Sveglia cari liberali. Di corsa a studiare, di PIERLUIGI BATTISTA
La ventata antistatalista degli anni Novanta è finita male, con l’attuale ribellione contro le éilite. Oggi- suggerisce l’ex ministro Calenda – bisogna riconoscere gli errori e rimettere tutto in discussione.
Confesso di averci creduto, e anche molto. Ho creduto, più o meno sul finire degli anni Ottanta del secolo scorso (un’era geologica fa) all’avvenire radioso di una società che si liberava dai ceppi dello statalismo invadente e illiberale.
Una società più libera, più dinamica, più moderna, meno umiliata da una burocrazia politica famelica e immobilista. Una società in movimento, che avrebbe premiato l’intraprendenza e la fantasia dei singoli individui affrancati dal dominio di una collettività ottusa e frenatrice. Una società capace di sprigionare le sue energie migliori, di non mortificare il merito, di valorizzare appieno i talenti individuali.
Ho creduto al sogno liberale, senza peraltro dar retta alle sciocchezze di Francis Fukuyama sulla <<fine della storia›› con la fine dell’Unione Sovietica, di un Occidente che avrebbe potuto trionfare con la sua parte migliore. Non era soltanto un affare per economisti ed esperti che ci spiegavano quanto il privato avrebbe funzionato meglio del pubblico, con più efficienza, con migliori performance: certo, un risultato importante, ma non era questo che poteva incantarci. Era l’idea di un altro mondo possibile, di un’Europa addirittura piacevole da vivere: con i conti a posto, ovvio, ma soprattutto gradevole, aperta, amichevole, libera. Qualcosa che avrebbe preso il meglio di quella straordinaria, storicamente inedita ed esaltante fusione di benessere e diritti sociali, capitalismo e Welfare, costruita dall’Europa uscita stremata dalla guerra, ma al contempo liberandosi di slancio del peggio di quella storia: gli sprechi inauditi, la burocratizzazione di ogni ambito della vita, i carrozzoni dello Stato e del para Stato, un peso fiscale asfissiante, la corruzione di una politica troppo intrusiva e prepotente, e così via.
Era un sogno, un sogno liberale andato a male. Un fallimento, la parola non mi sembra eccessiva.
E noi oggi ci aggiriamo increduli e sgomenti tra le macerie di quel doloroso fallimento, tra percentuali elettorali sempre più irrisorie delle forze che in maggiore o minor misura si richiamano al liberalismo e un’afasia culturale delle élite detronizzate che fa spavento.
Che cosa è andato storto? Dove abbiamo sbagliato? Perché si è appiccato nelle parti più deboli della società il fuoco dell`insurrezione contro quel modello, la secessione silenziosa della sua parte più rassegnata, o la rivolta elettorale della sua parte più chiassosa?
Uno dei più grandi studiosi del Medio Oriente, Bernard Lewis, attribuiva all’incapacità delle un tempo rigogliose società islamiche di rispondere a questo interrogativo – <<che cosa è andato storto?» – il crescere velenoso di un risentimento cieco e impotente, e con gli esiti che tristemente conosciamo, nei confronti dell’Occidente infedele o miscredente che le aveva sopravanzate e umiliate nel corso dei secoli.
Cambiato tutto quello che c’è da cambiare, sembrano prevalere nelle élite liberali i segnali di un analogo rancore malmostoso.
Un giorno i lamenti che un tempo si sarebbero definiti «reazionari›› sull’imbarbarimento del popolo incolto e volgare. Un altro ancora le scorciatoie emotive, tipiche di chi vuol negare l’ingresso tumultuoso in un’altra storia, completamente diversa da quella novecentesca, che agitano lo spettro di un «ritorno al fascismo›>: i riferimenti più noti e collaudati per scacciare la paura dell’ignoto. Finalmente però voci isolate e autorevoli stanno cominciando a squarciare il velo di silenzio attonito attorno al terremoto sociale e culturale che stiamo vivendo. Voci liberali che non fanno sconti sulla visione critica, dolorosamente critica, di un sogno andato a male. Voci che partono da punti di vista diversi, con competenze diverse, ma che sono accomunate dalla stessa pulsione, quella di rispondere all’interrogativo fondamentale che dovrebbe porsi chiunque voglia capire le ragioni profonde di una storia che non è andata nel senso desiderato: “Che cosa è andato storto”?
Se lo chiede addirittura la bibbia laica del pensiero liberale, l’”Economist”, che dice: dobbiamo capire come abbiamo fatto, noi che diffondiamo con autorevolezza (oggi per la verità un po’ scalfita) opinioni e modelli culturali, a sottovalutare i costi sociali di una scelta che ha generato, con il «populismo» variamente
modulato nelle sue varianti di destra e di sinistra, una ribellione degli strati sociali più disagiati. Siamo stati sordi e’ ciechi, abbiamo creduto alle virtù taumaturgiche del mercato, e ci ritroviamo nel cuore della rivoluzione contro il mercato. Poi c’è il libro di Maurizio Molinari, “Perché è successo qui?” (La nave di Teseo), che accusa i difensori del modello liberale di essersi ostinatamente rifiutati divedere il crescere di nuove, clamorose disparità sociali: proprio la sinistra, nata per correggere e combattere le diseguaglianze, non solo non è riuscita ad accorgersene, ma si è fatta paladina di quel modello.
Non è paradossale? Che cosa è andato storto? Nota Molinari che “se i partiti tradizionali avessero dedicato più tempo e risorse al rafforzamento dei diritti dei cittadini, ciò avrebbe consentito di avere uno scudo di anticorpi per fronteggiare la valanga populista». Sarebbe stato necessario. Purtroppo non è accaduto.
Poi c’è l’analisi coraggiosa di Carlo Calenda nel suo “Orizzonti selvaggi” pubblicato da Feltrinelli. Un esame impietoso e privo di indulgenze: «All’indomani della caduta del muro di Berlino, l’Occidente era pronto a ingoiare il mondo attraverso un progetto egemonico fondato su: libero commercio, libera circolazione dei capitali, diffusione della sua cultura, dei suoi stili di vita e di consumo, democrazia, diritti».
E invece, «a meno di trent’anni da quel momento possiamo dire che davvero molto è andato storto. Oggi l’Occidente è profondamente indebolito, il nostro peso politico ed economico si è ridotto, le nostre società sono più ineguali, i nostri valori sono messi in discussione, il senso di appartenenza a un’unica civiltà è sempre più flebile››. Le pagine del libro sono piene di dati inoppugnabili che testimoniano l’esito dolorosamente inadeguato di un modello rispetto alle sue promesse. Poi si può essere in disaccordo oppure no con le ricette suggerite da Calenda per far rinascere un progetto moderno e progressista, ma rimane la sensazione di quanto sia difficile restare orgogliosamente “progressisti”, di quanto sia necessario rimettersi a pensare, a studiare, per capire le ragioni di uno scacco inatteso, di un terremoto che ha messo radicalmente in discussione certezze, modi di pensare, abitudini mentali che parevano consolidate, ma si sono sbriciolate di fronte a una offensiva inattesa.
Leggere. Studiare. Capire. Leggere per esempio, sfidando la mole di circa novecento pagine, un capolavoro della storiografia novecentesca come “Dopoguerra” (Mondadori) di Tony Iudt, oggi riproposto da Laterza con il titolo Postwar. Leggere per capire come lo strepitoso cammino degli Stati europei sia stato una felice combinazione di benessere diffuso generato da un capitalismo audace e capace di misurarsi con le dimensioni del mercato di massa (belli i tempi in cui si deplorava il «consumismo››, a pochi anni dalla fine della fame per milioni di persone), e progresso sociale con la diffusione del Welfare, il sistema di protezione e di civiltà costruito attorno ai pilastri dell’istruzione per tutti, della sanità universale, del sistema previdenziale e assistenziale, della costruzione di infrastrutture civili in appoggio allo sviluppo industriale, dell’edilizia popolare.
Quel modello, promosso sia dalle socialdemocrazie che dalle forze liberali cristiano-democratiche, era imperniato su una parola che oggi appare una bestemmia: spesa pubblica. Perché si è speso molto, moltissimo, per fare di un’Europa devastata e piagata dalla guerra un modello di civiltà.
Costano le pensioni, costa la scuola per tutti, costa la sanità per tutti, costava portare elettricità e acqua potabile nelle case che ne erano prive. Si è speso moltissimo, ma virtuosamente. Perché la spesa sociale non è un tabù in quanto tale: esistono una spesa buona e una non buona.
L’Europa è diventata quello che è diventata, e sembra strano dirlo ora che appare e viene percepita come un sinedrio di arcigni contabili e di ragionieri, perché ha speso molto, e anche il Piano Marshall, il carburante che ha permesso all’Europa democratica di rinascere e ripartire, è costato moltissimo: avrebbe superato l’esame dei parametri di Maastricht?
La spesa è stata l’equivalente economico di un senso di appartenenza civile – sia pur nel mezzo di conflitti che in una società liberaldemocratica sono un segno di ricchezza civile – di un senso di comunità cementata da un progetto di miglioramento, di una società che cresceva, più ricca, più moderna. Più giusta, si può dire?
Tutto questo è costato troppo, però.
Troppo economicamente, ma soprattutto troppo in termini di gigantismo degli apparati dello Stato, mortificazione delle energie economiche, di scoraggiamento degli sforzi individuali. E qui è nato il sogno di una svolta liberale. Ma non avevamo fatto i conti con la desertificazione sociale provocata dalla riduzione dei dritti, dall’attenuarsi dei sistemi di protezione universale.
Pochi hanno lanciato l’allarme in tempi non sospetti. Pochi hanno letto il senso di allarme contenuto nelle pagine di un romanzo insieme autobiografico e civile come “Storia della mia gente” di Edoardo Nesi (Bompiani), storia di una perdita economica, denuncia accorata degli effetti deleteri di una globalizzazione senza diritti sociali.
Pochi hanno capito, ma intanto si approfondiva il fossato tra le élite che avevano abbracciato il dogma «liberista» e il popolo che se ne sentiva sempre più escluso, folla solitaria e risentita in cui cresceva un sentimento ostile, violentemente ostile, nei confronti di un modello così pieno di promesse non mantenute. Poi, in chi si era tatto molte illusioni, il silenzio, l’afasia, la difficoltà di comprendere le ragioni di un diluvio. La fine di un sogno. La battuta d’arresto del progressismo.
Confesso di averci creduto, nell’ultimo decennio del secolo scorso.
Da la lettura, DE IL CORRIERE DELLA SERA, 11 NOVEMBRE 2018