I vent’anni della Casa-Famiglia di padre Morittu a Sassari, la testimonianza di vita di Bruno Porcu nelle comunità, di Gianfranco Murtas

 

«Delle comunità sapevo poco o niente… Al Centro d’accoglienza ci accolse Bruno, un volontario dell’Associazione Mondo X Sardegna, fondata qualche anno prima da padre Salvatore Morittu, un giovane frate francescano nativo di Bonorva, paese del Logudoro…». E’ Paolo Manconi, eccellente musicista e poeta, affabulatore godibilissimo, magnifica persona, a ricordare quel momento, quell’ora del 23 febbraio 1985, scrivendone nel suo io che non sono nessuno, pubblicato nel 2011 da Carlo Delfino editore.

In precedenza aveva conosciuto, condividendone le amare restrizioni, il professor Bainzu Piliu, già sindaco di Bulzi, ed aveva incontrato il bene e il male nella sua strada, dialogando con entrambi; aveva (ed ha), Paolo, da artista vero, una intelligenza ed una sensibilità che sanno cogliere le originalità dei vissuti ben oltre le apparenze, per rifletterci sopra, imitando il meglio magari, come ha fatto nel concreto lungo tanta parte della sua vita, ancora oggi… «Bruno registrò i miei dati e fissò per il mercoledì successivo il primo colloquio con gli operatori della Comunità…».

E padre Morittu in Gli ultimi sognano a colori, scritto insieme con Giampaolo Cassitta e pubblicato ora è poco più d’un anno da arkadia, rievocando i primi momenti della sua avventura umana, religiosa e sociale, scrive: «Da Sassari vennero a visitarci una coppia di giovani sposi, Bruno e Speranza, desiderosi di conoscerci dato che avevano avuto dei rapporti con una comunità di Firenze e poi avevano saputo di noi. Ci diedero la loro disponibilità ad essere nostri volontari. Ci rendemmo conto, dopo una certa frequentazione, che il loro aiuto poteva andare oltre le cose da procurarci o il tempo da trascorrere con noi. Erano capaci di affiancarci anche nelle problematiche più attinenti al recupero dalla droga. Con loro progettammo la creazione di un nostro Centro di Accoglienza a Sassari, sulla linea di quello che a Cagliari affiancava la comunità di San Mauro, per preparare i ragazzi a entrare in comunità e aiutare le loro famiglie…».

Il CMAS di via Diaz, in città, mise a disposizione un locale, e dal 1982 – pressoché in parallelo all’avvio dell’esperienza di S’Aspru (maggio) – cominciò ad operare il Centro d’ascolto, o chiamalo d’accoglienza, di Sassari. Dal giugno 1984 quell’attività passò, fisicamente, in altri ambienti risistemati dell’antico convento francescano di Sant’Antonio, quello del porcellino, non lontano dalla stazione ferroviaria.

Dieci e passa anni dopo, un altro appunto di memoria: «Il padre Paolo Cocco credeva nel futuro del Convento di S. Antonio abate a Sassari e spesso il suo sogno lo manifestava e condivideva con Bruno Porcu, il nostro volontario che nel settore a piano terra dirigeva il nostro Centro di Accoglienza. Furono loro che abbatterono le mie ultime resistenze e con decisione feci la proposta ai Frati: ristrutturare il Convento per essere la prima Casa Famiglia per i malati terminali di AIDS».

Eccoci qui a contabilizzare oggi nei registri morali il tempo trascorso: la casa conventuale riconvertita ad un’alleanza disperata con la vita e per la vita – grande, grande opera dei francescani sardi e dei loro esponenti più avanzati – ha compiuto nel giugno scorso i suoi primi vent’anni (ad aprile se si pensa ai primi arrivi), ma Bruno Porcu l’abbiamo perduto e pianto. Perduto come tanti da lui accolti, pianto come loro, con tutta Partenia, la città della sofferenza giovanile.

Nella collana editoriale, ormai storica, di Partenia in Callari, e precisamente nell’edizione del 1998-1999, detti spazio, ovviamente all’iniziativa appena sbocciata nella città sorella della mia ed affidata in prima battuta alle cure di suor Angela Pedduzza, successivamente di Pinuccio Cannas e di altri ancora nel tempo.

Marco Ladu, un validissimo operatore della casa, passato successivamente a dirigere la comunità di S’Aspru, mi offrì allora uno scritto di cronaca e insieme di partecipata testimonianza all’avventura della Casa Famiglia, un articolo che pubblicai con grande risalto e che qui appresso, nella ricorrenza del ventennale, ripropongo.

Potei io stesso, anni dopo, scriverne, aggiornando qualche dato. Fu in MappaMondo X (n. 1 del 2003), il bel notiziario curato da Luigi Alfonso: “Un Albergo di vita per condividere il coraggio e la speranza”. La replicai in Partenia, la Comunità, un volumetto che detti alle stampe nel 2005, per donarlo agli amici (e in blocco agli exallievi salesiani in occasione di un incontro con padre Salvatore Morittu fresco ancora di compleanno, il felice 70°).

Nel mezzo, anche una mia lettera a padre Morittu, i cui contenuti pienamente confermo a distanza ormai di tanto tempo dacché la scrissi e per la prima volta diffusi.

Eccoli dunque tutti questi testi, che valgono qui, nelle intenzioni, a celebrare il bel vissuto – bello certo, ma anche quanto faticoso e doloroso in infinite circostanze! – della Casa Famiglia ed anche però ad onorare la memoria di Bruno Porcu, samaritano generoso e fecondo, sempre misurato e sempre all’altezza dei bisogni.

 

Marco Ladu: «La casa dei tanti, per la vita»

«Ho visto, Signore, il mare cupo e furioso. Ma era vivo e voleva dimostrarlo al mondo intero».

Quando San Francesco capì che la sua vita doveva essere al servizio del povero e dell’emarginato, forse fu preso per matto e furono in molti a non capirlo. Ma la coerenza con la quale perseverò nella sua nobile missione seppe conquistargli il favore della gente e col tempo si formò un folto gruppo d’adepti che lo seguì, ascoltandolo ed amandolo.

Sono passati oltre sette lunghi secoli, ed oggi alle soglie del ventunesimo secolo è ancora abbastanza difficile far capire alla gente che sono sempre i poveri e gli emarginati ad avere più bisogno d’aiuto. A volte pare che la società si dimentichi o si rassegni a che nel suo seno vivano delle persone più bisognose di altre, e che spesso tali persone, per loro stessa volontà, s’isolino ancora più e si rinchiudano nei loro problemi fino a cadere nell’oblio: un oblio da cui è poi difficilissimo uscire.

Si torna, in verità, nel momento in cui tutto appare irrimediabilmente compromesso e tutte le strade sembrano chiuse, ed è la disperazione quindi a dare la forza per riemergere dal torpore, almeno quel tanto che basta per gridare un’invocazione d’aiuto.

Per gli “altri” – per “noi” – è proprio questo il momento più importante: farsi trovare pronti nel momento esatto in cui il bisogno chiama. San Francesco questo l’aveva capito e, dall’alto della sua umiltà, aveva fatto in modo che tanti altri potessero capire.

Sono riflessioni che portano all’oggi. E’ infatti nell’interno di un convento francescano che “nasce” una nuova realtà nel segno della solidarietà: quella casa che è stata aperta, a Sassari, il 28 aprile 1998 per offrire accoglienza ai malati “avanzati” di AIDS. C’è voluto tempo, ma l’opera adesso c’è, concreta, di mattoni e soprattutto di persone. Sì, secondo l’insuperato esempio di San Francesco, una nuova e modernissima sfida alla società silenziosa, distratta e rassegnata. Sarà utile, adesso, ripassare le tappe del lungo cammino compiuto…

Padre Dario Pili, provinciale dei Frati Minori della Sardegna, capì – ora sono molti anni – che era giunto il momento di rispondere al grido d’aiuto lanciato da molti, e di proseguire quindi nell’iniziativa avviata dal suo lontano nobile precursore: aiutare i poveri e gli emarginati del ventesimo secolo, i più detestati forse, i drogati. Chiese allora ad un suo giovane Frate, tale Salvatore Morittu da Bonorva, di fondare e gestire, impegnandosi a tempo pieno, una comunità per il recupero appunto dei tossicodipendenti. Padre Morittu ignaro probabilmente delle conseguenze che una tale opera avrebbe potuto avere, accettò e diede così vita alla prima comunità di recupero in Sardegna. Una parte del convento di San Mauro a Cagliari fu donata dai Frati per ospitare i ragazzi che già numerosi chiedevano l’accoglienza.

Da quel giorno sono passati vent’anni e nel mondo tante cose sono cambiate. E mentre crollava il muro di Berlino, mentre l’Unione Sovietica si disgregava in tanti stati indipendenti l’uno dall’altro, mentre nasceva l’Unione Europea, mentre il Terzo mondo scadeva al quarto, anche le persone dell’area sociale giù disagiata – quella nostra stessa locale e sarda – chiaramente cambiavano: i loro problemi si moltiplicavano invece di diminuire col decantatissimo Progresso che tanto può e spesso poco ottiene.

Di pari passo dovevano cambiare (e infatti sono cambiate) anche le comunità, comprese quelle gestite da padre Morittu: cresciute di numero in rapporto all’aumentato numero di richieste, e in qualche modo trasformate dentro per le indubbie novità palesate dalle persone stesse impegnate nel suo programma. Certo, lo spirito non muta, non è mutato, è sempre quello di una volta, ma ora le comunità sono sicuramente più accoglienti di prima, e presentano al loro interno degli operatori volontari in numero così folto che vent’anni fa era assolutamente impensabile, vista l’ostilità con cui, al principio, si era guardato da tante parti all’iniziativa dei francescani. Ma si sa, come un artista è più apprezzato solo dopo la sua morte, così anche le opere buone tardano ad essere capite e valorizzate. E per fortuna la grande tenacia, coerenza, onestà e professionalità di padre Morittu hanno fatto in modo che lui riuscisse a trovare, giorno dopo giorno, tanti collaboratori fedeli e di alta qualificazione sia professionale che umana, mentre la gente ha sempre più trovato in lui e nelle sue attività qualcosa da apprezzare, incentivare e sostenere.

Fra i nuovi, emergenti bisogni uno dei più gravosi era (ed ancora è) l’AIDS, essendo i tossicodipendenti fra le categorie di persone più a rischio nel contrarre la malattia. Le comunità, pur con tutti i progressi scientifici e clinici degli ultimi anni, e pur con tutte le migliorie apportate nella qualità dei loro assetti interni, si sono trovate, per anni e anni, disarmate ed inadeguate di fronte a questo nuovo terribile problema, e quindi purtroppo incapaci di soddisfare le richieste di aiuto provenienti dalle persone, dai giovani colpiti direttamente, molti dei quali, appunto, passavano attraverso le comunità stesse.

Ecco dunque che padre Morittu, fedele al semplice insegnamento francescano, ancora una volta ascolta la nuova richiesta di aiuto che sale dalla società, e risponde a modo suo, cioè buttandosi a capofitto in mezzo a quella bolgia infernale creatasi nel frattempo intorno al problema AIDS, sì grande calamità per l’umanità, ma nello, stesso tempo anche occasione di vertiginoso business capace di far ruotare intorno ad esso cifre pazzesche.

Infatti l’intero mondo scientifico si prodigava, con crescente successo, alla ricerca di nuovi farmaci capaci di rallentare il decorso della malattia, ma soprattutto di un vaccino che potesse finalmente arrestarne il cammino, e la scienza, dunque (e naturalmente, si deve dire) non poteva non sposare l’industria e la sua logica.

C’era però un altro punto, non meno importante e di più immediata soluzione, ancorché sicuramente con minore “fascino” economico, su cui la società, e con essa le istituzioni, non hanno certo creduto di dover impiegare troppe energie: trovare o costruire delle strutture capaci di offrire ospitalità ed assistenza alle persone affette da AIDS. E per contro è proprio in questo settore che padre Morittu ha dunque cercato di sfruttare le sue energie, sognando e progettando una casa con tutte le caratteristiche di idoneità, sia assistenziali (anche e soprattutto in termini di rapporto umano) che di funzionalità strutturali, per ospitare i giovani (ed eventualmente anche meno giovani) affetti da AIDS. È storia di questi ultimi tre anni.

I lavori, dall’antico spunta il moderno

Si capisce che per poter attuare un simile progetto, occorrano molto denaro e molte persone che si impegnino attivamente. Se poi pensiamo che da sempre padre Morittu porta avanti le sue iniziative col solo aiuto della Provvidenza, se ne deduce subito che l’impresa è destinata ad essere quanto mai ardua. I suoi Frati, però, ancora una volta gli sono, per primi, “provvidenzialmente” vicini, non solo avvalorando moralmente e spiritualmente l’iniziativa appena avviata o soltanto enunciata, ma, come era accaduto per la prima comunità di San Mauro a Cagliari, offrendo la loro stessa casa, mettendola a disposizione dei più bisognosi. E qui veramente inizia la fase del passaggio dal progetto all’opera.

Un’ala del convento di Sant’Antonio Abate a Sassari, il suo giardino ed uno stabile adiacente, ex casa Masala, vengono demoliti o radicalmente ristrutturati per poter edificare dei locali idonei all’uso progettato.

Al posto della malandata casa Masala viene costruito un edificio di due piani più una piccola mansarda in cui sono ubicati gli ambienti da destinare ai servizi (cucina, lavanderia, depositi, ecc.) ed agli impegni quotidiani (sala TV, refettorio, ambulatorio, segreteria, ecc.). Nell’ala forse più antica del convento, intelligentemente restaurata, viene invece ricavato lo spazio per le confortevoli camere da letto, che prendono così il posto delle austere “celle” dei Frati. Nessun particolare viene trascurato, dagli impianti elettrici a quelli del riscaldamento, all’approntamento di un certo numero di servizi igienici per la pulizia sia personale che della casa stessa.

Mentre si fa occorre anche pagare. I costi sono alti, sfioreranno alla fine i due miliardi [di lire]. Come fare? È risaputo che se non si chiede, difficilmente si può ottenere qualcosa. E padre Morittu anche in questo campo è un grande esperto, e non si stanca mai, perciò, di chiedere. Lo fa col sorriso ma con serietà estrema, con dolcezza e crudezza, “sbattendo” in faccia a tutti la necessità sociale delle sue iniziative e le difficoltà che quotidianamente deve superare per far sì che esse vadano avanti.

Per poter finanziare, tale opera ha ideato un programma, “Progetto Ariele” a cui chiama a partecipare numerose persone, ed il cui intento è quello di recuperare fondi per permettere il completamento della costruzione della casa. Sono organizzati concerti, rappresentazioni teatrali, gare sportive, è aperto un conto corrente sponsorizzato da “La Nuova Sardegna” e nell’occasione della Cavalcata Sarda si fa grande pubblicità a favore della erigenda Casa-Famiglia, così come il giornale non si stanca di sensibilizzare i suoi lettori, pubblicando di tanto in tanto l’ammontare dei fondi raccolti e precisando quanto ancora c’è da raccogliere; determinante, comunque, si rivela l’apporto dei singoli, dei soliti anonimi che instancabilmente fanno pervenire il loro aiuto.

Contemporaneamente alla costruzione della casa, ci si adopera per la “costruzione” di un gruppo di volontari che possa operare fin dall’inizio all’interno della casa. Viene quindi ideato un corso per la loro formazione, con l’approvazione del Ministero della Sanità, dell’Istituto Superiore di Sanità, della Commissione Nazionale per la lotta contro l’AIDS, e la fattiva collaborazione della divisione ospedaliera di Malattie infettive di Sassari. Le richieste di partecipazione, grazie anche alla pubblicità fatta dal quotidiano locale, sono notevolmente superiori alle più rosee previsioni, prova sempre più gradita che il progetto procede al meglio e riscuote un crescente seguito. È dunque necessaria una cernita per poter comunque includere nel corso di formazione fino a quaranta persone, dieci in più del numero originariamente previsto, ma molte meno rispetto alle richieste pervenute. Le lezioni, ben organizzate e sempre interessantissime, danno i loro frutti riuscendo ad informare e formare i partecipanti circa le nozioni di base, pratiche e teoriche, riguardanti il problema sanitario (anche dal punto di vista psicologico), ma dando soprattutto modo ai componenti il gruppo stesso di potersi conoscere ed affiatare.

Questa coincidenza della costruzione della casa con la formazione dei volontari ha indubbiamente arricchito la già splendida atmosfera che, ogni giorno di più, si va creando attorno alla Casa-Famiglia. È bello infatti vedere la casa-struttura che pian piano prende forma definitiva, e nello stesso tempo vedere crescere quelle persone che un domani avranno l’onere e l’onore di animarla, renderla viva.

Ad impreziosirla ulteriormente, anche sotto il profilo materiale, ci pensano poi anche i ragazzi della Comunità di padre Morittu che realizzano nei laboratori di falegnameria e metallotecnica di Camp’e Luas tutti gli infissi, mentre diversi mobilieri della provincia di Sassari contribuiscono con l’arredamento. Si arriva così al giorno dell’inaugurazione. La casa è ormai pronta ad accogliere i primi ragazzi.

Nell’ora “fatidica” si legge negli sguardi di tutti quelli che hanno contribuito, in un modo o in un altro, all’attuazione del progetto, una grande emozione ed una grande gioia. Alla cerimonia intervengono oltre alle autorità locali e regionali, un folto numero di amici del promotore ed anche padre Eligio, fondatore dell’Associazione Mondo X, alla quale padre Morittu si è ispirato fin dall’inizio della sua attività nel campo dell’emarginazione giovanile.

L’apertura ufficiale della Casa-Famiglia Sant’Antonio Abate a Sassari arriva la mattina di sabato 28 aprile 1998. Il sogno è divenuto realtà, la casa sicuramente vedrà tanta sofferenza ma basterà, speriamo, un solo attimo di gioia per dissiparla; ci saranno malumori, tristezze e problemi, ma l’arma migliore per combatterli sarà la comprensione, il sorriso e la certezza che si sta facendo un qualcosa che rende nobile l’animo dell’uomo.

Chissà poi che un giorno non troppo lontano, io stesso – che ho dato una mano, piccola ma comunque utile, a tutto questo ormai realtà tangibile -, già diventato nonno, non mi trovi qui insieme ai miei nipotini, a scrivere delle novità intervenute nostra Casa-Famiglia, magari divenuto luogo dove possono essere accolti anziani e bambini bisognosi insieme, e che le sofferenze prima ospitate, sconfitte per sempre dalla scienza e dall’amore, abbiano lasciato spazio a quella cosa a volte tanto trascurata ma sempre bellissima che è la Vita. «Ho visto Signore il mare limpido e sereno, felice di poter bagnare le sponde della sua amica e sorella terra».

Dal mio “Partenia, la Comunità”: Un Albergo di vita, il primo in Sardegna

L’originale idea della casa famiglia per i malati gravi di AIDS, inaugurata a Sassari il 27 giugno 1998, è raccontata in un articolo poeticissimo, ricchissimo di spiritualità cristiana e francescana, di padre Dario Pili apparso su “Libertà” il 3 gennaio 1997: «A che servono i frati, ormai sempre più ridotti di numero, scavalcati da nuovi movimenti e progetti di vita e di impegno evangelico? A che servono i conventi sempre più vuoti?… Che farne? Che fare?… si tratta di un segno… Segno non di fine, non di morte. Ma una proposta, un inizio del futuro, del resto, come la morte, che non esiste come fine, ma come inizio… Nessun chicco di grano, se ben seminato e non calpestato, muore; sembra marcire ma è feto… Sta per diventare spiga, pane e festa. Il futuro è tutto lì: dentro quel movimento di corrosione; trame di ragnatele e giochi di muffe: ma non è agonia, è gestazione. Basta saper iniettargli lo spirito».

Il merito storico dei minori francescani sardi, dei loro provinciali e del loro “delegato agli azzardi” – padre Salvatore Morittu – è tutto in questo scorgere i “segni dei tempi” ed assumerli come cantiere in cui impiegare il meglio della propria umanità. I conventi cadenti – come San Mauro o quello sassarese di Sant’Antonio abate –, al pari delle ville diocesane cadenti o dei convitti pubblici cadenti, non appartengono a proprietari registrati nelle Conservatorie immobiliari, ma ai poveri, ai “lebbrosi”, a noi che, più bisognosi ancora, ambiamo essere loro compagni.

È stato un progetto che è costato, a tradurlo in realtà, quasi due miliardi pescati lira per lira dalla generosità di tanti il cui nome è rimasto per lo più ignoto. Concerti e prosa teatrale, gare sportive e sfilate di moda, e mille altre occasioni ancora (Cavalcata sarda inclusa) inventate dalla fantasia di “chi ci crede veramente”, tutto ha funzionato da catino di solidarietà. A Sassari, ad Alghero, a Cagliari, in tante altre parti della Sardegna invitate ad occuparsene. C’è chi ha dato soldi, chi materiali per l’edilizia, chi forniture idrauliche o elettriche, chi i mobili, chi il lavoro… I ragazzi di Campu’e Luas (falegnameria e metallotecnica) hanno offerto gli infissi.

Sono 785 metri quadri coperti e 1, 145 aperti, 7 camere con servizio al primo piano dell’ala convento, altre due nel sottotetto della adiacente ex casa Masala. Nel cuore storico del capoluogo turritano una casa vera è sorta, albergo di vita nel segno evangelico della condivisione. Ha accolto finora almeno 20 “militanti della sofferenza”; in 6 – Enzo, Maria Pia, Diana, Franca, Tore, Robi – hanno dovuto soccombere, in questo primo lustro, a un male troppo avanzato per poterlo sconfiggere, ma essi sono presenze la cui memoria non fa male a nessuno, anzi sembra stimolo a un recupero pieno, ove sia stata smarrita o indebolita, della qualità della vita interiore e di relazione, in una stagione che certo è di sofferenza e di appello.

Sono dieci, oggi, gli “ospiti”, nessuno dei quali viene da esperienze comunitarie (il decano è Roberto, esperienze “da romanzo” in Olanda…). Trascorrono le giornate, fra le cadenze varie delle terapie, occupandosi del giardino, cliccando al computer o modellando nel laboratorio di ceramica. Anche le più recenti mostre dei manufatti comunitari hanno offerto all’attenzione del pubblico un’oggettistica varia che racconta dell’applicazione e anche dell’abilità, che è cosa reale, di quella microporzione di Sardegna (le provenienze sono le più varie) che popola gli spazi già vissuti, in antico, dai frati serviti di Maria.

Non sono rare le gite che coinvolgono, quando possibile, l’intero gruppo. Talvolta associati ai ragazzi della vicina comunità di S’Aspru, gli “antoniani” di Sassari puntano decisi ora ad un complesso nuragico o altro sito archeologico del capo di sopra ora al mare di Badesi, oppure a Foresta Burgos, ad un santuario barbaricino o logudorese (ma anche a Lourdes!), ai cortei carnascialeschi di Viddalba…

La responsabilità della casa, affidata inizialmente alla vincenziana suor Angela Pedduzza, è nelle mani adesso di Pinuccio Cannas. Con lui collabora Marco Ladu (che ha gestito l’organizzazione dei corsi di formazione dei volontari approvati dall’Istituto Superiore di Sanità e dalla Commissione nazionale per la lotta contro l’AIDS ed attuati d’intesa con la divisione Infettivi dell’ospedale civile di Sassari), mentre dell’équipe fanno parte anche altri 7 operatori (inclusi 2 infermieri professionali e una cuoca dipendenti della cooperativa Ariele). Ma con loro sono almeno una ventina i volontari che, come detto, offrono la loro opera guidando le varie attività di gruppo, lezioni di cultura generale o ginnastica comprese.

I problemi, ogni giorno nuovi, sono un’infinità. Ma la voglia di superarli vince sempre, ogni giorno.

Lettera a Salvatore Morittu, operaio fantasioso

E questa è la lettera che pubblicai in Partenia in Callari ora sono già quasi due decenni. Non ho che da confermare tutto. Credo che padre Morittu rappresenti un autentico gigante della storia sociale della Sardegna del Novecento. Ma non serve a niente dirglielo, né credo lo gradirebbe. Egli è un uomo che del dovere ha fatto una religione vera e ordinaria, perché ne ha trovato le ragioni nella Sequela cristiana e francescana in cui ha collocato la sua vita. Non è un proselitista, è – come avrebbe detto papa Benedetto – un cristiano che va “per attrazione”, s’è fatto attrarre, attrae a sua volta con il tanto della sua bisaccia, delle sue scarpinate – quanti anni su e giù tutti i giorni per la 131! – e un’agenda più piena di quella di un capitano d’industria. Predica spiegandosi quando gli vien chiesto, soprattutto predica facendo bene il bene. Sembra poco ed è tutto.

Ho condiviso con lui molto, è stato uno dei maestri-fratelli della mia vita.

Salvatore carissimo,

ci sopravvivranno le nostre opere. Di te, quando sarò finito il tuo tempo, resterà il merito sociale, umanitario e civile delle tue opere. La loro concretezza ed il messaggio come di esempio che esse contengono: si può fare, sempre si può fare, se si vuole fare.

Perché un alleato che non abbandona, che non tradisce, c’è immancabilmente: manovale che potrebbe essere architetto, e ingegnere e capo cantiere, e lascia a te invece la possibilità di firmare i progetti, tagliare i nastri e prendere gli applausi.

Non sei un santo venerabile, padre Morittu, ma un cristiano di confessione francescana, laico per statuto (laico! diffidente dei sinedri comunque pavesati). Un cristiano che ha soltanto dato compimento a quanto la propria vocazione gli imponeva come dovere “ordinario”.

Hai risposto alla chiamata, non hai fatto altro. La tua chiamata è stata quella di ridare la vita a mille fratelli giovani che hai accolto come figli quand’erano smarriti, per rispedirli quindi nella società ad annunciare, come nuovi apostoli, che la solidarietà è il linguaggio comune di credenti e non credenti, che i tesori evangelici sono il sale ed il lievito, non le gerarchie e le bolle canoniche.

Mi onoro di averti conosciuto, ma non ti celebro. Un marziano sì che mi sorprenderebbe. Tu, invece, sei di razza conosciuta, razza umana, non speciale. Sei un povero frate, uno dei tanti che la Sardegna ha generato nei secoli, saranno forse stati mille, o diecimila, chissà… Non mi sarei aspettato da te cose diverse da quelle che hai fatto e stai facendo, e che ti sopravvivranno quando sarai convocato a prenderti il tuo salario di servo buono e fedele. Ma, appunto, servo “ordinario”.

E però te lo devo comunque almeno sussurrare: sei bravo davvero, padre Morittu. Bravo perché hai fatto, finora, molto di più di quello che hai detto. E sì che hai detto, che hai parlato! Le tue parole non hanno però mai sopravanzato le tue azioni di carità. Intendiamoci: carità! la carità cristiana che è civiltà sociale ed umanitaria, senso di responsabilità e di partecipazione all’altrui destino, mai moneta pagata per un volgare scarico di coscienza.

L’AIDS nel quale tu pure, e ben prima di me, ti sei imbattuto, è stato il “problema” che ti ha tenuto insonne per molte notti, e inquietato nelle ore del giorno. Abbiamo condiviso molti pensieri, e sentimenti, e affanni, e propositi in questi anni, neppure pochi, quando ci siamo visti togliere di mezzo – come in un perfido gioco surreale – un interlocutore, un’amica, un compagno, un figlio e fratello. Io mi sono orfanato quattrocento volte, e tu nell’intimità delle tue case di San Mauro, e Campu ‘e Luas, e S’Aspru quante altre… Rabbia e pianto, lo sfogo di una emozione e poi…, no mai l’invettiva al Cielo, ma il capo chino eppure dignitoso e fiero di Giobbe, le sue domande e il suo piegare il ginocchio davanti al Signore della vita e della morte…

Che esperienza abbiamo vissuto, caro Salvatore. Tu hai saputo rispondere con un rinnovato programma di vita. Servendo i nuovi poveri, sia la tua opera sassarese e sarda in onore di tutti quelli che abbiamo perduto e che desideriamo, insistentemente desideriamo, reincontrare, quando sarà…

Un concerto, un convegno, una messa

Dunque siamo adesso alle ricorrenze. Per ripensare ed onorare vent’anni di vita sociale, per ritendere la mano, pubblicamente, a padre Paolo Cocco ed a Bruno Porcu oggi in benedizione, è stato preparato un programma in tre tempi: il concerto “Laude pro sa vida”, al Teatro Verdi di Sassari, la tarda sera di venerdì 28 settembre; il convegno “Aids: destinati a vivere”, al liceo scientifico G. Spano, sempre di Sassari, la mattina di sabato 29; la messa di ringraziamento, al santuario Madonna delle Grazie, nella mezza sera dello stesso sabato.

Qualche dettaglio sul programma, all’insegna di “Vent’anni di Casa Famiglia per persone in AIDS”.

Al concerto, presentato da Giacomo Serreli, si esibiranno il coro Amici del canto sardo diretto da Salvatore Bulla, la Compagnia danza estemporada con le coreografie di Livia Lepri, il recitante Sante Maurizi (“Gli ultimi sognano a colori”, dal libro di Salvatore Morittu e Giampaolo Cassitta), al microfono od al piano anche Manuela Mameli, Paolo Carrus, frate Alessandro, Laura Maria Sassu (da loro, fra l’altro, il “Deus ti salvet Maria” e il “Madonna De Claritate”), Piero Marras infine con le sue “Se io potessi scrivere” e “Sa oghe ‘e Maria”.

Al convegno moderato da Maria Stella Mura, professore ordinario e già direttore dell’UOC Malattie Infettive di Sassari, interverranno come relatori sia medici infettivologi e dirigenti di strutture ospedaliere che responsabili di case accoglienti: Sergio Babudieri, Vito Fiore, Paolo Meli, padre Mario Longoni, Sandra Buondonno (attuale responsabile della Casa Famiglia sassarese), don Dario Viganò (assessore della Comunicazione sociale vaticana), padre Salvatore Morittu.

La messa di sabato sarà presieduta dall’arcivescovo don Gian Franco Saba – ultimo successore di quei grandi presuli che hanno intensamente amato l’opera francescana nel Sassarese, da don Paolo Carta (tutto cuore! fu lui a concedere di slancio, nel 1982, la villa Murgia di S’Aspru ai minori osservanti della provincia) a don Salvatore Isgrò (che per S’Aspru e la Casa Famiglia ebbe una predilezione crescente nel tempo) – e partecipata da vari presbiteri turritani, arricchita dal coro Gioacchino Rossini diretto da Clara Antoniciello.

 

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