuo negoziato con il Banco di Sardegna, le esperienze guspinesi (più che decennali) – nella chiesa madre di San Nicolò vescovo – e quella certa concessione di fior d’ettari agricoli del demanio parrocchiale a lavoratori senza terra e capaci invece di farli produrre…
Le riflessioni critiche – s’intende nella dimensione (che fu anche quella di don Efisio Spettu) della comunionalità, mai dell’ostilità o del dispetto – sulla Chiesa d’oggi, la Chiesa grande universale e la Chiesa piccola regionale (affidata quest’ultima a vescovi per larga parte inadeguati al ruolo: giudizio mio), l’analisi scoraggiata sugli arretramenti di certo clero giovane imprigionato nelle suggestioni di un tradizionalismo lefebvriano (culto dell’anticaglia non della vera tradizione che è invece patrimonio tutto conciliare!) e sulle insufficienze formative del seminario regionale, questo e altro ancora nelle considerazioni di don Angelo Pittau.
Una omologazione semplificativa fra un clero e certa opinione sociale che considera i sacramenti – siano matrimoni siano battesimi o prime comunioni – come occasioni di baldoria pagana, di passeggiate di moda per le macchine da presa e la claque: il conformismo diffuso impedisce oggi perfino di vedere lo spettacolo avvilente: «in una chiesa parrocchiale il celebrante di un matrimonio ha permesso che gli anelli degli sposi fossero portati in un carretto tirato da due cagnolini […].. Se osi dire di no, di fare ragionare finisci sui giornali, su facebook. Quando non ti capita, ma capita, che il Vescovo dia ragione alla gente. Il problema è che il prete non è che abbia perso il “ruolo” che vogliono riconquistare i lefebvriani. Il problema è che il prete non ha più relazione, dialogo, empatia con la gente. Non c’è, non c’è il prete e non c’è comunità ecclesiale, di fede. Non c’è lievito, luce nel candelabro, sale».
Ancora: «Abbiamo creato meccanismi che si sono svuotati di significato e si sono rivoltati contro: catechismo, incontri per i sacramenti, corsi per i fidanzati etc. Ora sono azioni vuote, senza pedagogia, senza autentica relazione: strategie fallite. D’altra parte tanti preti non sono preparati a questo. È uno dei limiti del seminario regionale. Dopo la fine dell’esperienza di Efisio Spettu come rettore – ricordi che ne abbiamo parlato? – si è spezzato qualcosa, quella voglia di rinnovamento, di autenticità, di passione per l’apostolato».
Aggiunge: «Che dire di quei preti che aprono la chiesa giusto pochi minuti prima della messa, subito dopo (venti minuti), finita la messa, i preti scompaiono. Tanto arriva puntuale lo stipendio. Ho vergogna di dire queste cose ma noi preti qualche esame di coscienza dovremmo farlo».
E più oltre: «Rispetto a tanti altri lavoratori, il prete diocesano è un privilegiato. Appena ordinato riceve uno stipendio che di norma è qualcosa di più del salario di un operaio, 1.200/1.500 euro al mese… Un giovane neolaureato oggi, se non ha i genitori che lo aiutano, se lo sogna uno stipendio così. I preti giovani dovrebbero vivere la vita della maggior parte dei giovani sardi. Non devono essere privilegiati. Per me questo è scandalo».
Ombre, forse per un maggior risalto della luce, se verrà, quando verrà: «Questo è il tempo della purificazione, il tempo destruens, preti sempre più pochi, le suore stanno chiudendo le loro case e opere, i fedeli sono sempre di meno anche la domenica, non ci si sposa in chiesa, non si confessa, non ci si confessa. Mi sembra (spero che sia solo la mia sensazione) che ci sia un’ignoranza abissale. Tanti preti usano bene il telefonino ma non leggono, non studiano, non hanno studiato… un’ignoranza abissale. Sono vecchio, a volte mi dico che tutto questo è necessario per la purificazione. Tuttavia, nella speranza che non demorde, vedo che sta per nascere una Chiesa povera, di poveri come le prime comunità apostoliche… Questo mondo sarà evangelizzato. Si tornerà alle catacombe un po’ in tutto il mondo. Si tornerà al martirio, alla testimonianza, alla luce, al sale, al seme, alla croce. “Se il seme non muore non porta frutto”».
L’austerità non è straccioneria: «Gesù non ci è presentato dai Vangeli come un pauperista. Dice agli apostoli di preparare la cena al piano superiore della casa, non si presenta come un sindacalista teorico di un radicalismo straccione. La povertà è “essere come loro”, quella vissuta da tanti santi, quella vissuta da miliardi di uomini, di poveri Cristi. Il pauperismo non mi sembra una virtù cristiana: la povertà sì! Hai bisogno di una casa per dormire, e se non paghi l’affitto non ce la fai. Devi andar avanti nella modestia ma non nell’affanno.
«Personalmente non ho mai pensato di accumulare per farmi una casa o la villetta al mare, come non ho mai pensato di fare soldi per la tranquillità della vecchiaia. Ho la mia pensione e mi deve bastare. A 75 anni mi sono dimesso da parroco di Guspini, come era giusto: non avevo e non ho un ruolo da difendere, dovevo staccare la spina. Ciò che è necessario per la serenità del vivere basta. Ti dà la serenità mentale di progettare, di fare bene il tuo dovere di prete e di uomo […]. Resto convinto di quella formula: meno soldi, meno potere, meno ruolo. La Chiesa ci guadagnerebbe in credibilità, perché questa viene dalla testimonianza più che dalle prediche.
«Sono ritornato a vivere nella mansarda (un sottotetto) in cui ho vissuto dal mio rientro a Villacidro. Me la donarono i fratelli e i genitori. Ho costruito tanto, per me niente, non ho nemmeno la tomba: sarò sepolto coi genitori».
Duecento pagine, quelle di “Viaggiando Chiesa”, che raccontano un vissuto personale e raccontano però anche un’infinità di altri protagonisti, e molti territori, molte società – dell’Isola e del vasto mondo – complesse e in travaglio, raccontano una istituzione ecclesiale, di lato alla categoria comunonale del “popolo di Dio”, sentita anche come agenzia educativa ed oggi – col pontificato Bergoglio – in un nuovo passaggio epocale…