Preludio a una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, di SIMONE WEIL sintesi di Roberto Rondanina in “SIMONE WEIL, Mistica e rivoluzionaria” (ediz. Paoline pagg. 304-312)
La guerra, la capitolazione della Francia di fronte alla Germania nazista, la necessità di progettare un nuovo assetto politico per la Francia e l’Europa nel dopoguerra, costituiscono le occasioni per una riflessione che ambisce ad andare alla radice dei mali che affliggono la civiltà occidentale. Inutile, in questo caso come in altri, sottolineare l’intreccio tra vita e pensiero caratteristico dell’intera vicenda umana della Weil.
Simone Adolphine Weil (Parigi, 3 febbraio 1909 – Ashford, 24 agosto 1943) è stata una filosofa, mistica e scrittrice francese, la cui fama è legata, oltre che alla vasta produzione saggistico-letteraria, alle drammatiche vicende esistenziali che ella attraversò, dalla scelta di lasciare l’insegnamento per sperimentare la condizione operaia, fino all’impegno come attivista partigiana, nonostante i persistenti problemi di salute.
Sorella del matematico André Weil, fu vicina al pensiero anarchico e all’eterodossia marxista. Ebbe un contatto diretto, sebbene conflittuale, con Lev Trotsky, e fu in rapporto con varie figure di rilievo della cultura francese dell’epoca. Nel corso del tempo, legò se stessa all’esperienza della sequela cristiana, pur nel volontario distacco dalle forme istituzionali della religione, per fedeltà alla propria vocazione morale di presenziare fra gli esclusi. La strenua accettazione della sventura, tema centrale della sua riflessione matura, ebbe ad essere, di pari passo con l’attivismo politico e sociale, una costante delle sue scelte di vita, mosse da una vivace dedizione solidaristica, spinta fino al sacrificio di sé.
La sua complessa figura, accostata in seguito a quelle dei santi, è divenuta celebre anche grazie allo zelo editoriale di Albert Camus, che dopo la morte di lei a soli 34 anni, ne ha divulgato e promosso le opere, i cui argomenti spaziano dall’etica alla filosofia politica, dalla metafisica all’estetica, comprendendo alcuni testi poetici. Da WIKIPEDIA
…. Nonostante l’inappagato desiderio di partecipazione attiva al dolore della propria epoca, nonostante la debolezza fisica, il timore di sfinimento intellettuale e la mancanza di tempo, la «grande opera» costituisce uno dei frutti più originali e preziosi del pensiero della Weil e della riflessione politica del Novecento. Ciò che negli anni precedenti era stato solo presagito e adombrato a grandi linee, nel Preludio a una dichiarazione dei doveri vesso l’essere umano ha acquisito compattezza e organicità. E’ in esso, più che altrove, che prende corpo quel progetto di rinnovamento culturale e sociale che costituisce l’eredità forse più preziosa del pensiero della Weil. La guerra, la capitolazione della Francia di fronte alla Germania nazista, la necessità di progettare un nuovo assetto politico per la Francia e l’Europa nel dopoguerra, costituiscono le occasioni per una riflessione che ambisce ad andare alla radice dei mali che affliggono
la civiltà occidentale. Inutile, in questo caso come in altri, sottolineare l’intreccio tra vita e pensiero caratteristico dell’intera vicenda umana della Weil.
In considerazione dell’importanza che questo scritto, vero e proprio testamento intellettuale e spirituale della Weil, riveste in qualità di probabile chiave di lettura dell’intera opera weiliana, mi è sembrato opportuno darne una, sia pur sintetica, esposizione.
Il Preludio è suddiviso in tre parti: la prima, cui si è già accennato, dedicata ai bisogni dell’anima; la seconda, sotto il titolo di sradicamento, costituisce una analisi dei mali della nostra epoca; alla terza è affidato il compito di riflettere sulle condizioni spirituali e culturali necessarie al sorgere di una nuova forma di civiltà. Questa ultima parte dell’opera costituisce una sorta di estremo, incompiuto e appassionato appello alla coscienza di contemporanei e posteri per un impegno comune a edificare una civiltà permeata di valori spirituali.
Riprendendo le fila di quanto la Weil aveva già scritto sulla scienza, la civiltà moderna, il cristianesimo, la Roma antica e su diversi altri argomenti, ma soprattutto avvalendosi, anche se non in forma dichiarata, della propria esperienza mistica, la Weil, nel Preludio, sembra finalmente in grado di dire una parola inequivocabile e chiara sui mali del proprio tempo e su come superarli. Il sintomo più evidente di questi mali è costituito da una condizione ampiamente diffusa nella società contemporanea e definita, dalla Weil, con il termine di« sradicamento ». «Il radicamento è forse il bisogno più importante e più misconosciuto dell’anima umana. È tra i più difficili da definire. Mediante la partecipazione reale, attiva e naturale all’esistenza di una collettività che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti del futuro, l’essere umano ha una radice ». Questo «bisogno dell’ anima », se soddisfatto, costituisce la base per il libero esercizio degli altri che in numero di quattordici ( ordine -libertà – ubbidienza – responsabilità – uguaglianza – gerarchia – onore – punizione – libertà di opinione – sicurezza – rischio – proprietà privata – proprietà collettiva – verità). aveva elencato nella parte introduttiva dell’ opera”. Infatti senza questo « radicamento» in una collettività, nei modi indicati sopra, la persona umana vive in uno stato di «disorientamento» che, per una sorta di meccanica necessità, finisce col creare squilibri anche nell’ambito degli altri bisogni.
I Romani, gli Ebrei, Hitler, i Tedeschi e i Francesi contemporanei, tutti coloro che a torto o a ragione hanno giocato un ruolo, totalmente o parzialmente, negativo nel corso della storia recente o remota, sono stati accomunati dall’esperienza dello sradicamento. «Chi è sradicato sradica. Chi è radicato non sradica », afferma quasi come un assioma la Weil.
L’intera tematica nel Preludio è portata avanti su due piani fra loro collegati. Uno è quello delle cause prossime del fenomeno dello sradicamento e delle proposte politico-culturali che dovrebbero combatterlo; l’altro, più importante e probabilmente più convincente, delle cause remote del medesimo malessere: è a quest’ultimo livello che la proposta politica della Weil si salda con l’esperienza mistica e spirituale.
Per quel che riguarda il primo livello, l’analisi della Weil si sofferma su alcuni fenomeni storici e sociali tipici dello Stato moderno, quali le condizioni di vita nelle campagne, l’organizzazione del lavoro nelle fabbriche e altri, in cui lo sradicamento si è manifestato e continua a manifestarsi con particolare evidenza.
La disfatta francese di fronte alla Germania nazista viene interpretata come la conseguenza di uno sfaldamento del tessuto connettivo della nazione fatto di tradizioni, di senso di appartenenza a comunità locali, di senso della dignità del lavoro e di una religiosità in grado di permeare la vita sociale di un popolo. Le proposte della Weil, paradossalmente, vanno nella direzione di un tradizionalismo, per certi aspetti, affine a quello propagandato dal regime di Vichy alla cui politica culturale viene anche esplicitamente fatto riferimento. «Poco importa che il governo di Vichy abbia lanciato una dottrina regionalista. Il suo unico torto in materia è di non averla applicata ». Non è possibile, agli occhi della Weil, immaginare alcun progetto politico costruttivo senza un radicamento nel passato: «L’opposizione tra avvenire e passato è assurda. Il futuro non ci porta nulla, non ci dà nulla; siamo noi che, per costruirlo, dobbiamo dargli tutto, dargli persino la nostra vita. Ma per dare bisogna possedere, e noi non possediamo altra vita, altra linfa, che i tesori ereditati dal passato e digeriti, assimilati, ricreati, da noi. Fra tutte le esigenze dell’anima umana, nessuna e più vitale di quella del passato »7. Tuttavia «l’amore per il passato non ha nulla a che fare con un orientamento politico reazionario ». Proprio per questo il riferimento al passato non può certo essere nel segno di esaltazione nazionalistiche, ma nel segno della valorizzazione di tutto ciò che in esso può costituire fonte di positiva ispirazione per la vita di un popolo. È attraverso il ricupero di tutte quelle realtà intermedie – associazioni professionali, cultura popolare, collettività rurali – sacrificate progressivamente nel corso della storia moderna agli idoli dello Stato assoluto, del denaro e del progresso, che è possibile dare un orientamento positivo ai progetti politici per il futuro. . .
Fra le proposte più significative della Weil, spiccano quelle del decentramento industriale, della creazione di piccoli gruppi di lavoro operaio, della valorizzazione delle feste contadine e della creazione di nuove feste operaie. In tutto ciò, coerentemente con l’ispirazione che ha guidato la sua riflessione fin dagli esordi, il lavoro gioca un ruolo determinante: « Una civiltà fondata su una spiritualità del lavoro sarebbe il grado più elevato di radicamento dell’uomo nell’universo, e quindi l’opposto della condizione nella quale ci troviamo e che consiste in uno sradicamento quasi totale ». «Spiritualità del lavoro » realizzabile a condizione di un orientamento dell’ educazione scolastica, familiare e anche religiosa in questa direzione.
Come già in altri scritti precedenti, la Weil si sofferma sulla necessità di differenziare l’educazione scientifica per contadini e operai: «Per gli operai è ovvio che tutto sia dominato dalla meccanica. Per i contadini tutto dovrebbe avere come centro il meraviglioso circuito col quale l’ energia solare, discesa sulle piante, fissata dalla clorofilla, concentrata nelle sementi e nei frutti, entra nell’uomo che mangia o beve, gli penetra nei muscoli e si consuma per la coltivazione della terra ». Per entrambe le categorie l’essenziale è fare in modo che il lavoro diventi occasione di continuo contatto con quella Realtà assoluta che si manifesta nell’ambito dell’industria meccanizzata, attraverso le leggi della geometria e della meccanica, e nella natura, luogo dell’ attività contadina, come bellezza ed energia vitale. E solo a queste condizioni che il lavoro, diventato in epoca moderna una delle espressioni tipiche dell’alienazione e dello sradicamento dell’uomo, può tornare a essere, al contrario, strumento fondamentale di radicamento e di identificazione.
L’analisi dei «mali» che affliggono la civiltà moderna conduce la Weil, nella terza parte del Preludio) a vederne la radice ultima in una falsa impostazione di tutta la cultura moderna. «Quattro sono soprattutto gli ostacoli che ci separano da una forma di civiltà che valga qualcosa. La nostra falsa idea di grandezza; la degradazione del senso della giustizia; la nostra idolatria per il denaro e l’assenza di ispirazione religiosa». A questo punto, finalmente il discorso della Weil passa dalla presentazione dei tanti mali della nostra civiltà al «peccato originale» che a tutti questi sottostà: la separazione, tipica dell’epoca moderna, tra spiritualità e cultura, in particolare la cultura scientifica. Non potendo seguire per intero l’incalzante argomentazione della Weil, mi limiterò ad alcune esemplificazioni, che, più di altre, sembrano rivelare l’esperienza interiore della protagonista di queste pagine.
Hitler e il nazismo non costituiscono affatto, agli occhi della Weil, una anomalia storica, ma, al contrario, un prodotto, fra i più tipici, della nostra cultura, e, in particolare, della cultura scientifica. A riprova di questo la Weil cita un passo dello stesso Hitler: « .. In un mondo nel quale i pianeti e le stelle seguono traiettorie circolari, dove le lune ruotano intorno ai pianeti, dove regna ovunque la forza come dominatrice della debolezza, costringendola a servire docilmente o a spezzarsi … », e prosegue commentando: «In che modo la forza cieca potrebbe produrre dei cerchi? Non è la debolezza a servire docilmente la forza. È la forza che è docile alla saggezza eterna. Hitler e la sua gioventù fanatica non l’hanno sentito mai, guardando una notte stellata. Ma chi ha cercato mai di insegnarglielo? La civiltà di cui siamo tanto fieri fa di tutto per nasconderlo; e finché c’è nella nostra anima una parte capace di essere fiera di quella scienza, non siamo innocenti di alcuno dei delitti di Hitler ». Da qui la denuncia: la nostra civiltà è una civiltà della forza perché la nostra cultura, particolarmente a partire dall’ era moderna, è una cultura della forza e, in quanto tale, falsa. Essa non dice la verità sul mondo ma proietta, tanto sulla natura quanto sulla storia, ciò che nell’uomo è il male. Se nell’uomo il male si esprime come forza in senso negativo (violenza – oppressione – idolatria del denaro e del potere, ecc.), la realtà ultima, cui l’uomo ha per sempre la possibilità di aderire con una parte della propria anima”, è invece Amore. «Ma il pensiero che ha veramente inebriato gli antichi è l’idea che quanto fa obbedire la forza cieca della materia non è già un’altra forza più forte: è l’amore. Essi pensavano che la materia è docile all’eterna saggezza in virtù dell’amore che la fa consentire all’ubbidienza ». Ancora: «In questo mondo, la forza bruta non è onnipotente. Per natura essa è. cieca e indeterminata. In questo mondo sono onnipotenti la determinazione e il limite. L’eterna saggezza imprigiona questo universo in una rete, in rete, in una maglia di determinazione. L universo non vi si dibatte. La forza bruta della materia, che ci sembra onnipotente, non è, in realtà, se non perfetta ubbidienza”. Una scienza che non educhi l’uomo a contemplare questa eterna saggezza che è Amore è falsa, lontana dalla verità, anche se in grado di produrre sorprendenti risultati tecnologici: è una scienza della forza destinata a determinare effetti devastanti per l’uomo. Ma non è tutto; con accenti spinoziani la Weil precisa: «Tutti gli eventi che compongono l’universo nella totalità del corso dei tempi, ognuno di questi singoli eventi, ogni possibile complesso di vari eventi, ogni rapporto tra due o più eventi, fra due o più complessi di eventi, fra un evento e un complesso di eventi – tutto questo, in egual misura, e stato permesso dalla volontà di Dio ».
Solo il male che l’uomo può deliberatamente compiere si sottrae a questo ordine di eventi: «Solo quello che è male può esserne eccettuato; e anche questo non interamente e sotto ogni punto di vista, ma solo nella misura in cui è male. Sotto ogni altro aspetto è conforme alla volontà di Dio ». Infatti «la Divina Provvidenza non è un turbamento o una anomalia nell’ordine del mondo. È l’ordine stesso del mondo. O meglio, è il principio ordinatore di questo universo. E la saggezza eterna, unica, dispiegata attraverso l’universo intero in una sovrana rete di rapporti ». E di fronte a questa saggezza che ovunque pone dei limiti alla forza che «l’ondata tedesca si è fermata, senza che nessuno abbia saputo perché, sulle rive della Manica ».
Contraria a una concezione miracolistica della Provvidenza secondo la quale Dio interverrebbe nelle vicende del mondo, sospendendone le leggi per indirizzarle verso fini particolari, Simone concepisce la Provvidenza come ordine impersonale del mondo che è amore proprio perché impersonale. Il passo dei Vangeli che Simone ama citare, a riprova che questa concezione è anche quella del cristianesimo, si trova in Matteo 5,45: «Siate figli del Padre vostro che è nei cieli, perché fa splendere il sole sui cattivi e sui buoni e fa cadere la pioggia sui giusti e sugli ingiusti… Siate dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste». Degno di rilievo il commento che segue: «Dunque la cieca imparzialità della materia inerte, quella spietata regolarità dell’ordine del mondo, affatto indifferente alla qualità degli uomini e quindi accusata tanto spesso di ingiustizia, proprio questa viene proposta all’anima umana come modello di perfezione. E un pensiero così profondo che nemmeno oggi siamo capaci di intenderlo; il cristianesimo contemporaneo lo ha completamente perduto ». Persuasa che la contemplazione di questa sapienza costituisca il compito della scienza, della filosofia e della religione, la Weil ritiene che solo una cultura con questo orientamento spirituale possa costituire la base per la creazione di una nuova civiltà, non più della forza, non più alienante, ma in cui la più genuina ispirazione cristiana, depurata «dalla sozzura romana », possa permeare l’intera vita di una società.
Quale è, invece, la situazione attuale della cultura? «Lo spirito della verità è oggi quasi assente dalla religione, dalla scienza e da tutto il pensiero … Il rimedio è quello di far ridiscendere fra noi lo spirito di verità; innanzi tutto, nella religione e nella scienza; con la conseguenza della loro riconciliazione». Cosa avrebbe prodotto la deleteria separazione tra religione e scienza? La sintesi storica proposta dalla Weil nell’ultima parte del Preludio è fortemente suggestiva anche se non sempre convincente nei particolari.
Presso i Greci la scienza di matrice pitagorica era contemplazione della sapienza divina nel mondo, «i Greci la consideravano come studio religioso». Con il dominio romano, la scienza greca sparì completamente: «Se ne venne trasmessa memoria al Medioevo, fu merito del pensiero cosiddetto gnostico, in ambienti iniziatici ».
In seguito con il Rinascimento «la scienza greca risuscitò pubblicamente all’inizio del Cinquecento … in Italia e in Francia. Si sviluppò prestissimo e prodigiosamente e investì tutta la vita dell’Europa ». Tuttavia, «come in certe fiabe, quella scienza ridestata dopo quasi due millenni di letargo non era più la stessa … Era un’altra, assolutamente incompatibile con qualsiasi spirito religioso. Per questo oggi la religione è una pratica della domenica mattina. Il resto della settimana è dominato dalla mentalità scientifica ». Da qui quella mancanza di unità così tipica dell’uomo moderno e di cui il medesimo è così poco consapevole: se la scienza moderna non vede nella natura che un insieme di forze cieche, tutto ciò che la morale, l’arte, la religione ispirano di bene e di bello nel cuore dell’uomo, non avendo diritto di esistenza nel mondo, non può che essere relegato nell’ ambito del privato. Da questo punto di vista ogni «sistema totalitario bruno, rosso o di altro colore », con la legittimazione della forza che li caratterizza, sarebbe molto più in linea con la scienza moderna di altre forme di organizzazione politica. Per questo i regimi totalitari danno all’uomo quella «solida illusione di unità interiore », che costituisce «una tentazione così forte per tante anime smarrite ». Ancora alcuni passi significativi: « Il fenomeno moderno della irreligiosità popolare si spiega quasi interamente con la incompatibilità tra scienza e religione … Le chiese si sono vuotate quasi esclusivamente a causa della scienza» . A questo punto l’ argomentazione della Weil sembra capovolgere il rapporto causa-effetto tra scienza e religione. Se la scienza, risorta materialista, in epoca moderna, ha progressivamente « svuotato le chiese », ciò è stato possibile perché nell’intervallo che separa la scienza greca dalla sua abnorme rinascita nel Cinquecento «era avvenuta una trasformazione della religione ». Il cristianesimo, divenuto religione ufficiale dell’Impero Romano, contaminato da quella idolatria della forza, comune retaggio di romanità ed ebraismo, avrebbe fatto di Dio «l’equivalente infinito di un romano proprietario di schiavi », che arbitrariamente potrebbe decidere di sospendere le leggi della natura, come nel caso dei miracoli. Drastica la conclusione: «Questa è l’idea di Dio che di fatto domina una parte del cristianesimo e che contamina come un marchio forse più o meno tutto il cristianesimo, tranne i mistici » e che ha finito col relegare la religione nell’ ambito del privato, lasciando libero spazio a una scienza priva di spiritualità di definire la successione degli eventi del mondo in termini di una cieca concatenazione di forze. Al contrario, la genuina concezione evangelica della Provvidenza, che riluce particolarmente in alcune celebri parabole di Gesù, sarebbe del tutto in linea con il pensiero greco, con le diverse tradizioni orientali e «perfettamente adatta a essere l’ispirazione centrale di una scienza perfettamente rigorosa ».
Con toni nostalgici la Weil ricorda che «tutta l’umanità visse una volta abbagliata dal pensiero che l’universo nel quale ci troviamo non è altro che perfetta ubbidienza ». Per accorgercene occorre « una attenzione elevata e pura che parte da un punto dell’anima non sottoposto alla forza. Nell’anima umana è sottoposto alla forza ciò che è dominato dai bisogni. È necessario dimenticare ogni bisogno per concepire i rapporti nella loro immateriale purezza ». Concepirli in questo modo significa comprendere che «le forze di questo mondo sono sovranamente determinate dalla necessità; la necessità è fatta di rapporti che sono pensieri; per questo la forza che domina in questo mondo è sovranamente dominata dal pensiero ». La scienza moderna vede ovunque, in natura, sovrana la forza: a essa corrispondono una cultura e una prassi politica dominate in larga misura dalla forza. La scienza antica vede ovunque, in natura, sovrana la Sapienza Eterna che pone limiti alla forza, e la cultura che vi corrisponde è una cultura del limite e dell’armonia. A questo punto la scienza della natura si salda con la scienza dell’ anima e quella sociale. Infatti: «L’uomo è una creatura pensante; sta dalla parte di ciò che comanda alla forza … Finché l’uomo. sopporta di avere .l’anima occupata dai propri pensieri, dai propri pensieri personali, è interamente sottoposto, fin nel fondo dei suoi pensieri, alla pressione dei bisogni e al gioco meccanico della forza. Se crede che così non sia, si sbaglia. Ma tutto muta quando, in virtù di una attenzione autentica, egli vuota la propria anima per lasciarvi penetrare i pensieri della saggezza eterna. Porta allora in sé quei medesimi pensieri ai quali è sottomessa la forza ». A questo livello «l’investigazione scientifica è appena una forma della contemplazione religiosa ». Così era per i greci e così potrebbe essere ancora, se solo si fosse disponibili ad aprire la scienza con i suoi simboli, le sue leggi, alla dimensione del sovrannaturale: «Dal pensiero moderno alla saggezza antica la strada sarebbe breve e diritta, purché la si volesse intraprendere »; in seguito: «Quindi, non solo la matematica, ma tutta la scienza, senza che nemmeno pensiamo ad accorgercene, è uno specchio simbolico delle verità soprannaturali ». Accorato l’appello finale: «Se le scienze dell’uomo fossero così fondate su metodi di rigore matematico e, al tempo stesso, tenute in rapporto con la fede; se nelle scienze della natura e nella matematica l’interpretazione simbolica riprendesse il posto che aveva una volta, apparirebbe luminosa l’unità dell’ordine stabilito nel nostro universo ». Questa dovrebbe essere la cultura in grado di ispirare una civiltà nuova che, rinnegando l’idolatria della forza, della potenza economica, dello Stato assoluto, fosse in grado di tessere rapporti di giustizia tra le persone e le classi sociali, di costruire un’autentica civiltà del lavoro e di permeare le proprie creazioni e la vita sociale di un popolo, di quella Verità, Amore e Bene assoluti, che è compito tanto della religione come delle scienze e della filosofia contemplare e far «discendere» sulla terra sotto forma di prassi politica.
In un frammento del periodo di Londra scritto su di un piccolo foglio malconcio troviamo: «L’unico rimedio per la disoccupazione è di costruire. Ma costruire cosa? L’unica cosa che possiamo costruire è una civiltà. Nuova in rapporto al caos spaventoso finito in un incubo. Antica di spirito. Vivente. Se possiamo … ». Purtroppo, conclude la Weil nella parte finale del Preludio, «oggi la scienza, la storia, la politica, l’organizzazione del lavoro, persino la religione, per la parte che è abbruttita dalla sozzura romana, non offrono al pensiero dell’uomo se non la forza bruta. Questa è la nostra civiltà. È un albero con i frutti che si merita ».
È difficile dire se i superiori della Weil fossero al corrente delle idee esposte nel Preludio; con tutta probabilità la domanda di Philip: «Perché non affronta cose concrete? », rivelava uno stato d’animo di estraneità rispetto alla prospettiva con cui affrontava i problemi politici Simone, probabilmente largamente condiviso nell’ambiente di France Libre.
Lo sforzo immane cui si sottopose la Weil nei mesi di Londra, forse presagendo che la vita le avrebbe concesso ancora poco tempo, per elaborare tanti progetti politici e mettere per iscritto il « deposito» di idee di cui avvertiva di essere portatrice, non poteva non compromettere definitivamente la salute di un organismo già debilitato.
Il 15 aprile 1943 fu trovata svenuta nella sua camera da una collega preoccupata di non averla vista al lavoro in ufficio ….