La Cina senza confini, di Ernesto Galli della Loggia

La concomitanza di quattro fattori ha dato un impulso determinante allo sviluppo del grande Paese asiatico come mai accaduto prima.


Il caso ormai notissimo occorso a Dolce & Gabbana — la casa d’alta moda italiana spinta a chiedere scusa al popolo cinese per una sua pubblicità giudicata offensiva da quel Paese — getta luce su una cruciale trasformazione che è iniziata da tempo ma che in questo inizio del XXI secolo sta assumendo proporzioni impreviste soprattutto in seguito alla globalizzazione.

Mi riferisco alla crescita esponenziale del peso dell’economia nel sistema delle relazioni e delle organizzazioni internazionali: un fenomeno che ancora una volta sembra rivolgersi a danno soprattutto dell’Europa. Naturalmente l’economia ha sempre costituito un elemento determinante nel definire la potenza di un Paese, e l’arma economica è sempre stata usata in vari modi (sanzioni, embargo, limitazioni commerciali, ecc).

Negli ultimi venti anni, però, le cose stanno velocemente cambiando o sono già cambiate, e il protagonista assoluto di questo cambiamento è la Cina. La quale è oggi in grado di adoperare l’arma economica suddetta come mai è accaduto prima grazie ad almeno quattro fattori: 1) l’enormità smisurata del suo mercato interno che assommando a poco meno di un quarto dell’intera popolazione mondiale è decisivo per lo smercio adeguato di molte produzioni di altri Paesi; 2) il bassissimo costo del lavoro che fa del Paese un luogo ambitissimo di delocalizzazione per un gran numero di industrie occidentali. Poi gli altri fattori: 3) la crescita vertiginosa di una produzione manifatturiera competitiva che ormai si è spinta anche nei settori ad alto contenuto tecnico; 4) l’accumulo nelle mani dello Stato di un forte potere dirigistico e insieme di un’immensa quantità di risorse finanziarie (le riserve cinesi, ammontanti a 3.200 miliardi di dollari, sono le maggiori del mondo).

Se non sbaglio è la prima volta nella storia che questi quattro fattori appaiono riuniti insieme. Si tratta di una novità che corrisponde all’altra assoluta novità storica incarnata dalla Cina: e cioè quella di un Paese che vede la presenza contemporanea di un’economia in tutto e per tutto di tipo capitalistico da un lato, ma dall’altro di un sistema politico dittatoriale che non solo detiene importanti strumenti di orientamento economico ma che, non riconoscendo alcun diritto di libertà individuale e collettiva, è di fatto padrone della vita e della morte dei suoi cittadini. In Cina anche il miliardario proprietario legale delle più grandi ricchezze, detentore del massimo potere economico, può in pratica sparire dalla sera alla mattina nel buio di una galera del regime senza che egli possa fare realmente nulla per ritornare a vedere la luce.

L’insieme di queste, diciamo così, singolarità interne, unendosi alla novità epocale della liberalizzazione planetaria dei mercati, sta da tempo consentendo alla Cina un’ampiezza e una libertà di movimento mai viste che Pechino gestisce con dura spregiudicatezza.

Il che, come dicevo, non manca di produrre enormi cambiamenti nel quadro internazionale candidando la grande nazione asiatica ad un ruolo di potere mondiale senza confronti, specialmente per le forme nuove in cui si esercita. Si va dall’acquisto crescente di quote importanti dei debiti sovrani occidentali (già oggi Pechino detiene ad esempio circa il 12 per cento del debito americano) alla costruzione delle ormai celebri «vie della seta» — cioè di alcune grandiose catene di iniziative infrastrutturali e commerciali destinate a collegare la Cina con l’Eurasia fino ad affacciarsi sul Mediterraneo e sull’Atlantico grazie all’acquisto di grandi porti (51 per cento di quelli del Pireo, Bilbao e Valencia; 49 per cento di Marsiglia, 35 di Anversa) — all’acquisto di enormi spazi agricoli in Africa per produrre cibo da importare in Cina che, accompagnato alla fornitura a molti Paesi di armi e infrastrutture varie, specie nel settore dei trasporti, configura una vera e propria neocolonizzazione di fatto.

Tipico di tutte queste grandi iniziative di espansione economica e implicitamente politica è il fatto che nel metterle in opera la Cina si guarda bene dall’adottare alcun discrimine o preferenza di natura ideologica. Essa semplicemente sceglie ciò che più le conviene senza fare alcuna distinzione tra questo o quel regime, tra questo o quel Paese. Non dovendo rispondere a nessuna opinione pubblica interna, va bene tutto purché sia utile ai suoi interessi geopolitici: le tirannidi sanguinarie come le più limpidi democrazie liberali. Ciò che le sta a cuore è solo il proprio interesse e l’imposizione di alcuni punti irrinunciabili per il proprio prestigio: non è un certo un caso ad esempio se ormai a riconoscere l’esistenza di Taiwan sia rimasto in tutta l’Africa un solo Paese, lo Zimbabwe.

D’altra parte egualmente degno di nota è il fatto che l’espansionismo cinese, proprio perché fondato in così ampia misura sul potere dei soldi e sui meccanismi del mercato — ormai assurti anche da noi al rango di divinità indiscutibili — non susciti neppure nell’Europa cristiana, liberale e socialdemocratica, alcuna apprezzabile critica e tanto meno una qualche opposizione significativa.

Così come nessuno, peraltro, sembra fare caso al ruolo sempre maggiore che la Cina della dittatura del partito unico svolge negli organismi internazionali, ad esempio alle Nazioni Unite. Seconda oggi solo agli Usa nei contributi regolari all’organizzazione (il 12 per cento delle entrate Onu nel prossimo triennio), nonché fornitrice di ben 2.500 caschi blu e di un fondo di un miliardo di dollari per le operazioni di peacekeeping, la Cina ha quadruplicato il numero dei suoi esperti rispetto solo a qualche anno fa. Naturalmente tutto ciò ha un prezzo: in questo caso lo smantellamento che Pechino ha richiesto e ottenuto di un programma previsto dalle stesse Nazioni Unite mirato a diffondere la cultura dei diritti umani all’interno della stessa organizzazione.

Del resto sul modo in cui l’Impero di mezzo concepisce la sua partecipazione alla vita degli organismi internazionali la dice lunga quanto è accaduto nelle settimane scorse all’Interpol. Da circa due anni la Cina aveva ottenuto di occupare la prestigiosa presidenza dell’Istituto che ha sede in Francia con un suo ex viceministro degli Interni, Meng Hongwei. Ma nel settembre scorso Meng, tornato per pochi giorni in patria, viene arrestato dalle autorità sotto l’accusa di «corruzione» e come migliaia di suoi concittadini in pratica scompare. Impossibile per chiunque avere sue notizie. L’Interpol riceve semplicemente e accetta senza fiatare, prendendola per buona, una lettera dattilografata di due righe e senza firma manoscritta con la quale Meng comunica le proprie dimissioni. Contemporaneamente sempre l’Interpol, secondo uno scambio di mail che Le Monde ha potuto vedere, viene «amabilmente richiesta» da Pechino di essere messa a parte sull’argomento «di ogni informazione o commento che potrebbero esser divulgati dall’organizzazione o da qualche suo rappresentante». Ultimo dettaglio forse non insignificante: dal 2010 a oggi l’ammontare della partecipazione della Cina al bilancio di Interpol è raddoppiato.

Il corriere della sera, 1 dicembre 2018.

 

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