Giove pluvio odia la Mem. Alla prossima… di Gianfranco Murtas

Non si possono fare paragoni con la tragedia genovese, è chiaro; per questo, sfidando l’impossibile, bisogna farli, con leggerezza e insieme sentimento partecipativo, in logica tutta civica. Per quel che ci può essere stato dietro, nascosto ma concreto e sgradevole in entrambi i fenomeni, a Genova e a Cagliari, non certo per la portata del disastro e le sue conseguenze. Tutto potrebbe riassumersi nella sensibilità informativa o, meglio, nella mancata sensibilità informativa della autorità comunale circa quel che accade e diventa problema per la cittadinanza. Piove da noi, piove più del normale tutto in una volta e inonda dal basso e dall’alto una struttura chiamata Mem – Mediateca del Mediterraneo – non moderna ma ricostruita modernamente ora saranno dieci anni, bellissima, su un’area di grande storia prima sportiva poi commerciale, sempre sociale: una struttura che è uno scrigno di preziosità documentarie oltre che di dotazioni tecnologiche al servizio corrente della comunità. Non soltanto della comunità degli studi – degli studenti come degli studiosi – ma dell’intera città e dei suoi ospiti, con i molti libri e i suoi terminali telematici, i computer, i tavoli di studio personale e collettivo, i suoi salotti e le sale nell’open space (purtroppo esposto anche ai rischi episodici di slealtà civica, delle sottrazioni lanzichenecche e degli usi universali delle toelette alternativi a quel che manca e continua a mancare nella città… a vocazione turistica).

Ma il tetto era bucato e bucato è rimasto, con teloni precari e i catini di supporto eventuale, da due anni, per rispondere a Giove pluvio irritato con noi. Cosa poco dignitosa per la città candidata (o essere stata) candidata capitale europea della cultura. Tutto rimane a rischio, ma soprattutto la città ignora dalla autorità comunale, dal signor sindaco in prima persona, perché la struttura che è nuova nel suo rifacimento e nella nuova chiamata sia anche così persistentemente debole. Come sono stati fatti i lavori, chi li ha fatti, perché li ha fatti così? Responsabilità tecniche, dei progettisti? dell’ufficio Tecnico comunale? di chi ci ha messo mano, interno o esterno all’Amministrazione? Perché insinuare il dubbio su chi è estraneo al malfatto ed innocente? Ce lo si dica, perché è stato speso denaro pubblico, denaro che è il controvalore della fatica sudata nella quotidianità dalla cittadinanza contribuente. E parlare alla cittadinanza non soltanto alle elezioni, ma ogni giorno, è correntezza e correttezza democratica, non concessione generosa e paternalista. Tanto più, ripeto, perché il tetto è bucato e tale è rimasto e fa paura, per il tanto dei magazzini storici esposti alla capacità di resistenza dei teloni precari, soluzione d’urgenza buona per una settimana non per mesi o per anni addirittura. Né vale ridimensionare, derubricare, accennare ai duecento metri problematici sui due chilometri di scaffalature, perché se ci sono voluti, a suo tempo, sei mesi per rimediare ai duecento metri offesi, quanti ce ne vorranno ancora se Giove pluvio replicherà l’inimicizia e allargherà lo sfascio?

E dove stanno i consiglieri comunali di maggioranza e quelli di controllo della opposizione? Quelli della commissione cultura hanno visitato la struttura, hanno approfondito e chiarito, hanno presentato qualche interrogazione mirata? Io, civis quidam, ci ho tentato di chiederlo anche ai gruppi consiliari di destra e di sinistra, ma quando un democratico si trova davanti una città “consolare” tutta uniforme, attraversata dal filo rosso del conformismo che strozza tutti, allora purtroppo cede pure lui rassegnandosi a credere quel cui non voleva credere: che sono davvero tutti uguali, quelli che cantano l’idiotissimo ritornello “per fortuna che Silvio c’è” (nonostante l’evasione fiscale gigantesca del più grande – per autocertificazione – presidente del Consiglio dei centocinquant’anni ultimi) e quelli che si beano delle frasi fatte, insopportabili, della buonanima di Renzi. Sconfitta drammatica anche per chi ha vissuto sempre in minoranza, con il suo due per cento e anche meno. E vinceranno le 5 stelle (oggi spente anch’esse in Consiglio), e il PD e gli altri si chiederanno perché.

L’Arno di sopra e di sotto, in via Mameli (quasi sempre baciata dal sole)

I competenti hanno passato mesi ad asciugare, con il soccorso volontario e valoroso di 231 ragazzi e giovani del Michelangelo e dello Scano, dell’Einaudi senorbiese e i bambini anche, come a Firenze nel 1967, i testi di cinquanta e cento e centocinquant’anni fa di più frequente consultazione, dopo gli scrosci del settembre 2016. Il ripristino dell’archivio storico dopo svariati mesi – troppi mesi per la città candidata capitale europea della cultura –, con l’affanno e un resistente e permanente senso di precarietà che umilia tutti. Si dice – chi lo dice? – che il più sia risolto, che sia stato messo rimedio all’incidente e siano stati creati i presidi di sicurezza in caso di possibili nuove minacce, come quelle che si sono ripresentate meno d’un mese fa – ed hanno imposto un’altra chiusura e di sotto e di mezzo – e stanno nuovamente lì in agguato per annegare il sotto certamente, ma anche e drammaticamente il sopra. Sul piano degli uffici dell’assessorato alla Cultura. (Ma perché l’assessorato, o alcuni uffici dell’assessorato stanno alla Mem? Perché prendono spazi a chi vorrebbe donare e donare biblioteche ricche e varie e di valore, e non può perché… non c’è spazio. E lo spazio ci sarebbe, nonostante tutto, c’è… a volerlo trovare. Ma verrebbe da pensare che non si voglia.

Egualmente nulla si vede che possa porre rimedio “strutturale” a quel che potrà nuovamente succedere, nel piano basso, coi i suoi cavi e le sue postazioni telematiche, con le sue sale di gioco-lettura per bambini e gli altri spazi. Tombini insufficienti nella valle che introduce al tunnel? Anche. Magari tombini pieni, come pieni sono quelli di press’a poco tutta la città. La chiamano manutenzione, ma è, questa, categoria umile e tralasciata nonostante i proclami.

E comunque, quel che di più mi colpisce, resta il fatto politico, meglio il fatto democratico, di comunicazione fra l’autorità e la cittadinanza. La città non sa niente, la sua rappresentanza consiliare, i suoi consoli, presi all’ingrosso e anche al dettaglio, non dialogano, non sanno dialogare, non sanno parlare, non sanno convocare tutti e spiegare tutto per filo e per segno, l’accaduto e il rimedio, quello d’emergenza, di breve, e quello di lungo periodo. Al prossimo rinnovo amministrativo avremo i faciloni semplicisti delle stelle al governo della città. Basta così.

 

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