L’irrealtà politica sul baratro, di Ernesto Galli della Loggia
Il cuore della nostra crisi sta solo per una metà nei propositi scervellati del governo. Per l’altra metà sta nell’inconsapevolezza assoluta che regna nell’opposizione.
Anche se faccio parte del popolo italiano, con buona pace del vicepresidente Salvini non mi sento affatto sotto attacco se l’euro-commissario Moscovici critica la manovra finanziaria del governo pentaleghista di Roma. Penso che nel merito, infatti, Moscovici abbia sicuramente degli argomenti dalla sua (quelli davvero decisivi ce l’hanno in realtà gli acquirenti del nostro debito pubblico). Peccato però che sia l’istituzione che egli rappresenta, cioè l’Unione europea, questa Unione europea, a non avere più alcuna presentabilità e credibilità politica. Da questo punto di vista Moscovici ricorda Gorbaciov, l’ultimo segretario del Pcus: diceva cose giuste ma parlava a nome di qualcosa, l’Unione sovietica, che palesemente stava ormai per esalare l’ultimo respiro.
L’Unione europea si sta avvicinando a una condizione simile. Le elezioni che vi si terranno tra sei mesi, decretando la probabile vittoria delle forze nazional-populiste potrebbero essere l’inizio del suo collasso definitivo. La cosa strabiliante è che perfino di fronte a una simile prospettiva ormai chiara da tempo nessuno dei partiti e degli esponenti politici che hanno fin qui governato l’Unione si sia dato la pena di pensare o fare qualcosa per invertire il corso degli eventi. Quale testimonianza più evidente del carattere ormai quasi comatoso della sua crisi e del marasma che domina i suoi vertici?
Anche gli esponenti di quelle forze politiche italiane che si dicono europeiste, e che si schierano ormai sistematicamente con il punto di vista di Bruxelles servendosene in ogni occasione per la lotta politica interna, anch’essi, dicevo, pur affermando da anni che l’Unione Europea è necessaria, necessarissima, e pur aggiungendo sempre che però oggi l’Unione così com’è non funziona, che quindi deve cambiare e che se non cambia sarà un disastro, tuttavia finora non sono stati capaci neppure loro di pensare una mezza idea, una proposta qualsiasi, per dirci in che modo essa dovrebbe (e potrebbe: l’aggiunta non è irrilevante) cambiare. Tace Forza Italia, che però ha l’attenuante di essere ormai in via di dissoluzione, ma tace egualmente il Partito democratico.
Tace anche nel suo «manifesto» (così definito da Repubblica di domenica 21 ottobre dove esso si stende per ben due pagine) Nicola Zingaretti, il più accreditato candidato alla prossima segreteria del Pd. Sulla questione cruciale dell’agonia dell’Unione Europea neppure una parola: solo un brevissimo invito a «difendere» l’Unione che lascia il tempo che trova. Pure da questo punto di vista, insomma, quel manifesto è esemplare della mancanza di idee, dell’incapacità di cogliere la drammaticità ultimativa dei tempi, in cui si dibattono le tradizionali élite politiche del continente, specie quelle di sinistra. Della loro difficoltà a capire l’usura spaventosa delle parole e delle formule a cui sono state fin qui avvezze. A capire l’esigenza se si vuole anche brutale, di concretezza che oggi domina la comunicazione politica.
Cosicché per chi come il sottoscritto ricorda gli interminabili programmi che ad ogni vigilia elettorale sfornava all’epoca della prima Repubblica il Partito comunista (ma anche quello socialista o la Dc non erano da meno), il testo zingarettiano, infatti, ha, diciamo così, un rassicurante sapore di antico. Si comincia con l’intramontabile «costruiamo un nuovo modello di società» (e naturalmente anche «di sviluppo») e con l’esigenza di dar vita a «un’economia più giusta», per poi snocciolare l’abituale lunghissimo elenco di buone intenzioni. Riassumendo: stabilire «la mobilità sociale» e «l’equità», «ricostruire il tessuto produttivo», «adottare globalmente misure per la sostenibilità ambientale», «aiutare tutte le persone in condizione di povertà assoluta», «dare gratis i libri di testo agli studenti», conferire «una dote per i giovani attivabile al compimento dei 18 anni per finanziare un progetto formativo o imprenditoriale», «rendere flessibile l’età di pensionamento», «alleggerire il carico fiscale» e qualche altra cosa ancora che tralascio. Solo l’impegno a costruire in ogni centro abitato fontane che invece dell’acqua diano vino è rimandato alla prossima volta.
Ma dove trovare, ci si chiede, le risorse per un simile gigantesco programma? Niente paura: «le risorse ci sono», assicura Zingaretti, «abbiamo miliardi di euro già programmati per le infrastrutture dai precedenti governi di centrosinistra»; basta «fare un grande sforzo di semplificazione e accelerazione delle procedure». Ed è tutto.
Ho parlato a lungo del «manifesto» di Zingaretti perché è esso che dà l’esatta misura della gravità della crisi politica in cui si trova il nostro Paese. La rappresentazione più evidente di tale crisi è per l’appunto la disputa citata all’inizio che da settimane ci sta opponendo all’Ue. Ma il cuore vero della nostra crisi sta solo per una metà negli obiettivi irrealistici, nei propositi scervellati e nel fare da gradassi del governo e dei suoi partiti. Per l’altra metà sta nell’ irrealtà programmatica, nell’inconsapevolezza assoluta dei tempi, delle esigenze e dei modi loro propri, che regnano nel campo dell’opposizione.
Comune a entrambi è l’abitudine degli attori della politica nostrana di essere tanto divisivi nelle parole quanto poco divisivi nei fatti. Cioè nel volersi distinguere ferocemente dagli avversari, trattandoli regolarmente da farabutti o da mentecatti, ma poi una volta che si ottiene il potere o ci si vuole andare cercare di non scontentare mai nessuno. E quindi, ad esempio, se si è al governo come oggi sono i 5Stelle e la Lega, guardarsi bene dal prendere la minima iniziativa capace di incidere sulle grandi questioni dove si rischia di dar fastidio a molti che contano — ad esempio l’evasione fiscale, l’assetto della giustizia, le regole della Pubblica Amministrazione — preferendo invece distribuire soldi a più gente possibile; se invece si è all’opposizione, come Zingaretti, promettere a tutti il Paese di Bengodi.
Il corrire della sera, 27 ottobre 2018