Il 20 Settembre di una volta e quello di oggi. Nel 1908 a Tempio si celebrava (con Sebastiano Satta) il “libero pensiero” e novant’anni fa Giordano Bruno rientrava all’Università di Cagliari, di Gianfranco Murtas

 

Più della storia delle idee poté la toponomastica. Ma la toponomastica senza rimandi, e invece passiva, sorda e cieca, la toponomastica ripetitiva e perfino banale che, senza spiegazioni, senza cognizione di se stessa, si consuma in una lapide all’inizio delle strade. La sorte del 20 Settembre mi sembra purtroppo questa.

Perché quando polemizzo con gli indipendentisti d’oggi io affaccio un’idea soltanto: a differenza di un movimento d’opinione, la politica è, nel mio sentire, il giudizio e l’impegno nella realtà sociale tutta intera, oltre i generi identitari datati o ingessati nell’artificio, ed oltre i velleitarismi di negoziati non riconosciuti dalla comunità internazionale (valga il caso della Catalogna che, per essere repubblicana a fronte della Spagna monarchica, pur dovrebbe essermi più che cara). Aggiungo: la politica deve essere giudizio ed impegno ispirati e sostenuti dai valori universali che, a dirla con Mazzini e Garibaldi, fanno di ogni terra la nostra patria. Così le grandi opzioni della libertà e della giustizia, della democrazia e della inclusione, della laicità dell’ordinamento e della contribuzione a progetti federali più ampi sono componenti tutte integrate di un progetto politico che respiri la pace e il progresso.

L’Italia del Risorgimento e la Sardegna con e nell’Italia del Risorgimento – la Sardegna di Asproni e di Tuveri o di Soro Pirino s’intende, ma direi anche la Sardegna del canonico Muzzetto, vicario capitolare a Tempio nei lunghi e tormentati anni ’60 dell’Ottocento – hanno arricchito non soltanto se stesse ma il mondo intero, affermando appunto uno dei valori universali più preziosi: la libertà di pensiero e coscienza, la libertà di culto, la distinzione fra Stato e Chiesa, la laicità repubblicana (o chiamala pubblica, giacché allora comandava la dinastia) grazie alla lotta faticosa ma infine vincente per la caduta del temporalismo pontificio dopo millecinquecento anni, da Costantino e dalla sua presunta donazione insomma.

Avemmo anche noi, fra i bersaglieri di Cadorna, nel santo 20 Settembre, un caduto: il tempiese Andrea Leoni, giovane come giovane suo coetaneo era stato, nel 1833, quell’Efisio Tola sassarese fucilato dall’esercito savoiardo (lo stesso che avrebbe sfondato Porta Pia!) perché aderente alla Giovane Italia. Io direi: caduti e l’uno e l’altro, al di là degli stretti valori di coscienza, per una causa universale.

Udimmo infatti un grande papa come Paolo VI riconoscere, nel centenario della storica breccia, che soltanto Roma avrebbe potuto rivendicare il titolo di capitale d’Italia, certo – direi – di un’Italia costituzionale e politica nata con forzature militari e diplomatiche, sgradevoli piemontesismi ecc., ma nel segno della storia: per unire le comunità municipali, provinciali e regionali che all’idea di Italia comunque si riferivano, da Dante e Petrarca fino a Leopardi e Manzoni. Paolo VI parlò e scrisse certamente superando e contraddicendo quanto i pontefici romani (vicari del Cristo) suoi predecessori, fino a Pio IX e a quel 1870, avevano sostenuto portando addirittura al patibolo, nel corso del tempo (negli ultimi 74 anni), ben 527 condannati (è risultanza statistica precisata di recente dalla stampa cattolica che include gli oppositori politici oltre che i malavitosi e menziona il maggior boia: mastro Titta alias Giovanni Battista Bugatti).

Potrebbe dirsi, piuttosto giustamente invero, che in tempi come gli attuali, in cui la Chiesa, dopo aver attraversato, in Italia e nel mondo, i travagli e gli avanzamenti del Concilio Vaticano II e del cinquantennio che gli è seguito, vive altre urgenze tutte sociali (e valoriali) che la chiamano a rinnovata ma anche inedita testimonianza, ed in cui lo Stato, o la politica dello Stato, e la società civile avvertono in sé realtà deideologizzate, poco o nessuno spazio sembra poter accampare la riflessione che fu invece una costante nelle lunghe stagioni in cui prendevano corpo gli stati nazionali d’Europa, ora con aggiustamenti territoriali ora con rivoluzioni istituzionali.

Il 20 Settembre come conquista di civiltà dal valore universale, non soltanto nazionale o italiano, si impose come icona di un certo diffuso sentimento, contrastato da molti – così nelle coscienze fino almeno agli sconquassi della grande guerra – come nell’ordinamento fino alla Conciliazione lateranense del 1929, in regime già di dittatura cioè, dopo l’assassinio di don Minzoni e Amendola e Gobetti, dopo il carcere di Gramsci e la riduzione al silenzio di giornali e logge, partiti e sindacati, l’imbrigliamento della sorte di vita dunque di migliaia e migliaia di democratici d’ogni sentimento e tendenza ideale.

Attori di un’altra storia, noi uomini del secondo Novecento e di questi primi decenni del Duemila, non potremmo però confinare nel museo esclusivo degli studi storici né l’icona né il ribollimento sottostante di vicende che hanno attraversato la cultura, la religione, lo spirito pubblico, quell’impasto sentimentale e valoriale dal quale tutti siamo derivati nel piccolo territorio della nostra nascita ma anche nelle grandi coordinate che anche il piccolo territorio hanno condizionato (si pensi al senso delle autorità costituite, si pensi al rapporto di dipendenza o sequela dal clero parrocchiale). Si tratterà di aggiornare, o meglio, di trovare dei nessi e delle sintesi nuove fra il passato e la nostra pressante attualità. Come potrebbero relazionare oggi la religione e il libero pensiero davanti alle conquiste della scienza, dalla genetica all’astronomia, o ai dilemmi sociali e perfino esistenziali che si pongono nel mondo del dolore, del quale tutti siamo cittadini, per malattie o gravi impedimenti, metti circa il fine vita, il testamento biologico o altro, o ancora davanti alle nuove formule di famiglia che vanno affermandosi nel mondo più avanzato?

Nella visione crociana della storia come, sempre, storia contemporanea, vicende e categorie del passato costituiscono sempre fondazioni e tetti, partenze e conclusioni che altro non sono che perenni ripartenze…

Il 1907 era stato celebrato per la morte di Carducci e per il centenario della nascita di Giuseppe Garibaldi. Al primo piano di palazzo Fulgher, un edificio settecentesco di proprietà della Congregazione del SS. Sacramento nella Marina facente capo alla parrocchiale di Sant’Eulalia, a Cagliari, era stato esposto il labaro della loggia Sigismondo Arquer, un nome che richiamava una delle innumerevoli vittime dell’Inquisizione, non importa se spagnola (come questa del 1571) o romana (come quella del 1600, avversaria di Giordano Bruno).

A Cagliari, nel tempo di elezioni amministrative dopo i tanti sconquassi dell’anno precedente – l’anno dei moti contro il carovita e contro il sindaco Bacaredda – i liberali avevano pacificato gli animi della loro galassia, e i coccortiani e i bacareddiani avevano fatto pace e alleanza, dopo vent’anni di contrasti, per timore della sinistra “popolare” vissuta come avversaria comune. Era sembrato, almeno per qualche settimana – non più di qualche settimana – che massoni borghesi e clericali borghesi (e aristocratici) avessero concluso un accordo in chiave antisocialista, tacitando o assorbendo le distanze ideologiche per premiare le prossimità di classe: i giornali scrissero dell’intesa fra i “due Enrico”, Enrico Sanjust di Teulada ed Enrico Pernis.

Poi la contesa sarebbe ripresa e la sindacatura Bacaredda del 1911, dopo il fallimento della giunta Nobilioni tutta sbilanciata (nonostante il sindaco, galantuomo cattolico liberale) a favore degli interessi clericali, avrebbe riportato in alto il sentimento liberale e laico della città. Una storia municipale interessantissima che meriterebbe d’essere raccontata nel dettaglio anche di colore, ma di cui – in breve – potrebbe almeno ricordarsi lo sforzo compiuto dal primo cittadino nell’orientare il liberalismo civico ai nuovi paradigmi della democrazia. Tutto il suo discorso in Consiglio comunale, nel novembre di quell’anno, fu impostato su questa correzione di rotta: dal liberalismo al liberalismo cosiddetto “organizzatore”, alla democrazia: la parola nuova – democrazia – che entrava nel vocabolario della politica cittadina, e vi entrava portata da uomini di ferma convinzione laica. A Cagliari, fra il 1910 e il 1911 s’era pure costituita, fondata ed animata dai liberali massoni o no, un’associazione che intendeva essere un partito civico ed aveva voluto assumere, per qualificarsi nella denominazione ufficiale, l’aggettivo di “democratica”. L’epoca della sudditanza cedeva il passo gradualmente a quella della cittadinanza, lo Stato riconosceva i diritti e, sia pure non senza contraddizioni, si riconvertiva, sotto Giolitti, in Stato sociale dei diritti.

Insomma, in termini più evoluti e meditati, l’opzione “separatista” in tema di rapporti Stato-Chiesa veniva rilanciata, con significativo temperamento delle asprezze d’un tempo, il Patto Gentiloni affiancava guelfi e ghibellini compresi quelli made in Sardinia, e ad Iglesias il vescovo invitava a votare per il già Venerabile massone Giuseppe Sanna Randaccio; sarebbero stati più marcatamente i cattolici politici a convertirsi alle irrinunciabili istanze liberali piuttosto che i liberali o i liberaldemocratici a piegarsi alle pretese antimoderne (e antimoderniste) del guelfismo. Sicché nel 1913 poterono affacciarsi nelle piazze cagliaritane prima il busto di Dante Alighieri, a custodia del ginnasio-liceo Dettori, poi quello di Giordano Bruno, di fronte alla porta dei Leoni di Castello. Così com’era capitato in precedenza, allo square delle Reali, con l’erma di Giovanni Bovio o ai palazzi Picchi, nel viale San Pietro (poi viale Trieste), con i quattro grandi del Risorgimento e gli altri, Dante incluso, nella strada di Is Osterieddas (poi Caprera). Come ad inneggiare il primo cinquantenario dell’unità della patria, quell’afflato costituzionale che aveva fatto della Sardegna insieme madre e figlia dell’Italia unita e moderna. Un sentimento mai negato o rinnegato anche dai papalini nostrani che, seppure il 20 Settembre chiudevano le imposte e mangiavano di magro per penitenza e solidarietà all’ “Augusto Gerarca” di Roma, ammiravano in San Francesco anche il poeta padre della lingua volgare, e godevano di quei francescani, che, vivo ancora il Serafico, avevano attraversato il Tirreno e portato qui la sua predicazione. Anch’essi allacciando ponti e condividendo i valori universali della umanità cristiana.

Nel primo Novecento era la pedagogia della statuaria che s’imponeva, non soltanto a Cagliari, e la toponomastica parlava da sola perché rispondeva al sentimento cittadino (o, bisognerebbe dire, della rappresentanza municipale e di certo elettorato). La stessa piazza del Carmine s’intitolava al XXVII Marzo, evocando la delibera del 1861 di Palazzo Carignano perché Roma fosse un giorno (e da allora almeno moralmente) capitale dell’Italia unita.  Prima della Convenzione di settembre (1864), prima degli scontri di Mentana (1867, data puntualmente celebrata a Cagliari in pellegrinaggio al camposanto di Bonaria).

Il 20 Settembre aveva preceduto l’ondata dei ribattezzamenti, ed era stato uno dei primi interventi riformatori della giunta Bacaredda, confermato dal Consiglio, quasi all’indomani della sua affermazione politica: la delibera porta la data del 16 novembre 1891, e “Via XX Settembre” parve suonare meglio che “Via Campo di Marte”.

Dopo il 1907 ecco il fatidico 1908, centodieci anni fa. In Sardegna, a Tempio Pausania per la precisione, si celebrò il primo (e unico) congresso del “libero pensiero”, mentre in diverse città dell’Isola circoli intitolati al libero pensiero e magari a Giordano Bruno si costituirono e avviarono le proprie attività di catechesi ideologica; a quello di Cagliari che aveva sede nella via Barcellona (vicina al Dettori e vicina alla loggia massonica) era iscritto anche Gramsci, che vi frequentava la biblioteca e la modesta ma aggiornata emeroteca.

La data del 20 Settembre era puntualmente onorata con manifestazioni pubbliche, con bandiere e discorsi, certamente anche retorici, forse patriottardi più che patriottici, non nazionalisti però, almeno fino a che, nel 1914 o nel 1915, alla vigilia della grande guerra cioè, qualcuno introdusse, tanto più nei due capoluoghi provinciali, un sentire non liberale ma reazionario, perfino imperialista.

Il fascismo per un po’, fino alla Conciliazione del febbraio 1929, celebrò anch’esso il 20 Settembre: fattosi dittatura che di fatto rinnegava il risorgimento e l’istanza separatista fra Stato e Chiesa, opzionò altre date, mise in campo altre liturgie tutte marziali (di lato a quelle dinastiche), non ideali. Ed a Cagliari, appunto preparandosi alla grande Conciliazione firmata dal Cardinale e dal Cavaliere, si sforzò di riabilitare, con misure mediane, il frate abbrustolito vivo dall’Inquisizione romana.

Perché nell’autunno 1926, press’a poco nei giorni in cui fu incendiata la redazione del Corriere di Sardegna, il giornale quotidiano del Partito Popolare (anch’esso in estinzione), venne rimosso il busto di Giordano Bruno dalla piazzetta Mazzini. Infilato in un sacco cieco per volontà del commissario prefettizio Vittorio Tredici, vi rimase per un anno e mezzo. Nel gennaio 1928 fu liberato, il frate, e collocato in un nicchione dell’atrio universitario, fra qualche protesta dei guelfi che proprio allora avevano dato alle stampe un loro nuovo settimanale, La Sardegna Cattolica. L’Unione Sarda aveva difeso la scelta municipale (era podestà plenipotenziario ancora per qualche mese Vittorio Tredici, ad agosto gli sarebbe subentrato Enrico Endrich), forse ispirata dallo stesso Giovanni Gentile, biografo-interprete di frate Giordano, ed i guelfi presto si rassegnarono quietandosi. Sicché frate Giordano rimase all’università fino al 1946, fino cioè al trasferimento della facoltà di Lettere in via Corte d’Appello, dove stette fino al 1960, quando affrontò un nuovo viaggio alla volta di sa Duchessa.

Questi in breve i fatti.

Tempo fa mi applicai con gusto speciale a una ricerca sulla materia: intendevo fare omaggio delle sue risultanze a un amico prete, a don Mario Cugusi, allora parroco di Sant’Eulalia e professore di filosofia alle scuole pubbliche superiori. Prete colto e illuminato, progettuale, sensibile ai tempi della storia e tanto spesso anticipatore ed anticonvenzionale, ruvido anche, ma autentico sempre.

Gli amici radicali parvero interessati ad ottenere dal Comune il ripristino del busto bruniano – collocato (come già detto) nella piazzetta Mazzini nell’autunno del 1913 da un comitato cui partecipavano associazioni e partiti, compresi i radicali con i repubblicani e i socialisti, e compresa la loggia massonica – nel sito originario; pare che così avesse promesso il sindaco Floris… Oggi so che sarebbe intenzione della giunta Zedda disporre la duplicazione della statua con le tecnologie 3D, restituendo allo spazio rotondo che collega la Marina con Castello il suo monumento, ma lasciando l’originale in facoltà di Lettere (o discipline umanistiche). Chissà, sarebbe bello…

Ecco di seguito qualche rapido flash su quelle due distinte stagioni – il 1907-1908 e il 1928 – in cui, anche in Sardegna ed a Cagliari, la politica si innervò di dottrinarismi. Che, seppure superati, mantengono oggi, oltreché il senso della testimonianza storica, un portato valoriale di per sé universale.

 

Cattolici 1907, a Cagliari

A Pauli Pirri, il 13 ed il 24 maggio, i cattolici dell’intera diocesi sono convocati dall’arcivescovo fra Pietro Balestra e dalla dirigenza del laicato militante poer commemorare il 16° anniversario della promulgazione della Rerum Novarum, l’enciclica sociale di Leone XIII, il pontefice-ponte fra Pio IX e Pio X felicemente regnante.

Il meeting campidanese costituisce anche il terreno proficuo per riunire le forze da spendere «contro la stampa irreligiosa e immorale, offensiva dei sentimenti religiosi e morali d’Italia», ed a favore dell’istruzione catechistica dei fanciulli, nel suo nesso (ritenuto inscindibile) con la educazione civile. Così contrastando le «basse mire di minoranze che – è detto in uno dei documenti approvati alla fine dell’assemblea – tentano arrecare grave offesa al sentimento religioso della Nazione».

Questo della scuola è il nerbo più scoperto del rapporto fra cattolici e laici nell’Italia del primo Novecento. Ciascuna delle due aree ideali (e politiche) – quella scettica e quella credente – tende ad organizzare strutture anche sindacali, pur in senso lato, fra insegnanti: luoghi di confronto fra gli operatori scolastici che sappiano rispondere al duplice bisogno di tutela dei contenuti formativi dei programmi e di difesa dell’interesse materiale dei maestri.

E’ in tale contesto che, a fine estate 1907, prende corpo anche nell’Isola la “Niccolò Tommaseo”, associazione dei maestri di radice cattolica, alternativa all’Unione Magistrale Nazionale dalla quale gli insegnanti che hanno dichiarato la loro fede sono stati espulsi (come frutto – si dice, e scrive Il Corriere dell’Isola – del «settarismo massonico» che si sarebbe infiltrato nelle sue fila).

Ma l’esigenza di unità e di organizzazione che si avverte, in campo cattolico, non investe soltanto la scuola. Davanti alla iniziativa degli avversari, urge concordia e fantasia, capacità attuativa di progetti nuovi. «In questi giorni più che mai – scriverà Il Corriere il 19 agosto –, fra l’irrompere sfrenato della teppa anticlericale, da tutte le parti d’Italia si è sentito il bisogno dei cattolici d’elevare un grido di sdegno e di affermare in tutti i modi la necessità di organizzarsi. Che importa infatti che noi possiamo essere sia pure numerosissimi, se siamo dispersi, se manca in noi quella precisa coscienza del dovere di svolgere un’azione concorde e disciplinata? Eppure sarebbe tanto più utile organizzarsi e bene in quest’ora, mentre i nostri nemici sono ancora alle porte, piuttosto che attendere che essi comincino a potere esercitare una qualsiasi azione deleteria nell’interesse generale…».

Quel che si sa fare, e si sta facendo nelle regioni del nord Italia, con un associazionismo specializzato e diffuso, perché mai non dovrebbe poter allignare anche in Sardegna, anche a Cagliari? Associazionismo e coscienza politica: «… mentre il nostro popolo si fa quasi dovere di non lasciare che le feste religiose si svolgano senza tutta una gran pompa di festeggiamenti esteriori, quando lo spirito di fede che lo anima dovrebbe esplicarsi in forme concrete e durature, questo popolo che il più delle volte si è fatto un idolo di qualche immeritevole persona, manda a sedere nei consigli comunali qualche massone e peggio…».

Per il centenario garibaldino

I cattolici hanno ragione. L’effervescenza che è dato registrare nella galassia anticlericale, anche sarda, nel secondo lustro del secolo nuovo infastidisce e preoccupa, allarma addirittura, clero e responsabili del laicato. Esuberanti e perfino supponenti, gli “anti” che circolano nel capoluogo e nei centri attorno appaiono ai disciplinati, quasi marziali esponenti della Chiesa, portatori non soltanto dell’errore ma anche di una minaccia di pervadenza nelle istituzioni dopo che nelle piazze.

L’Associazione – ormai intitolata a Roberto Ardigò – si è ribattezzata, al pari di altre analoghe del continente, “antireligiosa” e vive la straordinaria temperie giacobina che in tutt’Italia ha il suo motore nella “Giordano Bruno” romana che sempre più riesce a coinvolgere nelle proprie manifestazioni gruppi politici e Camere del Lavoro. (Proprio nel 1907 essa lancia, con grande successo, un suo Comitato nazionale di agitazione cui fanno capo nuove sezioni diffuse sul territorio e nuove battaglie. Fra esse quelle contro le congregazioni religiose d’origine ed impianto francesi, costrette alla smobilitazione delle leggi separatiste della laicissima repubblica d’oltr’Alpe… ).

Dopo il laico pontificale del 2 giugno, altra riunione – per l”Ardigò” – il 7, per la relazione del Comitato costituito in vista delle onoranze a Giuseppe Garibaldi nel primo centenario della nascita (il 4 luglio), nonché per alcune verifiche contabili, l’elezione di qualche dirigente, il dettaglio del ciclo di conferenze e comizi. Ulteriori riunioni seguono il 14 e il 16 (in tre tempi: mattina e pomeriggio seggio elettorale, di sera conferenza di Edoardo Pintor, insegnante e socialista, prossimo artiere della loggia “Karales”, sul tema “La religione della morte”). Replay elettorale il 24 dello stesso mese e poi il 7 luglio.

Oltre alla sede repubblicana della Marina (in via Sant’Eulalia), comincia ad essere utilizzata per la bisogna associativa anche quella – nei medesimo quartiere (via Darsena, o Porcile che dir si voglia, n. 38) – della Federazione dei “lavoratori del libro”. Ancora per tutto luglio – prima delle vacanze (e dei traslochi alle spiagge di Giorgino) – ogni settimana il direttivo tiene la sua brava riunione di verifica e programmazione.

«La dimostrazione organizzativa dei partiti popolari per onorare la memoria del Grande che, da Caprera, veglia sui destini della Patria, è riuscita solenne, commovente – recita la cronaca dell’Unione Sarda, riferendosi al 2 giugno.

«Tutti, forse, sentivano aleggiare lo spirito del Leone nizzardo, qui, nel cielo sereno di Cagliari, nell’orizzonte di zeffiro dell’isola, e perciò calmi, ordinati, preceduti dalla banda cittadina che, diretta dal maestro Vincenti, suonò l’inno dell’Eroe, hanno dato il loro tributo d’affetto riverente alla memoria di Giuseppe Garibaldi. Il corteo, poco numeroso in vero, partì dal palazzo della Dogana, proseguendo per via Roma, via Sassari, corso Vittorio Emanuele, via Municipio, piazza Municipio.

«Ivi, dopo deposta sulla lapide commemorativa, che sta nel nostro Campidoglio, una corona, l’avv. Satta-Semidei arringò le poche centinaia di dimostranti. E dopo, senza alcun incidente – solo qualcuno cantava l’inno dei lavoratori –, furono riportate le bandiere socialista, repubblicana e dei vermicellai alle rispettive sedi».

Ma dopo il 2 giugno quest’anno deve celebrarsi anche la data centenaria. E le strade stavolta si biforcano, fra moderati e progressisti: da una parte c’è un comitato apolitico, ma di fatto liberai-monarchico (presieduto dal sindaco Bacaredda e pieno di notabili delle professioni, dei commerci e della cultura, fra cui anche il prof. Padoa, matematico e massone); dall’altra un altro comitato che è diretta emanazione dei partiti della Sinistra e delle leghe operaie.

Il clima politico a Cagliari è assai incerto. S’è appena concluso il processo per i fatti del maggio 1906, con molte assoluzioni o irrogazione di pene assai miti (e quasi tutte già interamente scontate), ma per l’autunno si attende l’appello che minaccia d’esser assai meno benigno. Il risultato elettorale dell’Estrema, sia nell’immediato post… ’89 che a marzo di quest’anno, non è stato quello sperato e previsto. No, in questa situazione, che almeno lui, il “Leone nizzardo”, non sia espropriato alla sua area ideologica, che è certamente nel mezzo di repubblicani e socialisti, nonostante gli “Obbedisco!” ed i Teano… Le manifestazioni garibaldine saranno, dunque, separate. Ma la città dimostra una grande civiltà di rapporti fra persone e gruppi. Come sarebbe piaciuto a lui, al “Leone nizzardo”.

La Sinistra – comprendendo nel suo seno anche l’Associazione “Roberto Ardigò” – ha diffuso un manifesto per marcare il tono indefettibilmente anticlericale da attribuire alla dimostrazione: «Italiani! Se volete salva l’Italia, occhio al Vaticano… Mentre l’eco di queste parole, che sprigionano dal petto gagliardo dell’Eroe, si perde lentamente nell’albore crepuscolare di Roma, gli ominoni del nostro Governo, con a capo il Machiavelli di Dronero, volteggiano destramente fra le parallele della Chiesa e dello Stato, ordinano ai soldati d’Italia d’abbassare le armi dinanzi ai porporati di San Piero… Per fortuna però il Governo non è il popolo. Il popolo ha il culto dei suoi martiri che gli hanno dato una patria… Esso sa che nessun diritto gli si concede, che ogni diritto si conquista per virtù propria…».

Fra le solite luminarie ed il solito sfoggio del tricolore nei palazzi pubblici – cominciando da quelli militari (Legione carabinieri, Deposito allievi, Caserma “Carlo Alberto”, Comando regionale) e scolastici (in primis, naturalmente, il Convitto Nazionale di via Manno) –, fra le solite marce eseguite dalle bande musicali militari e civili (quest’anno c’è anche la novità della “Fiera di Lipsia”), fra le solite processioni alla volta ora dei Monumentale (per l’orazione ufficiale di Efisio Orano), fra le solite affissioni del Grande Oriente, dei socialisti e quelle – contro – dei guelfi…, non manca, non può mancare certamente l’ordine del giorno approvato e diffuso dall’Associazione inneggiante al “libero pensiero”.

Le assemblee dell’autunno – sempre nei locali della Sezione repubblicana – non sono numerose, né la partecipazione è granché significativa: 21 e 25 novembre («per trattare questioni importantissime»), 17 dicembre. Una pausa, soltanto una pausa. L’anno che già albeggia sarà pirotecnico…

In città, intanto, Ottone Bacaredda ha rassegnato le sue dimissioni. Starà volontariamente fuori dal giro almeno tre anni. Cagliari è presa da una serie impressionante di urgenze sociali. Di positivo, nell’anno ormai trascorso, c’è stata la costituzione, finalmente, della Camera dei Lavoro, con 1.791 operai iscritti alle varie leghe federate: vermicellai, ferrovieri, commessi, tipografi, cuochi e camerieri, sigaraie, panettieri. Presto s’aggiungeranno, nella sede provvisoria di via Lepanto 14, anche i falegnami.

A riepilogare le doglianze cittadine è, a dicembre, il Bollettino del Comitato per le case popolari, in cui sono preponderanti la presenza dei radicali e la passione di Ciro Guidi. Esso ricorda le mille battaglie combattute contro un’amministrazione che non è sembrata all’altezza dei problemi, né sensibile al bisogno dei ceti più deboli. Tanto da rispondere ai solleciti «gettando l’insulto di un’elemosina ai sedicimila e quarantatré cagliaritani che abitano 1.169 sotterranei, privi di pavimenti e di intonaco, di acquaio; che abitano 600 case con cesso comune a più famiglie, e altre 2.658 nelle quali i rifiuti si immettono direttamente nelle fogne, per aperture apertevi accanto al letto ed alla mensa! Sono 945 ambienti completamente oscuri; altri 238 che prendono luce dalla sola porta, e per 851 ambienti vi ha un solo letto per ogni cinque e più abitanti. Intanto i fitti mensili salgono a 10 e 15 lire e giungono talora fino a 20 lire per ambiente…».

1908, finalmente un congresso tutto sardo

Nell’anno nuovo la prima adunanza dei soci della “Roberto Ardigò” è convocata, martedì 7 gennaio, per discutere una decisione del Consiglio direttivo che ha destinato a favore di «una rivista letteraria di prossima pubblicazione» il pur non cospicuo fondo giacente in cassa.

Appena una settimana dopo – mercoledì 15 – un evento che, ancorché non sia il primo, si segnala fra i rari in città: il funerale laico d’una donna, d’una militante del movimento razionalista ed ateo. E attorno al feretro di Giannetta Mela Toro – giovane di appena 27 anni, sposa di Mario Mela, funzionario della Prefettura, e sorella del possidente Luigi Toro sindaco di Gonnesa (entrambi artieri della “Sigismondo Arquer”: il primo da poco più di sei mesi, il secondo già da tre anni) – si stringe tutta la Fraternità “irreligiosa” di Cagliari. Lei stessa, malata da lungo tempo, aveva chiesto – prevedendo la fine incombente – esequie «in forma puramente civile». Così, insieme con un folto stuolo di amiche (alcune delle quali reggono i cordoni della bara), con le consuete rappresentanze degli istituti di educazione ed assistenza, con i colleghi d’ufficio dello sconfortato vedovo, ecco anche, «al completo», gli aderenti all’Associazione “Roberto Ardigò” e numerosi militanti delle formazioni dell’Estrema politica: radicali, repubblicani, socialisti. Al Monumentale il discorso di circostanza è affidato all’avv. Angelo Vossu, della Sezione radicale.

28 gennaio. Per gli auguri a Roberto Ardigò, già prete ed ora «sommo materialista» che compie ottant’anni, e per una riflessione sull’opera del precursore della pedagogia positivista, riunione dei libero-pensatori nella solita sede di via Sant’Eulalia.

16 febbraio. Incredibile: fallisce il comizio bruniano, convocato a mezzogiorno in piazza Costituzione. Manca il pubblico. Rimedia in qualche modo la Sezione socialista che onora il “gran ribelle”… in privato. (Idem a Sassari, ma nei locali della Camera del Lavoro. Molto meglio va, invece, a Gonnesa, nell’Iglesiente, dove il medico-massone BonaventuraLoy-Murgia raduna nel salone della Conciliatura un uditorio di ben cinquecento persone per l’obbligata commemorazione – oratore l’insegnante Silvio Pirisi –, mentre verso la capitale vola un telegramma a firma della «Democrazia gonnesina», celebrante «patto libere coscienze contro insidie clericali» ed auspicante, «ancora una volta», copiosa messe da «solco luminoso tracciato dalla storia di Roma»).

Sono solamente le allusive premesse di ben altro avvenimento che coinvolgerà autorevoli democratici d’ogni orientamento politico-partitico ed adesione associativa – loggia compresa –, benché si sappia che il cuore batte a sinistra, nel campo dell’Estrema…

A giugno la Sezione tempiese della “Giordano Bruno” dirama una circolare per indire un referendum cui, si spera, nessuno vorrà negare di partecipare. Si tratta di decidere sull’opportunità o meno, ed eventualmente sui modi e sui tempi, di una convocazione plenaria dei libero-pensatori isolani (magari secondo l’esempio di quel che sta avvenendo nel Lazio ex pontificio, dove i congressi si susseguono uno all’altro, da Marino a Velletri…, con adesione e anzi fattiva partecipazione di circoli politici e leghe di mestiere, Camere del Lavoro e addirittura, e in forma ufficiale, Municipi…).

La risposta degli interpellati è, oltre che affermativa, addirittura entusiastica. Il primo “sì” da Cagliari lo mandano le Sezioni repubblicana e radicale; si aggiungono i consensi dell’avv. Fara, del prof. Guidi, del prof. Campus, di V. Lippi, di Carlo Mariotti e di Luigi A. Lobina, già promotore dell’Associazione a Sassari, ecc.

Risposte altrettanto favorevoli arrivano da Sassari e Carloforte, da Ozieri e Monti, da La Maddalena e Buggerru (la Lega minatori), da Sorso, Fonni e Terranova Pausania, da Villaputzu, Iglesias e Serramanna, da Arzachena, Bonorva e Nuoro (Sebastiano Satta, l’avv. Sini), da Sanluri, Porto Torres e Mores, da Escalaplano ed Aggius ed anche da fuori Sardegna: Giulianova, La Spezia, Avellino, Roma, Teramo, ecc., residenze di isolani che non hanno interrotto i contatti con la terra d’origine e con i filoni ideologici a cui, in quella terra, si sono abbeverati.

Fissata ormai la data della grande assemblea – 19 e 20 settembre (per ricordare Porta Pia, naturalmente) –, il Comitato promotore si preoccupa dell’organizzazione. Il programma dei lavori è stabilito nel dettaglio. Dopo il rituale d’apertura si svolgeranno e dibatteranno, nella prima giornata, tre relazioni: “Per una scuola laica” (tema provvisoriamente assegnato all’Associazione romana); “Propaganda anticlericale in Sardegna” (ne è incaricata la Sezione sassarese); “Organizzazione della Giordano Bruno” (a cura della Sezione tempiese). Nella seconda giornata, invece, toccherà a Guido Podrecca tenere da par suo una conferenza sui più attuali temi dell’anticlericalismo, prima che un corteo si metta in cammino alla volta del monumento innalzato al tempiese Andrea Leoni, una delle vittime del fuoco sparato dalle truppe ostili, a Porta Pia, ed al cui nome è intitolata la loggia tempiese. La chiusura sarà allietata da un pranzo offerto dai bruniani locali. E’ pure previsto un veloce rinfresco nel salone municipale. Chi lo vorrà avrà anche modo di allungare il tragitto in direzione di Sassari o di Caprera, per un opportuno omaggio garibaldino.

Per l’occasione si cercherà di far uscire un numero unico tutto fuoco anticlericale, sarà stampata una elegante cartolina-ricordo e verrà coniata, forse, una medaglia commemorativa. Per gli artisti il concorso è già aperto.

Venerdì 28 agosto e giovedì 3 settembre, alla Sezione repubblicana di via Sant’Eulalia. Gli aderenti all’ormai imminente congresso si danno appuntamento per la costituzione del Sottocomitato cittadino. Fra i presenti anche Torquato Del Bianco, del partito dell’Edera (e della Vanga) e Felice Pigozzo, radical-repubblicano ed artiere della “Sigismondo Arquer”. Presidente del Sottocomitato viene eletto all’unanimità – manco a dubitarlo – Fernando Fara, mentre repubblicani, radicali e socialisti delegano rispettivamente Giovanni Valli, Ciro Guidi ed Edoardo Pintor. Luigi A. Lobina, socialista, fungerà da segretario. Un invito a designare i loro rappresentanti è rivolto anche alla Camera del Lavoro (che indicherà Giuseppe Cioglia), al Sindacato ferrovieri, alla Federazione tipografi e alla Massoneria locale.

In tutt’Italia viene intanto diffuso (ed affisso alle cantonate delle strade delle maggiori città) un bellicoso manifesto del Consiglio generale della “Giordano Bruno” che precisa, fra l’altro, di avere la propria sede in «Borgo Nuovo 48, di fronte al Vaticano». Non manca un diretto riferimento al congresso che si celebrerà «nella Sardegna generosa e dimenticata».

A dir di nuraghi e libertà. «Dormienti, destatevi!… »

E’ certo: «Il Popolo sardo che mai volle domini di caste dirà altamente, al resto d’Italia, che nella lotta contro il pregiudizio religioso Egli non è secondo a nessuno. E la storia del Popolo sardo – scrivono i leader della “Giordano Bruno” – ricorda che sulle rupi inaccessibili dell’Isola si infranse la potenza di Roma, e sulle rive dei suoi mari giacque la gloria di Pisa marinara; che Papa Bonifacio, alleatosi di Aragona per dominare l’isola ribelle, dovette ritirarsi dinanzi ai fieri abitanti insorti al grido di Eleonora d’Arborea e che le turbe saracine e mussulmane invano cercarono di fiaccare quella libertà, i cui principi ci vennero tramandati rozzamente scolpiti sulla pietra dei nuraghi preistorici. E la storia scriverà un’altra vittoria, non meno importante, quella che il Popolo sardo vincerà sulle orde della Chiesa Romana».

E aggiungono un’esortazione: «Italiani! L’atto solenne che sta per compiersi in Sardegna vi dimostra quanta vita civile pulsa nel sangue dei suoi figli. Voi non dovete abbandonare in quest’occasione l’isola generosa, ma dimostrarle la vostra solidarietà aderendo al congresso convocato da quei liberi pensatori». Per chiudere rammentando il martirologio democratico della regione ed indicandone il simbolo più alto in «Efisio Tola caduto per la fede della Giovine Italia».

Un altro manifesto, questa volta tutto sardo, lo firma il Comitato organizzatore, Claudio De Martis, socialista e massone, in testa: «Dormienti, destatevi!… Non per la vecchia minaccia vogliamo che oggi passi, nel silenzio dell’Isola, il grido nostro di libertà: ché troppe volte l’urlo de la fame fu soffocato nel sangue! Non per il fiacco voto supplicante: ché le nostre voci si perdono a mezzo il Tirreno, e la lunga abitudine d’abbandono ci ha reso consci delle inanità delle nostre preghiere!… Altra e più bella è oggi la battaglia!

«Noi vi chiamiamo all’ardua opera grande, onde si estirpi de la terra nostra l’avvelenato pianto della superstizione, e libera e ardente si innalzi dai ceppi spezzati, la Sardegna anelante più alti destini. Noi gittiamo il nostro appello perché il soffio della vita nova aliti sulla coscienza sarda e la ridesti dal torbido sonno di subiezione in cui l’hanno assorta troppi secoli di miseria e di ignoranza. Noi vi convochiamo perché più non maturi, nel suolo fecondo delle coscienze infantili, il germe delle menzogne e più non sia oppressa la libera scuola dalla schiavitù spirituale.

«Nel giorno fatale in cui l’empito veemente de l’ira popolare travolse la vergogna vaticana, si levi il grido della rinascenza, sotto il vessillo infiammato del Redentore Nolano per dire al mondo che anche per noi s’inizia il secolo da lui divinato. E si levi qui, nella libera terra di Gallura, dove vigila tutelare, il sacro Genio tuo, o Garibaldi. Dormienti, destatevi!…».

Passano le settimane. Così a Cagliari, nella mezza mattina di domenica 13 settembre: vagliati all’ingresso (la riunione è privata, nella solita sede repubblicana), i molti intervenuti prendono posto nel salone già pregustando le delizie di Fernando Fara e la retorica del certissimo stock di ordini del giorno e messaggi che saranno proposti all’applauso e al voto. Apre Lobina, poi… «Via l’aspersorio, / prete, e il tuo metro…». Con l’efficacissima figurazione carducciana Fara manda in visibilio il suo pubblico, che ora s’appresta a gustare le altre pietanze tutte all’insegna di “Clericalismo e barbarie passato e presente in Sardegna”.

Dante e Carducci come alfa e omega, nella storia nazionale, dell’autonomia delle ragioni temporali rispetto alle indebite invadenze confessionali: sono loro i referenti ideologici del focoso presidente dei libero-pensatori cagliaritani, sono loro che costituiscono lo spunto più adatto per i suoi fendenti dissacratori e iconoclasti.

Secondo le previsioni l’avv. Vossu legge il testo di uno speciale ordine del giorno (naturalmente approvato all’unanimità): «I liberi pensatori di Cagliari, riuniti in adunanza privata, plaudendo ed aderendo all’iniziativa della Sezione di Tempio dell’Associazione del Libero Pensiero di tenere un congresso della “Giordano Bruno” in Sardegna, mandano un saluto reverente a Roberto Ardigò, il cui nome è simbolo del civile pensiero moderno, e fanno voti perché sia istituita una Sezione locale del Libero Pensiero, che compia intensa opera di propaganda contro l’insidia clericale nella nostra città».

C’è poi il telegramma da spedire allo stesso Ardigò, papa dello scetticismo: «Riuniti a comizio, intenti a preparare il primo congresso sardo del Libero Pensiero, a Voi, del pensiero scientifico apostolo moderno, nostro fervido saluto».

La parola va quindi ad Edoardo Pintor, che sarà il relatore cagliaritano al congresso tempiese. Il quale per i suoi concittadini anticipa le conclusioni del proprio discorso (titolo: “Clericalismo nella lotta economica”) come le ha condensate in un ordine del giorno che intende offrire al giudizio dei delegati:

«Il l Congresso sardo del Libero Pensiero, ritenuto che il clericalismo rappresenta il maggior ostacolo all’incedere delle classi proletarie verso il loro destino di libertà, di giustizia, di eguaglianza, delibera: 1) di fare attiva propaganda nelle classi proletarie per strapparle al pregiudizio e alla Chiesa, affiancando, in questa parte, gli studenti e i partiti che esse classi tendono ad unire in associazioni o in sindacati per il loro riscatto economico e morale; 2) di istituire scuole operaie festive e serali; 3) di opporsi con tutte le forze e con ogni mezzo alla invadenza delle congregazioni religiose, inibendo che esse possano fare una grande concorrenza alle operaie ed agli operai liberi della piazza, e di premere perché siano messe in esecuzione le leggi di soppressione; 4) di esigere dallo Stato, dalla Provincia e dai comuni che le scuole agricole, industriali e commerciali e gli istituti pii da essi dipendenti siano informati a principi laici e siano diretti, amministrati e condotti esclusivamente da laici».

Alla vigilia della tanto attesa assemblea regionale, si cumulano le adesioni provenienti da ogni città e categoria professionale: avvocati e ragionieri, impiegati ed insegnanti, operai e ferrovieri ecc. inviano i loro messaggi di sostegno, a titolo individuale o, più spesso, in gruppo, nel quadro dei sodalizi di appartenenza, dalla Sardegna e dal continente.

I primi congressisti, fra i quali è il vate nuorese Sebastiano Satta, raggiungono Tempio nella tarda serata di venerdì 18 (s’era annunciata la presenza anche di Francesco Ciusa, poi mancata. Ci sono anche Giovanni Valli e Torquato Del Bianco, fra i molti altri, e anche Costantino Sechi (Oristano), e Antonio Vincentelli da Sassari ecc., insomma il vertice repubblicano oltre a quello socialista, che più direttamente ha avuto parte nella preparazione dell’evento. In vettura da Castelsardo giunge il prof. Francesco Corso, che sarà il presidente dell’assemblea.

La mattina del 19 arrivano i delegati della penisola, festosamente accolti, alla stazione ferroviaria, da una folla plaudente munita di stendardi associativi nonché dalle note della banda musicale. E’ anche un bello spettacolo multicolore: fra labari e gonfaloni emergono quelli della “Giordano Bruno” di Roma, Massa Marittima, Sassari, Tempio, delle Sezioni socialiste e repubblicane di Cagliari e Tempio, della Lega dei contadini e quadrettai, e così via.

La liturgia è nota: finestre e balconi affollati da gentili fanciulle che salutano festanti con battimano, il corteo che s’infila nelle strade e stradine della città fra due ali di popolo eccitato, i musicisti che intonano, un’altra volta ancora, l’Inno di Garibaldi: «Si scopron le tombe, si levano i morti / i martiri nostri son tutti risorti. ..».

La processione si conclude nei locali della “Giordano Bruno”, dove il presidente avv. Cugiolu porge a tutti il saluto dei libero-pensatori tempiesi ed improvvisa un discorso che strappa applausi ad ogni battuta. Intervengono dopo di lui Giovanni Antioco Mura, per portare l’adesione dei socialisti sardi, e Luigi A. Lobina, che loda particolarmente «l’audace iniziativa del dottor Claudio De Martis». Parla anche Giovanni Valli, a nome dei repubblicani, augurandosi che «da oggi inizi per la Sardegna – dice – un periodo di redenzione e di libertà». Chiude l’ottimo De Martis: parole forse scontate, ma per lui è un trionfo. Poi è il convito, naturalmente, la bicchierata, unificante gli animi non meno della dottrina predicata e praticata.

Qualcuno dà una rapida scorsa al Corriere, il giornale del nemico, appena uscito con un titolo che, alludendo al proclama di De Martis («Dormienti, destatevi… »), vuole ridicolizzare l’intero congresso. «Domani non si dorme – scrive –. Un potente starnuto, dalle falde del Limbara, si ripercuoterà per le balze e per le valli della Sardegna a svegliare i dormienti! Allo starnuto risvegliatore terran bordone il tin tin del martellino di farmacia e il raglio dell’asino oltremontano.

«Chi potrà dormire? Nessuno – si domanda e si risponde Il Corriere. Non i grandi, la cui coscienza dovrà “destarsi dal torpido sonno di subjazione”; non i bambini, la cui coscienza infantile è assopita “dal germe delle menzogne dogmatiche”. Che più? Dovrà destarsi dal sonno eterno “il sacro genio di Giuseppe Garibaldi” chiamato – con un apostrofe a tu per tu – a tutelare il grande congresso sardo del libero pensiero. E così sarà fatto il becco all’oca».

Una tribuna che vale un tribunale

Il Congresso, dunque. Un’apertura fra acclamazioni e silenzi. C’è gioia e c’è dolore nel gran salone che raduna centinaia di soci e simpatizzanti. Ci sono le adesioni nuove, i messaggi dell’on. Garavetti, dell’avv. Pietro Satta-Branca e dell’avv. Moro, il telegramma di Ernesto Nathan… Ma c’è anche una comunicazione assai triste che viene data, quasi in apertura, dalla presidenza: in un agguato è morto l’on. Giuseppe Pinna, il deputato radicale di Nuoro. De Martis legge la lettera di adesione che il parlamentare aveva appena fatto in tempo ad inviare al Congresso. La cui risposta, commossa ed anzi afflitta, è ora affidata a poche righe indirizzate al sindaco del capoluogo barbaricino.

E cominciano i discorsi dopo le presentazioni. Parla il prof. Multineddu di Tempio, interviene Guamienti della locale Sezione: obiettivo comune, naturalmente, il prete e il suo dominio. Un grido: «Basta!».

Stante l’improvvisa defezione di Lobina, indisposto, la parola è al prof. Marcialis, direttore didattico di professione e libero-pensatore di vocazione. Recato il saluto della loggia algherese “Vincenzo Sulis”, egli svolge la prevista relazione “Per una scuola laica”. Alla discussione che subito s’apre prende parte, fra gli altri, l’avv. Martini, delegato della Sezione di Roma.

Poi tutti in piazza. E’ quasi ora di pranzo, ma prima c’è un impegno da assolvere: la deposizione della corona d’alloro sulla lapide che ricorda il santo/eroe Andrea Leoni. Duemila persone sfilano per il centro abitato – le vie debbono intitolarsi naturalmente a Garibaldi, Cavallotti ecc. – fino al cimitero. Un breve ma appassionato discorso dell’avv. Cugiolu completa l’omaggio dovuto e devoto.

Ma una tappa intermedia è stata programmata per solennizzare il calendario. Nella palestra delle elementari, Claudio De Martis presenta al pubblico Fernando Fara, il quale – in ennesimo replay – rievoca la figura e l’opera del Nolano abbrustolito, dice del XX Settembre e della potenza politica della Chiesa e, naturalmente, dell’urgente necessità di abbatterla.

Una corona di labari rossi e neri ha circondato l’oratore. Sono gli stessi simboli che si rovesciano, in segno di dispetto, quando il corteo passa davanti alla cattedrale di San Pietro. E’ il linguaggio in codice che ognuno impara da sé, senza bisogno di spiegazioni.

Pomeriggio. Lettura degli ordini del giorno Marcialis e Lobina e decisione di abbinarne i testi. Punti fondamentali: organizzazione e propaganda. La “Giordano Bruno” può far molto anche in Sardegna. Unanime il Congresso si riconosce nelle indicazioni ideologico-programmatiche (di taglio quasi missionario) offerte alla sua riflessione e soprattutto alla sua azione dai presentatori del documento che recita quanto segue:

«Il 1° Congresso sardo del libero pensiero;

«riconosciuta la necessità sociale che il popolo sardo sia tolto all’ignoranza e alla schiavitù dell’intelletto, che finora ne hanno ostacolato la razionale evoluzione educativa e la formazione e il riconoscimento della sua personalità morale e della sua responsabilità;

«considerando come un sacro dovere sociale l’opporsi con tutti i mezzi di cui l’odierna civiltà dispone al dilagarsi oltre di certe dottrine che sono oramai universalmente riconosciute in aperta contraddizione coi più elementari postulati scientifici, coi metodi di insegnamento introdotto dalla filosofia sperimentale e con le più sane norme del vivere moderno, di progresso e di perfezionamento;

«osservato che non può essere possibile una propaganda attiva in pro della libertà di pensiero se non con una organizzazione completa e forte che possa esplicare la sua attività in ogni luogo dell’isola;

«fa voti perché sia istituito almeno in ogni capoluogo di circondario della Sardegna una sezione della “Giordano Bruno” facente parte della Federazione internazionale, con le norme e le condizioni da stabilirsi in apposito regolamento;

«di far obbligo essenziale a ogni sezione di tenere, quando sarà possibile, un fondo speciale per le spese che occorreranno per inviare a tempo opportuno abili propagandisti specialmente nelle regioni ove sarà maggiore il bisogno».

A ruota è pure approvato un ordine del giorno proposto da Pintor, più colorato in senso socialista e classista:

«Il 1° Congresso sardo, ritenuto che il clericalismo rappresenta uno degli ostacoli all’incedere delle classi proletarie verso il loro destino di libertà, di eguaglianza, di giustizia;

«delibera di fare attiva propaganda principalmente presso le classi proletarie per strapparle al pregiudizio ed alla Chiesa, affiancando in questa parte gli istituti e i partiti che esse classi tendono a unire in associazioni o in sindacati per il loro riscattò economico e morale». E’ press’a poco il testo che era stato anticipato a Cagliari.

Non trova invece accoglienza una proposta di emendamento avanzata da Mura, tendente ad escludere che la propaganda possa esercitarsi anche nei luoghi in cui non esista un’adeguata «coscienza economica» (leggi: di classe). Troppo socialismo guasta.

Vivo consenso ha incontrato, nel novero dei messaggi pervenuti all’assise, la lettera di saluto del segretario nazionale del PRI, Umberto Serpieri: «Egregi cittadini, a voi che nell’Isola abbandonata sollevate la bandiera della lotta contro la superstizione religiosa, madre dell’ignoranza, giunga gradito il saluto della Direzione del Partito Repubblicano Italiano.

«Di fronte all’avanzarsi delle schiere cattoliche, che abbandonate le vecchie formule intransigenti cercano sotto mascherate forme d’inquinare la vita pubblica italiana, penetrando nelle famiglie, nelle scuole, nei comuni, nello stesso agone parlamentare; di fronte al connubio ogni giorno più palesemente contratto fra i governanti e il Vaticano, più impellente si manifesta il bisogno di stringersi tutti in coorte contro il nemico comune della civiltà e della patria.

«Noi ci auguriamo che la Sardegna, il cui passato si gloria di nobilissime tradizioni, risponderà con entusiasmo a questo appello e con alacrità si porrà al lavoro e ci auguriamo soprattutto che i liberi pensatori si convincano essere vana ogni lotta contro il clericalismo, finché sussisterà la monarchia che lo alimenta, Io protegge, lo incoraggia e ne fa strumento di governo.

«Trono e altare furono sempre ugualmente funesti ai popoli e il pensiero non potrà infrangere sui capi e sfolgorare nella piena sua libertà se non cancellando dalla storia questi due emblemi di schiavitù e di regresso».

Parimenti condiviso è l’auspicio dell’avv. Martini per l’istituzione della Scuola laica di Roma, mentre un applauso scrosciante saluta la notizia che riguarda l’impegno della Sezione di Zagarolo finalizzato ad erigere, in Nola, un busto bronzeo al “gran ribelle”. Approvata pure la proposta Fara perché il secondo congresso della serie si tenga, nel 1909, a Cagliari.

Gli evviva al frate arrostito, alla Sardegna rinnovata, alla presidenza del Congresso, ai sindaco di Tempio, ecc. chiudono i lavori. Duecentotrentadue delegati, un sol uomo, un sol cuore.

I versi civili di Sebastiano Satta

Ore 21. Nell’aula consiliare il giovane cagliaritano Arturo Filippi declama, ammirato nella mimica e nei sussulti, i migliori versi di Sebastiano Satta. Quale migliore conclusione al summit regionale del “libero pensiero”? Scorrono fluenti le rime del vate barbaricino, la successione, magari delle sue Icnusie, documento della sua coscienza democratica e sarda…

“L’Altemos”: «All’alba – il carro d’oro per la via / Lattea scendeva, e un’aquila garria / Fu visto – o fato! – Don Giovanni Maria, / Il ribelle Alternos, qui cavalcare…».

“In memoria di Giorgio Asproni”: «- Noi lo vedemmo e udimmo – i vecchi dicono / Seduti all’ombre verdi del sacrato, / E a lui pensando, i pii vecchi risognano / Tutti i migliori sogni del passato…».

“Garibaldi”: «Io dissi ai pastori: – Pastore / Chiomato, coperto di sacco, / Che prima che balzi l’astore / Dai vertici lasci il bivacco, / E guidi col saggio vincastro / La greggia che sale con l’astro / E torna con l’altro, all’albore…».

“A Maria Antonia Cavallera, madre”: «Se in cospetto alla morte, ecco, sei sola: / Se in cuor più non ti suona /  La sua parola, l’ultima parola, / Dolce madre, perdona…».

“I morti di Buggerru”: «Novembre, non agli orti / Tuoi chiederemo i fiori / Per ghirlandare questi nostri morti. / Noi coglieremo fiori di bufera / Lungo il sonante mare…».

“A Efisio Orano”: «No, tu non hai paura / Della loro galera. / Essi vanno nell’ombra della sera / Tra larve e mostri, e tu guardi all’aurora…».

Degna chiusura. Ma certo, poi, la domanda è legittima: che cosa rimane di tutto questo?

A parte la replica poetica del giovane Filippi a Cagliari (teatro “Eden”) il 25 ottobre, tutto sommato poco.

Il Corriere dell’Isola del conte palatino di Leone XIII e Pio X, Enrico Sanjust di Teulada cioè, ha guardato all’assise ed ai contenuti del dibattito con molta sufficienza. Due suoi commenti, il 23 e il 28 settembre, miscelano le dosi del vetriolo polemico. Sì, il giornale ci ha trovato molta enfasi, forse la stessa (pur rovesciata di segno) di tante assemblee biancofiore, senza peraltro le compensazioni d’un retroterra… bimillenario, quello della Chiesa di Roma in cui entrano errori ma anche virate e rettifiche.

I commenti in chiaroscuro de “La Via” socialista

Fra gli editoriali di stampa che più immediatamente seguono l’evento tempiese, un rilievo particolare merita forse quello che il settimanale socialista sassarese La Via pubblica il 27 settembre.

Aveva goduto, la redazione militante, a veder materializzarsi, progressivamente, l’idea del congresso: «In una terra che tutta, da un capo all’altro, pareva irrimediabilmente infeudata al triste dominio pretesco, per anni o secoli ancora, bello era certo vedere in raunanza grande e decisi a fiere battaglie, i nemici di quella rea speculazione religiosa che ancora al popolo toglie le decime opime e per questo lo tiene avvinto alle catene della superstizione».

Questo prima, ma adesso che… il dado è tratto? Il giudizio è positivo: «il Congresso è perfettamente riuscito… Maggior plebiscito di solidarietà e di consenso» alla «nobile iniziativa» degli anticlericali galluresi non si sarebbe dato di immaginare. Ma, pure, la domanda ritorna: a chi era, ed è adesso, affidato il successo? Ai massoni? Ai socialisti? Ai libero-pensatori?

La risposta socialista è tranchant: «se c’è chi pensa che il magnifico parlare di Tempio possa aver liberato un’anima sola dalla superstizione religiosa, dalla soggezione clericale, una sola coscienza, che la lettura dei resoconti del Congresso possa esercitare fra le masse, come una influenza rivoluzionaria, possa produrre cioè o preparare contro la farisaica turlupinatura pretesca la rivolta dalla opinione pubblica…, pensiamo che sbagli, e di molto.

«Perché – aggiunge subito dopo l’editorialista – la superstizione religiosa, per cui solo lo sfruttamento chiesastico si rende possibile, ha, come ogni altro fatto degli uomini, le sue cause economiche: onde ben altro dee volerci a distruggerla che la propaganda ideale, non diciamo né meno declamazione, contro i preti ed il clericalismo, e in favore del XX settembre, della scuola laica, di Giordano Bruno e Tomaso Campanella… di tutto quello insomma che c’è nell’armamentario anticlericale».

Non è nell’anticlericalismo il sole dell’avvenire, sembra dire il giornale: il futuro emancipativo delle «disgraziatissime» classi lavoratrici è possibile soltanto nel socialismo… Per cui il discorso di causa-ed-effetto andrebbe rovesciato: «l’unica via per la quale si possa sperar di ottenere, con la rovina del pregiudizio religioso, l’universale condanna della speculazione chiesastica, la fine cioè dell’abominevole truffa clericale, è quella del miglioramento economico delle classi lavoratrici, la cui elevazione intellettuale e morale soprattutto e prima di tutto, non può essere che una misera e vile questione di stomaco».

Degno di nota è, dello stesso periodico – questo uscito invece il giorno stesso del congresso tempiese – un lungo intervento di “spalla” in prima pagina, dal titolo “Libero Pensiero” e firmato semplicemente “Un socialista”. Esso appare di qualche rilievo sia per un richiamo “in positivo” alla battaglia anticlericale, data la sua perenne attualità, che per un altro, invece, piuttosto “in negativo”, considerata l’insufficienza dei suoi obiettivi.

A dire del primo, importa la citazione del caso – tutto sardo – del filosofo (e prossimo massone) Antioco Zucca. Scrive La Via: «Oggi l’affermazione del libero pensiero non è un paradosso, perché se i filosofi non si bruciano più vivi, si costringono spesso a morir di fame od a languire miseramente nell’abbandono o nell’isolamento. O si ordisce contro di loro la congiura del silenzio, o si dipingono come individui pericolosi all’ordine sociale… basti ricordare per la Sardegna la lotta sostenuta in pro’ di Antioco Zucca, l’autore dell’uomo e dell’infinito, per sventare le mene dei clericali, che non lo volevano insegnante in alcun ginnasio del regno, sotto il pretesto che all’illustre professore mancavano i titoli (!)».

Le riserve, d’ordine dichiaratamente di classe, sono espresse immediatamente dopo, a conclusione del lungo articolo: «Non basta, certo, tributare onori ed incensi alla famosa dea, fulgente di giustizia e di pietà, se a fatti non si accorda al proletariato tutta la libertà di cui ha bisogno per conseguire la sua redenzione economica, morale ed intellettuale!».

Infatti: «Non bastano gli sbandieramenti, le luminarie ed i discorsi per demolire la potenza del prete, ma occorre l’opera assidua, costante, tenace di ogni giorno, manifestata senza timore, sia nella famiglia, sia nella società; quindi non matrimonio religioso, non battesimi; educazione prettamente laica; si boicotti la bottega del prete! Non bisogna infatti dimenticare quanto scrisse il Carducci “che l’Italia, la terra degli 800mila monaci, per quanti sforzi faccia di darsi ad intendere di essere libera, resta pur sempre in fondo teologale e che le vecchie abitudini inculcate collo staffile, coi cilizi e con gli amori molto o poco reverendi, non si dismettono così subito, come alle prime aure di maggio un abito pesante”».

Nasce la “Giordano Bruno” anche nel capoluogo

Giovedì 24 settembre. Rientrati a casa dalla trasferta tempiese, gli esponenti dei partiti popolari e del sindacato già presenti nel Sottocomitato organizzativo attivato nella prospettiva congressuale gettano le basi della costituzione ufficiale di una sezione tutta cagliaritana della “Giordano Bruno”. Nella sede repubblicana si danno convegno Giovanni Valli e Torquato Del Bianco, Enrico Giusti e Giuseppe Fasola, Francesco Frongia, Edoardo Pintor e Giuseppe Cioglia. Presiede la riunione Fernando Fara.

Autocostituitisi in comitato provvisorio, gli otto approvano una bozza di regolamento per la disciplina delle adesioni (che si riceveranno negli stessi locali tutte le sere tra le 21 e le 22, il giovedì dalle 20 alle 22, e la domenica dalle 9 alle 11), e per la fissazione delle quote (25 centesimi al mese, salva naturalmente «la libertà degli aderenti di contribuire con maggiore somma»).

L’obiettivo è chiaro: appena la Sezione sarà formalmente costituita si avvieranno le fasi preparatorie del secondo Congresso regionale del “libero pensiero” che, in conformità alla delibera di Tempio, dovrà celebrarsi in città il 20 settembre 1909.

Domenica 25, venerdì 30 ottobre: assemblee generali dei soci (soliti locali). Il giornale socialista La Forza Proletaria, che esce dai primi di luglio, canta vittoria: «Si è finalmente ricostituita l’Associazione anticlericale con un buon numero di aderenti. Scopo dell’Associazione è quello di combattere pregiudizi e dogmi e popolarizzare la verità della scienza positiva.

«Se la apatia del nostro ambiente – prosegue il settimanale – non intorpidirà l’azione dei volenterosi che hanno dato opera alla ricostituzione della Sezione locale della “Giordano Bruno”, la città nostra si sottrarrà gradatamente alla schiavitù morale in cui l’hanno gettata l’ignoranza e i pregiudizi».

Domenica 8 novembre si svolgono le elezioni per le cariche sociali. Inamovibile, manco a dubitarne, Fernando Fara nella sua presidenza.

Fra i primi frequentatori della Sezione uno studente liceale di simpatie socialiste: Antonio Gramsci. Abita nella via Principe Amedeo, giusto alle spalle dell’ex chiesa gesuitica di Santa Teresa, frequenta – proprio dal 1908 – il “Dettori”, e la sede della “Giordano Bruno” – un sottano in via Barcellona – non è distante dalla sua abitazione più di duecento passi, e dalla scuola più di cento… A lui – personificazione dell’onestà – sarà presto affidata la cassa sociale: la raccolta delle quote dagli iscritti, la sistemazione delle spese fisse: pigione, cancelleria e stampa quotidiana e periodica che egli non mancherà di porgere – leggendo lui stesso gli articoli più significativi – ai “compagni lavoratori” del porto o delle botteghe artigiane purtroppo analfabeti.

Un circolo come tanti altri, magari con qualche sua particolarità. Interclassista sì, ma volto a un senso sociale e progressista della politica. Professionisti e studenti universitari o liceali – “professionisti prossimi venturi” –, taluno socialista rivoluzionario, qualcuno fedele a Mazzini, qualche altro piuttosto radical-transigente, o ministerial-progressista… Una piccola biblioteca degli eretici, una altrettanto piccola filodrammatica pronta ai recital poetici, con preferenza per il grande Ugo Foscolo, per il democratico verista Lorenzo Stecchetti, per il sardissimo Sebastiano Satta…

Domenica 6 dicembre, ore 20,30. Stavolta l’assemblea è ospite del Circolo Universitario di via Torino. Si procede alla presa in carico del labaro associativo, si ascolta qualche discorso, anche degli stessi studenti, e, emozionante, la Canzone a Trento composta nientemeno che da Gabriele D’Annunzio. Infine si dà corso ad una lotteria (due gli oggetti artistici in palio), con destinazione del ricavato alla “Dante”, operante in città giusto da dieci anni, ed a favore della quale la Sezione promuove anche – l’8 dicembre – una pubblica sottoscrizione di “rinforzo”. E per intanto, come fondo iniziale, il Consiglio direttivo le devolve quanto raccolto in occasione della festa per l’inaugurazione del labaro sociale.

Più esplicito di tutti è ancora una volta l’organo ufficiale del Partito Socialista cagliaritano che alla partecipazione all’assemblea attribuisce il significato come di «adesione sincera e larga al programma e agli intenti altissimi che la “Giordano Bruno” si propone di svolgere e di conseguire fra noi, e protesta contro ogni atto di barbarie morale e materiale».

E aggiunge: «Per la causa della civiltà, per gli alti ideali della libertà morale e civile, per il nobilissimo proposito di elevare le personalità umane a uno stato di dignità rispondente alle esigenze dei tempi moderni, tutti coloro che hanno intelletto forte e sentimento progredito vorranno dare il loro concorso. Così la festa di oggi – conclude La Forza Proletaria – riuscirà una bella manifestazione contrapposta a quella che in occasioni non lontane hanno fatto offesa al buon nome di Cagliari».

Riprendono, ancora nella sede di via Sant’Eulalia (parallela a via Barcellona), le riunioni settimanali, ma i risultati non sembrano granché degni di nota lungo tutto l’anno successivo… Più che ai temi ideologici, infatti, il 1909 sembra guardare alle date di rimembranza patriottica (come il 50° delle grandi e vincenti battaglie della seconda guerra d’indipendenza) ed agli interessi sociali. Mercoledì 17 febbraio – data capitale del calendario bruniano – gli studenti sono impegnati, al Civico, nel gran ballo goliardico di chiusura del Carnevale, per raccogliere fondi a favore dei colleghi in difficoltà di borsa…

Vent’anni dopo, frate Giordano sdoganato: all’università

Per l’arcigno busto bronzeo del domenicano scoperto in un altro 20 Settembre – quello del 1913 –, e donato dal Comitato promotore (costituito da sei sigle) al Municipio, la detenzione in un buio magazzino dove l’aveva confinato giusto tredici anni dopo il podestà/commissario del fascismo Vittorio Tredici, dura relativamente poco, una quindicina di mesi. Era stato tolto di mezzo, su pressione anche di una petizione firmata insieme da fascisti e catto-clericali del moribondo Partito Popolare, con la scusa di sostituirlo con una statua di San Francesco – l’intoccabile San Francesco, nel settimo centenario della serafica morte –, poi il santo l’avevano collocato in piazza Carlo Alberto, giù della cattedrale, ma l’Abbrustolito era rimasto comunque prigioniero ed escluso dalle pubbliche devozioni che gli rendevano abitualmente i ghibellini cagliaritani e anche le buone donnette che, pensandolo un santo del Cielo, solevano segnarsi davanti a lui mentre entravano o uscivano dalla porta dei Leoni.

All’improvviso, poi, ecco il gran ritorno: nel gennaio 1928 esso viene trasferito in un nicchione dell’atrio dell’Università. Qualcuno degli studenti che, al tempo dell’Associazione Anticlericale d’Avanguardia o del Comitato pro-monumento, aveva consumato molte energie per il gran risultato, è forse rimasto nell’ambiente, magari docente aggregato di qualche materia delle sei o sette facoltà che danno corpo all’Ateneo cagliaritano, e forse gode della resurrezione… Cambiato il quadro storico – con un fascismo-dittatura che un po’ richiama e un po’ respinge il “libero pensiero” e il Risorgimento patrio – la “questione Giordano Bruno” sembra dover essere ancora messa a fuoco. Tanto più che sono iniziati i contatti con l’altra sponda del Tevere in vista dei Patti del Laterano.

A Cagliari, giusto all’indomani della erezione del monumento bruniano, era arrivato il nuovo arcivescovo Francesco Rossi. Nel 1920 egli – trasferito nella colta Ferrara – è stato avvicendato con un autentico missionario del Vangelo che, dopo Alghero ed Oristano, proprio a Cagliari ha messo radici destinate a dare fronde per altri tre decenni. E monsignor Ernesto Maria Piovella è prete e vescovo che rispetta l’autorità costituita. Avrà anche lui, dopo la bella collaborazione… estirpatrice del 1926, un momento di diffidenza e quasi di scontro con il regime, nel 1931, a causa della forzata chiusura dei circoli dell’Azione Cattolica, ma tutto sommato la Conciliazione è nel suo stesso temperamento pastorale, nel suo stile ecclesiale. Ed il fascismo che organizza la società con moduli di disciplina non gli dispiace.

Dopo la conclusione – anch’essa per la prepotenza del regime già fatto – dell’esperienza del Corriere di Sardegna, a cui è stata saccheggiata ed incendiata la tipografia di via Cima, i neoguelfi cagliaritani hanno dovuto aspettare quasi due anni prima di poter contare su un loro organo di stampa. Che adesso ha visto la luce, settimanale affidato alle cure del can. Lai Pedroni, figura di spicco del clero dell’Archidiocesi. E’ La Sardegna Cattolica il giornale che deve difendere le posizioni della Chiesa universale e di quella locale, della dottrina immutabile e dei suoi servitori: il papa e l’episcopato sparso nei continenti, i sacerdoti, i religiosi, il laicato militante. E può dirsi che assolvere ad una tale missione in un Paese asservito ad un regime totalitario, intimamente pagano ancorché interessato a concludere accordi in logica di instrumentum regni, ha le sue opportunità ma anche le sue difficoltà supplementari. Perché Giordano Bruno – un anno prima della firma degli accordi lateranensi – è questione che accende la spia del rapporto della Chiesa con la politica, oltre che con l’ideologia tout court.

Così già al suo esordio nelle vetrine delle parrocchie, il settimanale ha di che avvertire gli altri protagonisti della scena civile sulle sue idee, sulle sue indisponibilità… «L’Università di Cagliari – scrive VC., il giovane Venturino Castaldi, già redattore dello sfortunato Corriere di Sardegna approdato adesso alla più compassata, ma anche più intransigente tribuna ecclesiale – ha finalmente trovato un Nume tutelare. Chi è? Ve lo lascio indovinare in mille, sicuro che non ci riuscireste. E’… Giordano Bruno.

«Ma come? esiste ancora? non l’avevano plebiscitariamente detronizzato, togliendolo dall’incrocio di via Giovanni Spano e via Mazzini, ove da parecchi anni sorgeva a minacciare col suo cipiglio irato i pacifici ed involontari suoi vicini di casa? Eppure è così.

«Nonostante il plebiscito, nonostante i fulmini della stampa, la marea delle sottoscrizioni (fra le quali un indiscreto pedante potrebbe ritrovare parecchie di quelle che figurarono nelle liste per l’erezione), nonostante il plauso delle autorità, che ben capivano come un tale gesto avrebbe riscosso la più completa approvazione del Governo Centrale, il fatto è indiscutibile.

«Il busto di Giordano Bruno, simbolo di ribellione e di antiromanità; il busto di Giordano Bruno, eretto in anni in cui la Massoneria trionfava e ne faceva in tutto il mondo il proprio segnacolo, è stato tolto dalla pubblica via, ma è stato collocato.., nell’Atrio maggiore della R. Università agli studi di Cagliari».

E più oltre: «Il busto non è stato murato, ma solo collocato in una nicchia. Senonché passa un mese, passa l’altro, all’università si tengono lauree e prolusioni, si tiene l’apertura dell’anno accademico; una marea fremente di giovinezze nuove irrompe fra le vecchie mura, piena di entusiasmo, di fede, di un senso umano, di religiosità e di italianità che ha un solo nome: Romanità, e sopra di essa continua a levarsi, quale Nume Tutelare, la fosca minacciante figura del Nolano.

«Francamente non ci pare al suo posto. Per la scienza? Sarà, benché noi siamo certissimi che coloro che rispondono così non hanno mai letto una delle opere di Giordano Bruno. Sarà. Ma allora non era meglio lasciarlo dov’era? Era proprio questo il momento più adatto per promuoverlo di grado e dargli senz’altro una cattedra ad honorem? Ma via!

«Giordano Bruno non ha monumenti in nessuna Università seria del mondo, non escluse quelle massoniche francesi o quelle bolsceviche russe: erano “tempi in cui si confondeva la libertà con la ribellione e la licenza, e in cui si affermava apertamente di voler sostituire la bettola alla Chiesa. In Romagna e perfino a Roma non si ebbero forse i battesimi col vino? A Roma non si permise forse di scrivere sul frontone di una bruttissima chiesa protestante – e c’è ancora – in Piazza Cavour, a breve distanza dal Palazzo di Giustizia e dal Vaticano: et lux in tenebris lucet…, ad affermare pomposamente che la luce anglicana risplendeva fra le tenebre di Roma cattolica e italiana?».

Ancora: «Noi – è bene intenderci – non intendiamo far proteste di sorta e ancor meno contro qualche persona, tanto è vero che non ci siamo curati di indagare come e perché Giordano Bruno sia diventato matricolino, e riteniamo volentieri che si tratti di un semplice ripiego temporaneo seguito da qualche burocratica dimenticanza. Guardiamo solo all’avvenire e chiediamo senza jattanza e con la serenità di chi ha la coscienza tranquilla e sa di sostenere una buona causa. Cosa si intende fare?

«Si vuoi nominare il ribelle Nume Tutelare dell’Università, proprio oggi che il Governo e il Ministro della P.I. hanno informato tutta l’educazione della gioventù al principio di autorità ed a quello di romanità? Che ne pensa il Magnifico Rettore? Che ne pensano i professori? Che ne pensano gli studiosi?».

Fondita per un’aquila romana ed una croce?

Infine: «E vorremmo aggiungere un pacato – modestissimo – umile consiglio. Potrebbe darsi che a qualcuno saltasse in testa di chiedere per Giordano l’aspettativa in qualche ripostiglio del Comune, in attesa di giorni migliori, in attesa del beato giorno in cui potranno risplendere di nuovo al sole le cazzuole e i triangoli che serba in fondo al cuore, ma siamo certi che le autorità sapranno provvedere diversamente.

«Il busto ha un non trascurabile valore come bronzo: perché non lo si vende per la fondita a beneficio di una qualunque opera patriottica, e non lo si cede per qualche monumento ai caduti in guerra a qualche comune povero? In tutti i monumenti del genere campeggia l’aquila romana e la croce. Non sarebbe forse bello che dal vecchio bronzo sorgessero i simboli della fede e dell’eroismo, della giustizia e della generosità, i simboli della gloria e della luce immortale che in Roma dettarono al Mondo intero la civiltà?».

Così – con qualche rozzezza, che può però capirsi – i catto-clericali in anni di regime, conciliatoristi dimentichi della dottrina pagana della dittatura e del valore ideale “comunque” delle vittime dell’Inquisizione, avanzano la loro proposta. Che sarà di tutta fretta, e non senza argomenti, girata al mittente.

Il primo interlocutore della Sardegna Cattolica – a tre giorni soltanto dal suo battesimo – è naturalmente il maggior organo di stampa della città e della provincia: L’Unione Sarda. Sarà la stessa Unione del 1926 che ha rimproverato il professore (e prossimo rettore, ma in tempi di recuperata democrazia) Ernesto Puxeddu, reclamante ora la tolleranza di tutte le idee, di non aver mostrato lui pari tolleranza negli anni caldi della sottoscrizione bruniana? o L’Unione che ha contestato alla Massoneria una indebita appropriazione direzionale della militanza bruniana? Oppure adesso, zittiti i massoni, preferirà essa prendere di mira quei residui clericali che non vogliono riconoscere l’autonomia dello Stato da ogni religione, foss’anche quella “di Stato”?

Allora, nel 1926, la direzione politica del giornale era affidata al federale provinciale del Fascio, l’on. Paolo Pili – già artiere, forse pentito, certo disincantato, della loggia di Oristano –, mentre redattore capo era Rafaele Contu, già direttore del periodico fascista Battaglia (che minacciava in ogni sua edizione, per la prossima, la pubblicazione degli elenchi dei templari della città…).

Nel 1928 – o almeno da gennaio a luglio – alla testa del giornale è, in quanto nuovo federale, l’on. Giovanni Cao di San Marco, con Contu – in staffetta con Giuseppe Pazzaglia – sempre redattore capo.

“Chi ben comincia…” è il corsivo che, nella pagina dedicata ai “Problemi e cronache di Cagliari”, il giornale riserva ai colleghi che s’affacciano alla scena pubblica. Saluti di rito, ovviamente, ma… «Ma abbiamo qualcosa da aggiungere al saluto delle armi – avverte subito con piglio l’articolista –: è meglio parlar chiaro in tempo.

«Nessuno nega alla Giunta Diocesana il diritto di fondare un organo di azione cattolica… Ma “Sardegna Cattolica” si definisce “organo dell’azione cattolica” e, se occorra, “anche di battaglia” e dichiara di non potersi “estraniare dagli avvenimenti che costituiscono la cronaca della vita pubblica” e “di non poter trascurare gli interessi e i bisogni che sono legati al benessere anche materiale dei cittadini, delle classi, del paese..

«Niente da dire sulla formula: che esprime un compito spettante a tutti i cittadini, a tutti i gruppi, e perciò anche ai cittadini cattolici. Felicissimi anzi di trovare dei collaboratori leali.

«Senonché, ad onta della professione di “rispetto del regime costituito” che il settimanale fa nell’editoriale-programma, ci riesce difficile dimenticare che la fucina e gli uomini del nuovo organo, sono gli stessi dai quali ebbe vita non gloriosa altro organo di azione non precisamente cattolica e nient’affatto rispettosa del regime costituito.

«Ragione per la quale vogliamo augurarci che il settimanale sappia fare le cose a modo, non soltanto a parole». E’ il rimbrotto per il trascorso, e sia pure educato, antifascismo dei popolari e del loro giornale, lo sfortunato Corriere di via Cima, che forse ha… meritato saccheggio e incendio.

«Che bisogno c’era dunque di ospitare, proprio nel primo numero una colonna e mezza sul tema “Giordano Bruno”?

«VC. arriva un po’ in ritardo a modificare il giudizio della storia e della scienza sulla personalità e sull’opera del frate di NoIa, che fu un genio italiano prima che un simbolo della trionfante Massoneria.

«”Simbolo di ribellione e di antiromanità?”. Vada piano, signor V.C. Se non erriamo la definizione è un po’ troppo settaria: se è vero che a nessuno, fuorché a V. C., passano per il cervello propositi di restaurazione della “romanità” contro la quale il Nolano insorse.

«Dio, Patria e Re, sono concetti ai quali l’effigie di Giordano Bruno, nell’atrio del tempio della scienza e del pensiero, non reca affatto disturbo, sottratta com’è alla speculazione antireligiosa, dalle leggi dello Stato e dallo spirito del tempo.

«Può essere vero che l’appetito vien mangiando, ma non è concesso esagerare…».

Gentile e la religione fascista

E questa è la prima puntata. Non passano però che due settimane ed ecco L’Unione Sarda pronta al bis. Stavolta in prima pagina, di spalla. Sigla l’articolo – al minuscolo – f.c. (un ritorno una tantum dell’ex direttore, fascista della prim’ora, Francesco Caput?). Di immediato sentore – per il titolo “Ipocrisia religiosa” – tono e forse ancor più argomenti.

E’ noto che soltanto pochi mesi addietro Giovanni Gentile ha prefato la Bibliografia delle opere di Giordano Bruno e degli scritti ad esso attinenti, e che lo stesso filosofo già ministro dell’Istruzione di Mussolini ha curato i primi due volumi – fra 1907 e 1908 – dei Dialoghi bruniani: quelli metafisici e quelli morali. Lo stesso Gentile – che più di recente s’è occupato della filosofia del “gran ribelle” in un articolo per L’Educazione Fascista – a conoscenza della vicenda del povero monumento prigioniero in un ignoto deposito comunale o universitario, ha deprecato la sordità mentale di mandanti ed esecutori del misfatto cagliaritano, e forse – si dice – ha sollecitato il governo, addirittura il duce in persona, a dare ordini per la resurrezione… Osserva f.c.:

«Giorni or sono, prendendo lo spunto dall’allegro black-bottom che un giornale cittadino – ahimè – cattolico, aveva pubblicato in odio a Giordano Bruno, scrivevamo che pur riconoscendo che l’appetito vien mangiando, non era il caso di esagerare da parte dei cattolici ortodossi. E davvero esagerata ci sembrava la pretesa che al Busto di Giordano Bruno fosse inflitto lo sloggio forzato dall’atrio dell’Università dove un ordine del Governo gli aveva concesso di riparare per sottrarsi alla persecuzione dei cattolici intolleranti.

«Giunge ora in buon punto un articolo a firma di Giovanni Gentile (v. “Il Telegrafo” n. 32) che ci induce a sviluppare i concetti che ci ispiravano la reazione alla grottesca intolleranza dello spiritoso scrittore di “Sardegna Cattolica” e che oggi trovano nello scritto di Giovanni Gentile la più autorevole delle adesioni.

«Rileva, l’autore della più fascista delle riforme (dopo avere, precisamente, stigmatizzato l’episodio cagliaritano e l’altro identico e più recente di Camerino, dove è stata distrutta una lapide commemorativa del frate di Noia) che la restaurazione del sentimento religioso e della religione nazionale ha fatto sì che molti fascisti qua e là venissero subitamente assaliti “dal più ardente ed impaziente zelo religioso, e, quel che è peggio, si affrettassero al più intollerante esibizionismo di questo zelo e alla ricerca di ogni occasione o pretesto per ostentare la più premurosa devozione a quella Chiesa alla quale fino à ieri avevano voltato le spalle”.

«L’ordine perentorio del Governo che ha impedito che la statua di Giordano Bruno andasse distrutta com’era nel desiderio dei più ardenti apostoli del clericalismo spinto, disse già chiaramente a chi volle capirlo che ai fascisti non è lecito dimenticare che nel Fascismo i propositi ed i fatti di restaurazione religiosa non devono andare oltre il rispetto della storia della civiltà e del pensiero».

E questo è per quelli… di casa, i fascisti opportunisti cioè. Ce n’è poi per gli altri… «Ma “Sardegna Cattolica” ha tratto argomento dalla “sciocca” persecuzione antibruniana per prospettare il pericolo della evidente insincerità e della famelica febbre di invadenza che i paladini dell’ortodossia cattolica dimostrano ogni giorno di più, dal ritorno del catechismo e del crocifisso nelle scuole in qua, sempre pronti come sono a chiedere oggi quel che ieri non pareva sognassero di poter chiedere, mai soddisfatti di ciò che hanno ottenuto ieri [...]. Così dalla dottrina cristiana obbligatoria, ai corsi facoltativi di religione, dai corsi facoltativi alla pressione sui presidi ed alunni per fame in sostanza corsi obbligatori, dal monumento a San Francesco alla detronizzazione del busto di Giordano Bruno, dalla detronizzazione alla distruzione… santo ma eccessivo, pericoloso zelo!».

«Ipocrisia religiosa»: un’accusa meritata?

Replica catto-clericale: «Una deferente proposta di una innocua liquidazione dell’episodio bruniano ci ha valso una prima sfuriata dell’Unione Sarda, che abbiamo creduto non valesse la pena di prenderci a male.

«Ma eco un articolo del senatore Gentile, scritto per il numero di gennaio della rivista L’Educazione Fascista par che si presti a rafforzare la riscossa dei paladini di Giordano Bruno ed f.c. ne trae un articoletto per l’Unione dell’ 11 contro il “giornale cittadino – ahimè! – cattolico”.

«A proposito dell’ “ahimè” non avremmo mai pensato di dargli tanta amarezza quanta ne esprime quella desolata interiezione. Mah! Ci vuoi pazienza. E ne abbia tanta da permetterci qualche chiarimento sulla “detronizzazione bruniana” e qualche osservazione su quella che il Gentile chiamò per primo “ipocrisia religiosa”».

Questo per incominciare. Poi ecco il giovane avvocato Castaldi contestare, nel merito, il rimprovero ricevuto: «Ci fa sapere l’Unione di un ordine del governo che avrebbe concesso al busto dell’apostata nolano di riparare nell’atrio dell’Università “per sottrarsi – son sue parole – alle persecuzioni dei cattolici intolleranti”. Prendiamo atto dell’ordine del governo. Ma le persecuzioni?

«Intendiamoci. Chi abbiamo da identificare in quei “cattolici intolleranti”? Quelli del “giornale cittadino – ahimè! – cattolico”, i cattolici militanti nelle organizzazioni dell’Azione Cattolica certo hanno desiderato sempre la rimozione del famigerato busto.

«Ed è pur giusto e naturale perché l’apostata nolano rappresenta ed è la negazione di ogni concezione cristiana del mondo e della vita, rappresenta ed è la ribellione al divino magistero della Chiesa, ad ogni potere umano e divino.

«E non è intolleranza, ma logica inesorabile di una fede viva e sentita il negare ogni segno di gloria, ogni apoteosi all’errore contrario o al simbolo di esso. E se tutte le intolleranze si riducessero a questa forma, poco male! Il guaio si è che ce n’è delle più vere, delle meno giustificate e delle più feroci. E queste non sono i cattolici a farle, ma purtroppo a subirle.

«Ma i cattolici “del giornale cittadino – ahimè! – cattolico” non hanno mai risposto con alcun gesto oltraggioso, con alcuna azione devastatrice contro quello che il Gentile definì – ed ebbe ragione – sciocca intolleranza, fatta “per dispetto ai preti”, aggiungeremmo noi ai sentimenti cattolici della città.

«Sia stata una giusta riparazione, come noi pensiamo, con buona pace del senatore Gentile – (le offese difatti quando si riconoscono non è giusto ripararle?) – sia stata una sciocca intolleranza, il merito o la colpa, la iniziativa e la decisione della detronizzazione bruniana fu tutta dei fascisti che nella grande maggioranza dei gregari e dei gerarchi vollero togliere alla città cattolica quell’onta di segno massonico”.

«Si immagini f.c. che tra i sottoscrittori-offerenti per la “detronizzazione bruniana” ci furono le prime autorità cittadine, civili e militari cittadine e che il primo, diciamo il primo, a firmare le schede fu proprio l’attuale Segretario Federale, l’attuale Direttore dell’Unione. Altro che persecuzione di “cattolici intolleranti”!

«Ma allora che cosa rappresenta l’intemerata gentiliana sulle colonne dell’Unione? Evidentemente essa ha tutta l’aria d’una lavata di capo, in ritardo, a della gente molto vicina, a degli amici di casa, a dei compagni di fede che osarono “essere di parere contrario” in fatto di ammirazione bruniana, lavata di capo che non potendosi fare direttamente, per ragioni di convenienza e di pudore riverenziale, è stata fatta attraverso la battuta polemica contro il “giornale cittadino – ahimè! – cattolico”».

Il centro di tutto il contendere è forse il problema educativo: dalla formazione cristiana delle nuove generazioni deve venire, nella sequenza delle fasi di vita, un accompagnamento sempre coerente nei principi, onde averne un domani risultati concreti in termini di maturità morale e responsabilità civica del cittadino. E quanto all’allarme che f.c., sulla falsariga del sen. Gentile, grida contro la «insincerità e la famelica invadenza dei paladini dell’ortodossia cattolica» nelle scuole, Castaldi osserva: «E’ una questione di logica. Chi vuole la religione per il fanciullo, come non dovrà volerla per il giovane, o per l’uomo? Chi vuole un insegnamento illuminato e confortato dalla dottrina cattolica, come non dovrà volere anche la preservazione da ogni errore che insidi o combatta quella dottrina?

Dunque? «Se una ipocrisia c’è, non è certo dalla parte nostra: ma sì, da parte di chi afferma di volere a mo’ del sen. Gentile, “la scuola cattolica, perché deve essere religiosa”, e poi la disvuole, o peggio la vuole d’amore e d’accordo col libero pensiero di Giordano Bruno o col libero esame del pastore Lo Bue. Più ipocrisia religiosa di questa?»

Il pastore evangelico Francesco Lo Bue

Già Oratore della loggia intitolata all’altro abbrustolito – Sigismondo Arquer cioè—, l’evocato Francesco Giusto Lo Bue è pastore della comunità evangelico-battista di Cagliari ormai da otto anni.

Palermitano, poco più che quarantenne, coniugato con una giovane londinese che purtroppo morirà in Sardegna nel 1924, egli è giunto in città ai primi del 1920, dopo importanti esperienze compiute in mezza Italia (le ultime a Napoli). Ha iniziato subito con un ciclo di conferenze, sempre sul crinale tra fede e umanesimo (“Scienza e Dio”, “Originale il pensiero di Gesù?”…), e non ha mai mancato – in perfetta coerenza con la linea dei suoi predecessori – di trattare gli argomenti che ancor più avvicinano patria e comunità credente: da “Il XX Settembre” a “Chi fu Savonarola?”, a “L’incoerenza del prete nell’osteggiare il divorzio”.

A tale proposito – era il marzo 1923 – è da registrare un incidente con il questore che aveva negato l’autorizzazione a un manifesto da affiggere alle cantonate con l’annuncio della conferenza. «Offesa alla religione dello Stato», aveva obiettato il funzionario. E il giornale dei popolari – il Corriere, sì sfortunato in qualche contingenza, ma… famigerato in altre – aveva commentato parteggiando naturalmente con il questore, non con la libertà di coscienza e di parola…

Pastore anche della piccola, piccolissima comunità evangelica di Iglesias, nel centro minerario, anche lì ha avuto i suoi problemi, particolarmente con un sacerdote – tale don Antioco Arrius – che s’è fatto corrispondente del Corriere Italiano, riferendo con ottica partigiana gli argomenti da lui esposti. («Riconosco… di essere un ignorante e, come tale, prego il Rev. Sacerdote Teologo Dottor Arrius Antioco di dirmi in quale delizioso “giardino” spuntò e crebbe quel delicatissimo fiore di virtù conosciuto nella storia dei papi sotto il santissimo nome di Alessandro VI, noto per le sue relazioni coniugali che ebbe con la propria figlia Lucrezia!», chiede al suo avversario in un picco della polemica iglesiente).

Instancabile, ha seminato cultura religiosa in controtendenza rispetto agli assetti della piazza cagliaritana ovviamente strutturati e presidiati dalla capillare organizzazione parrocchiale. “Origini e scopi della confessione auricolare”, “Roma sotterranea”, “Scavate più sotto!”… le conferenze – frequentemente mirate a pungere il cattolicesimo, come a trovare legittimazione in un contesto di popolazione altrimenti ostile o indifferente – si sono susseguite l’una all’altra. Fino appunto a quelle del febbraio-marzo 1928, indicate come sgradite dal cronista della Sardegna Cattolica. Ma Lo Bue non demorde. E dunque, mazziniano ed evangelico, eccolo impegnato ancora a trattare dell’ “Opera e la filosofia del Martire Nolano”, dei “Valdesi”, del “Pensiero religioso del grande filosofo genovese (Mazzini)”, di “Lorenzo Valla”, di “Religione d’autorità e religione dello spirito”…

Concludendo

Nel tempo futuro, San Francesco si farà testimone partecipe ed immobile delle mille avventure della città capoluogo – è nota la sconsolata immagine di monsignor Piovella seduto ai suoi gradini dopo i rovinosi bombardamenti del 1943 –, mentre San Giordano traslocherà più volte: all’indomani della guerra nella facoltà di Lettere in via Corte d’Appello, nei primi anni ’60 a Sa Duchessa, dove è ancora oggi.

V’è chi ne auspica il ritorno – magari in copia – in una pubblica piazza. E l’auspicio meriterebbe forse d’essere accolto.

O se, invece di Bruno, ma con Bruno nel cuore, si puntasse su Sigismondo Arquer, finito sul rogo – innocente e vivo – prima di lui? A quella lapide proposta e mai realizzata degli anni 1889-1890? Una lapide magari da affiggere nella stessa via a lui intitolata, nel quartiere della Marina, a un passo dal palazzo del Consiglio regionale – la maggiore istituzione politica dell’Isola… (E peraltro noto che una sua effige è collocata, ma poco visibile, in un sovrapporta dell’aula del Consiglio provinciale, a Palazzo Viceregio, per lunghi anni frequentata dagli stessi legislatori dell’Autonomia in Repubblica).

La loggia massonica intitolata a Sigismondo Arquer – che pure nessun diretto rapporto ha con l’omonima che fu soppressa dalla dittatura – potrebbe onorare la nobile memoria della compagine che l’ha preceduta sul teatro cagliaritano realizzando essa quel marmo pensato ormai 128 anni fa…

 

Condividi su:

    Comments are closed.