L’EQUIVOCO DEI COMPETENTI, di Luigi Curini e Beatrice Magni
Vengono contrapposti casta e comuni cittadini ma è altrettanto rischiosa l’antitesi tra chi sa e chi non sa. Gli esperti e gli scienziati, i «tecnici», sono fondamentali come ispiratori ma non dovrebbero avere ambizioni di governo.
L ‘ accusa agli elettori di essere incompetenti e di conseguenza di fare scelte spesso sbagliate e affrettate ha una lunga tradizione in letteratura, e ha ricevuto in questi ultimi anni, anche alla luce di alcuni risultati elettorali che hanno visto il trionfo di candidati o partiti tutto fuorché mainstream, una rinnovata attenzione, tanto da spingere più di un osservatore a riprendere la vecchia idea (sostenuta anche da un padre nobile del pensiero liberale come John Stuart Mill) di differenziare il peso del voto sulla base dell’educazione, e quindi di «quello che uno sa». Ma anche il tema della competenza (o incompetenza) della classe politica ha una sua storia altrettanto di lunga data. Basti pensare al mito della città platonica, dove sono i «filosofi» (ovvero gli esperti, i competenti, i «tecnici») gli unici autorizzati a prendere decisioni politiche, perché la polis democratica, se lasciata alle sue scelte, non può che ridursi come il prigioniero dell’allegoria della caverna studiata sui banchi di scuola: condannato a non vedere mai la luce, e anzi a rifiutarla sdegnosamente, financo ad arrivare ad uccidere se qualcuno prova a farglielo notare. In realtà il rapporto tra competenza e politica, e ancor di più tra competenza e democrazia, non è niente affatto banale.
Ci sono infatti almeno due tipi di competenze che emergono quando parliamo di politica (e di politici). La prima è la competenza propriamente politica e deliberativa, che si acquista e conquista sul campo faticoso della rappresentanza; la seconda è la cosiddetta competenza tecnica, quella che ha la sua origine ben al di fuori dall’arena politica, e che trova la sua concretizzazione in un titolo di studio, in scienze sociali, naturali o ingegneristiche poco importa, preferibilmente corredato da una importante produzione scientifica. Queste due competenze rinviano a loro volta a due tipi di conoscenza differente: la conoscenza tipica della competenza politica fa perno sulla capacità di aggregare e rappresentare, di volta in volta, una pluralità di interessi e di bisogni, all’interno di un contesto la cui essenza consiste nella competizione tra valori incompatibili, un gioco complesso che, nel migliore scenario possibile, riesce a ricondurre individui che hanno all’inizio scopi e valori contrastanti ad accordi, benché parziali, e sempre rivedibili. La conoscenza tecnica alla base del sapere scientifico è invece volta a una ricerca immune da alcun pregiudizio, e produce asserzioni sulla realtà che devono poter essere accettate da ciascuno, piacciano o meno. In questo senso, l’inseguita e tanto ambita verità scientifica (che rimane pur sempre provvisoria) contiene sempre un elemento di coercizione: essa è al di là dell’accordo, della discussione, dell’opinione o del consenso. Se allora la competenza politica è essenziale per un buon funzionamento di una democrazia, essendo auspicabilmente connaturata alla stessa, la competenza scientifica, per quanto necessaria, deve sempre e comunque essere giustificata.
Come ben ci ricorda Charles Lindblom, una società «guidata dall’intelletto», in cui a prevalere non è il rappresentante eletto, ma l’esperto-scienziato, vero legittimo detentore del potere chiamato a plasmare il destino della collettività dandole forma, in cui la conoscenza scientifica diventa la guida privilegiata delle decisioni pubbliche, è in contraddizione con un sistema politico sì imperfetto, ma che non ammette guardiani, seppur competenti, e che mette tutti sullo stesso piano dei cittadini comuni. Il sapere, metteva in guardia Foucault, può diventare un potente mezzo per sorvegliare persone, e controllarle. Insomma, una politica ricca di competenza scientifica produce (o dovrebbe produrre) una politica (tecnicamente) più efficiente, ma non necessariamente più democratica. E come sottolineato recentemente da Cas Mudde, uno dei più importanti esperti di populismo, è fondamentalmente questo il rischio per la democrazia di una certa retorica antipopulista che, in modo altrettanto manicheo, omogeneizzante e moralista di coloro che avversa, forza anch’essa la realtà in due campi ben distinti: non casta versus comune cittadino, come fanno i populisti, ma chi sa (il buono) versus chi non sa (il cattivo). In cui la parola del primo porta con sé inevitabilmente tracce indelebili di potere e dominio a possibile detrimento della libertà del secondo.
Tutto questo forse implica che la democrazia dovrebbe essere condannata all’ignoranza, all’idioocracy usando un termine che va ultimamente di moda, dove non c’è alcuno spazio per la competenza «scientifica» e quindi per gli esperti? Niente affatto. Se il problema fondamentale delle istituzioni politiche è quello della combinazione di un completo controllo popolare sugli affari pubblici con la massima perfezione raggiungibile da un organo competente, gli esperti e gli scienziati continuano e continueranno necessariamente a rivestire un ruolo cruciale come educatori, capaci di offrire un contributo informato in grado di influenzare il clima culturale, diffondendo idee che forniscono gli orientamenti generali dai quali trarranno ispirazione le successive decisioni pubbliche, e impedendo che il timore del potere di una mediocrità collettiva (magari imperniata sulla Rete) diventi realtà. Un ruolo importante ma indiretto, quindi, ben lontano dall’idea di «partito dei competenti» come qualcuno vorrebbe sostenere, in cui la scienza si predispone a muoversi nello spazio politico con ambizioni di governo. È d’altra parte bene ricordare che l’autorità dell’esperto ha la massima probabilità di essere accettata come tale solo laddove non viene percepita come politicamente militante, e quindi partigiana, da parte degli altri interlocutori. Perché il rapporto difficile tra competenza e politica nasce non solo quando i politici vogliono fare scienza, ma anche quando accade l’inverso. Se infatti è vero che la politica non è una scienza esatta, è altrettanto vero che la scienza non è adatta ad assumere un ruolo politico, perché si basa sull’evidenza empirica e non sul consenso popolare.
Da LA LETTURA de Il corriere della sera, 18 settembre 2018