«La mente inchiodata dal doloroso pensiero di Francescangelo e dello assassinio suo»: Asproni e l’amicizia lunga e fraterna con il rettore Satta Musio. (Dedicato a Bachisio Zizi, come una preghiera civile), di Gianfranco Murtas
GIORGIO ASPRONI E BACHISIO ZIZI
Ho scritto, di recente, di Bachisio Zizi, onorandone la memoria nel quarto anniversario della morte per me (e per molti) accidente dolorosissimo. L’ho fatto associandolo alla figura dello storico, amato-odiato rettore di Orune don Francesc’Angelo Satta Musio: una figura uscita dalla sua penna, nella reinvenzione di una vita che fu unica, complessa e contraddittoria, forse pagana e per certo visionaria nel suo pragmatismo, ed appartenente per certo alle sfere più intime del mondo morale dello scrittore.
C’era stata già letteratura sul rettore Satta, prima che uscisse Il ponte di Marreri: si pensi ad alcuni lavori di Carlino Sole e Lorenzo del Piano – entrambi apripista in molti filoni di ricerca – tanto più riferiti al “cumone”, o alla sorte della terra sospesa tra gli interessi proprietari e quelli bracciantili di uomini non rassegnati, dopo l’editto delle chiudende, alla servitù della gleba. E/o comunque riferiti a quegli sforzi compiuti per la modernizzazione delle tecniche di coltivazione attraverso anche una alfabetizzazione emancipatrice del cittadino non soltanto del lavoratore. Ma certo il romanzo di Zizi e quanto lo accompagnò, con puntate televisive e molte presentazioni in città diverse – inclusa Milano –, rilanciarono quel nome e quella storia, quelle atmosfere barbaricine comprensibili davvero forse soltanto da chi conosce, per proprio vissuto, ambienti e costumi, luoghi e gente, valori o disvalori e mentalità diffuse e sedimentate in un subcontinente collocato dalla natura e dalla storia nel cuore della Sardegna.
Pro torrare a su contu. Orune 1750-1850 e Fui Rettore Satta Musio. Sichit su Contu, Orune 1850-1875, i due libri di Francesco Mariani – prete e sociologo, pubblicista brillante, soprattutto colto ed acuto (e sovente divisista, come invero è di ogni intelligenza produttrice di originalità) – usciti nel 2004 e nel 2005 hanno fornito, negli ultimi tempi, nuovo materiale utile, e direi utilissimo, alla biografia del sacerdote di Bitti capo per quarant’anni della comunità religiosa di Orune, o Oruni (nella storia) o Orvine (nella trasposizione romanzata di Zizi: del quale mi è caro ricordare qui che la lettera da lui indirizzata a don Mariani all’indomani dell’uscita di Pro torrare a su contu, e di cui mi riferì ampiamente – come ho a mia volta dato conto nel precedente articolo uscito in questo sito di Fondazione Sardinia – è apparsa nel piccolo volume Dialoghi a distanza. Stralci da un epistolario, pubblicato nel 2010).
E qui mi pare giusto soffermarmi un attimo almeno sulla fatica del Mariani, il quale, presentando il suo libro – mi riferisco qui soprattutto a Fui Rettore Satta Musio. Sichit su Contu, Orune 1850-1875 –, ha rivelato le sue intenzioni, tutte nobili, a dispetto delle conclusioni che costituiscono una sentenza di condanna per il giudicato: «il mio intento è sempre stato quello di capire le ragioni di coloro che con il Rettore si scontrarono, ossia le ragioni di gran parte del popolo orunese, e innanzitutto di ridare la dignità che spetta ad un suo “avversario”: don Giovanni Antonio Chessa Contena. Anche a lui [come al rettore Satta] in premio è stata data la cicuta dell’oblio. Anche lui ha segnato la storia di Orune».
In realtà – lo riconosco e dichiaro lealmente – l’impressione iniziale, e resistente, circa le “intenzioni” dell’autore è stata di aperta motivata avversione, di questi, per su Rettori. Più chiaramente: ho creduto a una tesi precostituita, aprioristica, di Mariani rispetto al… “malanimo” di don Satta Musio. Una tesi, aggiungo, ben comprensibile se si pensa a quanto nella formazione spirituale ed ecclesiale dello scrittore possa essere entrato di assai poco conciliabile con l’animus liberale di un prete cui toccò vivere nel pieno ribollire del risorgimento patrio (ed antitemporalista). Però è giusto anche tener conto di quanto dice, credo con sincerità, Mariani ed è assolutamente condivisibile la sua avvertenza: «Personaggi ed avvenimenti vanno inquadrati nel loro tempo».
E dunque: a ripassarlo con le nostre categorie, potrebbe sembrare, quello, un tempo del tutto altro, direi perfino rovesciato, rispetto al nostro. Pur se alcune tentazioni “assolutiste” della Chiesa – o degli uomini di Chiesa, o di certi uomini di Chiesa, per prendere adesso uno o un altro dei protagonisti, e fra i principali (e i peggiori), sulla scena –, non sembrerebbero cambiate più di tanto. Tempo di ghigliottina a Roma, di lama calata sul collo di delinquenti ed anche di oppositori politici, nel nome del papa Pio, mai immaginando forse che un giorno si sarebbe parlato di “principi non negoziabili” e di vita umana da preservare “dal concepimento alla morte naturale”, introducendo così categorie “assolute” in quadro mobile, propriamente relativo, e paradossalmente sconfessato in questa sua obiettiva precarietà…
Eppure Mazzini – il laico e religiosissimo Mazzini –, nel 1849, la pena capitale dello Stato pontificio l’aveva abolita con la sua costituzione repubblicana, per la quale s’era sacrificato poco più che ventenne il nostro Goffredo Mameli. Risalendo sul trono di un “regno di questo mondo”, il Vicario di Cristo ripristinò la pena di morte e ne autorizzò la pratica per altri diciotto anni…
Argomento: se ragioni si trovavano allora all’esercizio della mannaia pontificia e al perdurante malgoverno teocratico, illiberale e capriccioso cioè, in un terzo quasi dello Stivale, certo le coordinate valoriali e comportamentali del clero di periferia potevano anch’esse rimandare, per legittimarsi, a prepotenze ed abusi. Forse è in questo quadro che noi dovremmo collocare la vicenda di vita di su Rettori e di don Giovanni Antonio Chessa Contena, e anche degli altri, dei canonici del capitolo di Santa Maria della Neve e dei preti dipendenti da monsignor vescovo o, in questo o quell’interregno, da monsignor vicario apostolico.
Questo per dire che la sequela tanto lunga quanto inquietante delle colpe di don Francesc’Angelo Satta Musio, a lui addebitate nel, ripeto, documentatissimo (e intrigantissimo e, aggiungo ancora, gradevolissimo alla lettura) Fui Rettore ecc. di Francesco Mariani va letta alla luce di una posa della Chiesa e dei suoi uomini che non era una posa evangelica ma era invece, a partire dal papa teocrate ed a scendere per li rami, tutta mondana: diversamente, certo, da com’era stato nel Quattro o nel Cinquecento, ma pure – alla vista di uomini come il Rosmini – ampiamente lacrimevole: lacrimevole sì anche, e non per ultimo, per le disarmonie interne (di controtestimonianza) fra i ministri ordinati e i vescovi in specie, o per lo iato fra il clero e il popolo, ma anche in misura specialissima per lo stesso temporalismo e la soggezione generale alle tentazioni del “regno di questo mondo”, estrema degenerazione della controriforma ma senza le virtù (ideali) della controriforma, in un tempo storico divenuto ormai, gradualmente e in gran parte dell’Europa (e già nato così dall’altra parte dell’Atlantico) il tempo delle costituzioni liberali e degli stati nazionali, inconciliabile con le reliquie del medioevo, dei principati e degli imperi associati alla tiara.
Nella lettura dei fatti, quelli detti e quelli del non detto – ciò che di più… seduce l’autore (come egli stesso confessa) – emerge, in questa parte di Sardegna ancora coinvolta nella “ristrutturazione” postfeudale, «il complesso rapporto tra Orune e Bitti, i tentativi egemonici di quest’ultimo centro, la sua borghesia terriera vogliosa di espandersi, la colonizzazione politico-economica subita da Orune, l’incapacità di questo paese di riscoprirsi come comunità». Ed è, o era, cosa che in logica di Vangelo non poteva starci, perché anzi fra comunità e comunità avrebbero dovuto sorgere rapporti di fraternità, con il clero annunciatore e patrono, e garante di rapporti evoluti.
Poteva su Rettori, così come magari don Chessa (e, vorrei dire, il vescovo Demartis e l’arciprete con i suoi colleghi capitolari, i parroci ed i rettori della diocesi di Galtellì-Nuoro), essere diverso, elevato ad un piano realmente evangelico e compenetrato dal sensus ecclesiae, fatto davvero interno ad una ecclesialità comunionale baciata dallo Spirito? Poteva egli essere diverso da quello che fu?
La comunità credente di Orune non aveva bisogno di un agronomo o di un imprenditore della terra, aveva bisogno di un esempio, di un maestro, di un sacerdote di Cristo nella esemplarità di vita, dice da qualche parte, press’a poco, Mariani: oggi avremmo detto di un pastore che portava “l’odore delle pecore”, che affiancava, che accompagnava lungo le peregrinazioni della vita. Può essere vero, forse è vero senz’altro. Ma la Chiesa – che non comprendeva allora il conciliare “popolo di Dio” ma soltanto il gregge passivo di qualche sedicente pastore monsignore e comunque autoreferenziale – procedeva soltanto, o così pareva, con la cognizione del presente replicante anticaglie liturgiche e precettistiche pure astoriche, con ben rari slanci santamente critici, chiamali profetici, delle coscienze ammesse ai sacramenti ma non alla libera lettura biblica né alla partecipazione critica, intendo intelligente delle cose.
Restava, con l’inappagato bisogno dell’esempio, quel sentimento della responsabilità pedagogica sul piano strettamente spirituale, formativo della coscienza cioè, che i seminari non sapevano offrire nei corsi di studio al giovane clero, né questo veniva, per il più, dalla esperienza pratica via via maturata nelle comunità, a stretto contatto con le necessità di vita delle comunità ad esso affidate. Né, appunto, il vescovo sapeva dare lezioni, un esempio superiore.
La condizione sociale, quella sì, era forse il campo più abbordabile da preti, e preti-parroci, poco spirituali ma, se di buona cultura, molto capaci di iniziativa nelle trame di lavoro ora d’artigianato anche domestico – si pensi ai telai d’una volta, non soltanto in Barbagia – ora d’agricoltura… Chiudo qui queste rapide riflessioni che sono e restano un po’ a monte o nella cornice delle indagini sulla figura di su Rettori.
Certo poi gli studi asproniani, in cui modestamente anch’io – e prima e dopo l’uscita del libro di Zizi – mi sono cimentato, alla scuola dei miei professori Tito Orrù e Carlino Sole, e Maria Corona Corrias e altri ancora come Selis e Porceddu, l’amicizia politica con Bruno Josto Anedda – lo scopritore del Dario inedito (72 quaderni) del canonico “ribelle” e parlamentare d’opposizione alla destra cavouriana – e con Lello Puddu, anticipatore di letture mirate e di sapide ricerche sulle relazioni della nostra Isola con il risorgimento italiano, mi hanno accompagnato in un percorso di approfondimento fascinoso che ha sempre più allargato lo spettro delle partecipazioni: sono molte centinaia, infatti, i corrispondenti e gli interlocutori (sardi o italiani di varia radice territoriale) di Asproni nei lunghi anni delle sue esperienze pubbliche, giornalistiche e parlamentari. Nel gran novero (che fu anche internazionale, si pensi ai patrioti slavi) entrarono pure i suoi compaesani bittesi Antonio Giuseppe e Francesc’Angelo Satta Musio, l’uno magistrato (e per una legislatura subalpina anche deputato), nonché “presidente universale” – onnipresente leader di comitati e organizzazioni culturali, dignitario capo anche della massoneria sarda, editore del Corriere di Sardegna, ecc. –, l’altro prete e imprenditore agricolo, promotore di un podere enorme e soprattutto modello per le tecniche di coltivazione applicate, ed educatore di masse di braccianti con gli strumenti indovinati e flessibili del catechismo agrario in limba… Di più: sì prete rettore di Orune, sì imprenditore-imperatore di 50 ettari di buona terra fruttifera, ma anche patriota, italiano nel cuore, all’interno della temperie antiaustriaca fra Savoia e Garibaldi e critico del temporalismo dottrinario ed antistorico impersonato nella sua Barbagia da un vescovo come il carmelitano monsignor Demartis. E poeta: poeta nazionalitario, se così può dirsi, cantore della virtù eleonoriana in riscoperta proprio in quel mezzo Ottocento segnato dal gran bluff dei falsi d’Arborea, quando anche l’intera intellettualità sarda cadde vittima dell’imbroglio di Pillito e dei suoi ispiratori.
L’amicizia con i due Satta Musio, ma invero con tutta la grande famiglia e con ciascuna delle sue componenti – i Satta e più ancora i Musio, personalità geniali con arrivi nelle cariche pubbliche nazionali, nell’accademia o nella magistratura come anche nella politica, onorate al meglio –, è un tema presente e documentato nei diari così come nell’epistolario, e restituisce molto, nella rappresentazione che ne fa il foglio, all’umanità del parlamentare bittese tirato dagli obblighi (e dalle scelte e dalla volontà) della causa democratica, unitaria e repubblicana, fino quasi ad essere estraniato dalla cura di certi più impegnativi e segreti sentimenti.
La voglio dire meglio, perché è chiaro che l’intero monumentale Diario politico si presenta a noi come un testo documentario filtrato e marchiato, oltreché dall’intelligenza critica e dalla saggezza dell’esperienza, anche dagli impulsi e dalle emozioni e passioni dell’autore. C’è in quei 72 quaderni manoscritti, cioè, tutta l’umanità di Asproni. Ma pure può dirsi che ogni annotazione, pur così evidenziata, sia tesa a dar conto di un qualche evento passato o in corso, o prefigurato, che si collochi comunque in un quadro di ricadute pubbliche. Così, per dirne adesso soltanto una, quella sui suoi interventi presso la curia romana nello sforzo di salvare la testa ad Ajani e Luzzi, dopo che l’avevano perduta, al patibolo del beato Pio IX, Monti e Tognetti (58 anni in due) per il ferale attentato alla caserma Sarristori.
Ma pure i rimandi ad un più stretto privato di memoria e di coscienza come quelli che si trovano nelle pagine che seguono all’evento di Marreri, all’assassinio brutale di su Rettori, sono piuttosto rari: c’è il pianto sgomento e furioso, disperato per una perdita forse sofferta come una personale dimidiazione, nella piena consapevolezza delle due vite – la sua e quella di don Francesc’Angelo – cresciute nell’affiancamento, in paese e a Nuoro, e maturate poi nella condivisione di indirizzi civili ed ecclesiali, o ecclesiastici, che sapevano di lotta ad avversari, a uomini e a idee, a cominciare proprio dall’episcopio (e seminario) o dalla sala dei canonici in Santa Maria della Neve.
Per questo sono importanti le pagine diaristiche riferite al delitto di Marreri: oltre il fatto in sé, ovviamente, doloroso per la crudeltà e per la sterile melma che portava in emersione, e così commentato, c’è in quelle note la confessione d’una anima ferita anch’essa a morte e, con impeto tutto barbaricino, il bisogno, anzi l’urgenza d’una verità: chi e perché. Non oserei dire la tentazione d’una risposta vendicativa, no, questo no: ma certo d’una sanzione penale dura e implacabile, per i mandanti certamente più che per i sicari.
Nelle pagine che seguono riespongo, per come ne sono capace, vedendole dalla parte di Asproni, ed anche per come emergono dalle note del suo Diario politico, le relazioni – ripeto: umane, civili ed ecclesiastiche – con il rettore di Orune.
Si tratta di quanto raccolsi ed ordinai, di fianco all’amico professor Orrù, in vista del convegno nazionale di studi per il ventennale di fondazione della loggia “Giorgio Asproni” n. 1055 all’Oriente di Cagliari, l’11 novembre 2006 (e uscito poi negli Atti con il titolo Giorgio Asproni, eredità morale – attualità politica, a cura di Anna Maria Isastia. Titolo del mio contributo “Asproni, relazioni ‘liberali’ fra clero e politica in Sardegna”).
A complemento, alcune delle note più significative riguardanti il Satta Musio presenti nel Diario del deputato repubblicano.
In conclusione, invece, il focus è tutto, diretto ed immediato, sul rettore poeta. In chiave eleonoriana, come sopra accennato. Tratto dal mio Le stagioni dei Liberi Muratori nella Valle del Tirso, Oristano, S’Alvure, 2009, uscito nell’anno 160° del sacrificio del giovanissimo Goffredo Mameli (che avevo proposto, ma inutilmente, all’episcopato sardo di onorare col suffragio di una eucarestia, insieme con una petizione di perdono per quanto gli uomini di Chiesa, anche della Chiesa sarda, non seppero e non vollero capire dell’antievangelicità del temporalismo pontificio).
Un’amicizia di sessant’anni, fra Bitti e fuori
Fino al fatidico 1867 Asproni partecipa a venti competizioni elettorali, ora per il collegio di Nuoro (I o II), ora per quello di Lanusei, o di Genova III, o di Cagliari (V e II); continuerà così fino al suo passaggio all’Oriente Eterno. Nella logica dell’uninominale e dei vincoli di censo ed istruzione all’elettorato attivo, bastano per essere eletti poche centinaia (e talvolta poche decine) di voti. Delle competizioni che l’hanno visto presente fra il 1848 ed il 1867, vince undici volte, rimane sconfitto 9 volte. Sconfitto, peraltro, in un collegio ma vincitore in un altro nello stesso turno, sicché la sua continuità parlamentare resta pressoché intatta.
Questo lungo tempo trascorso da Giorgio Asproni dapprima fra i libri di grammatica, letteratura latina, filosofia e storia, teologia morale e dogmatica, poi nei cimenti non facili (e talvolta anche dolorosi) dell’avvocatura, dell’amministrazione clericale, dell’insegnamento, dell’esercizio canonicale, del giornalismo politico ed infine della prima deputazione, quali altri scenari e protagonisti incontra nella parallela storia di vita di Francesc’Angelo e Antonio Giuseppe Satta-Musio?
Compaesani e quasi coetanei (del 1809 il primo, del 1815 – l’anno di Waterloo e del Congresso di Vienna nella grande scena del mondo – il secondo), essi vengono da una famiglia tanto numerosa quanto eccellente di Bitti: soltanto per restare alle ultime generazioni, uno zio materno (Giuseppe) è senatore del Regno dopo esser stato alto magistrato della Reale Udienza – eminenza grigia della politica piemontese in Sardegna (ad iniziare dai complicati affari ecclesiastici) –, un altro (Costantino) è procuratore generale, altri sono anch’essi nella magistratura, nel notariato, nelle segreterie comunali, negli uffici di esazione (come il padre stesso e uno zio), ecc.
In diretta corrispondenza con il rilievo pubblico di quelle funzioni sono l’agiatezza del tenore di vita e le dimensioni del patrimonio fondiario iscritto in catasto, in continua implementazione.
La loro formazione avviene – come per Asproni – prima a Bitti (alla scuola di grammatica e latinità), quindi a Sassari. Il seminario tridentino è per Francesc’Angelo, liceo e università (facoltà di giurisprudenza) sono per Antonio Giuseppe.
Deve dirsi adesso specificamente di Francesc’Angelo, il prete padre-padrone di Orune (1.800 abitanti), amato-odiato nel paese che servirà (altri dicono: soggiogherà) per quasi quattro decenni, il prete che – sensibile al liberalismo continentale circolante anche in taluni dei settori più colti del cattolicesimo militante e, s’è detto, dello stesso clero anche in Sardegna – celebrerà una messa solenne di ringraziamento [in occasione del conflitto armato della prima guerra d’indipendenza], sempre con il non celato disegno di completarla con Roma capitale.
Di un anno soltanto più giovane rispetto ad Asproni – ma colpisce il “voi” che riceve (nell’età che dà contro il “tu” dell’età adulta), come si rileva dai frammenti del loro carteggio rinvenuto nel Fondo Musio conferito alla Facoltà Teologica di Cagliari – Francesc’Angelo Satta-Musio è stato ordinato prete, nell’episcopio di Oristano, nel dicembre 1835 (dopo imprecisate difficoltà – forse di disciplina –, che hanno ritardato la decisione vescovile di due anni).
Per un biennio è stato assegnato come vice parroco di Santa Maria ad Orune, assistente del titolare, suo zio Giuseppe Musio, prendendone il posto nel 1838, quando questi viene promosso all’arcipretura di Nuoro e quindi all’ufficio di vicario generale della diocesi.
Sospeso per un anno, fra 1841 e 1842, per contestazioni amministrative (ad istanza di un prestanome del suo vice) ed «esiliato» ad Olzai, e quindi reintegrato dal metropolita di Cagliari, accrescerà il suo ascendente nel clero diocesano, fino a diventare convisitatore del nuovo vescovo di Galtellì-Nuoro Emanuele Marongiu-Maccioni (1851).
«Ha una concezione più laica che religiosa del suo compito sacerdotale», scrive il suo biografo don Mariani [F. Mariani, Fui Rettore Satta Musio. Sichit su Contu, Orune 1850-1875, Nuoro, Edizioni Radio Barbagia, 2005, p.46] enumerando gli episodi di solerzia nel “fare” edilizio od agricolo – premiato anche da riconoscimenti civili (compreso il collare mauriziano) –, a scapito dei doveri, per statuto preminenti, del dir messa, predicare e confessare.
«Si muoveva per impulsi, generoso e tiranno, ingenuo e astuto, mutevolissimo negli umori, anche se voleva razionalizzare tutto a suo modo»: è un flash efficace del Ponte di Marreri di Bachisio Zizi.
Sacerdote molto contrastato negli ambienti ecclesiastici della sua diocesi anche per la supposta colpevole pigrizia verso i doveri dell’abito, nella interpretazione della complessa figura di don Satta-Musio potrebbe ricorrersi alle categorie affacciate nel monologo interiore di un personaggio del Ponte di Marreri: «Non voleva più indagare se il prete credesse o no: certe personalità sono e non sono, più che aderire a ciò ch’è compiuto, amano fare, inventare nell’atto della creazione il loro sentire».
Mi ha scritto di recente Bachisio Zizi – mio maestro di scrittura e di molte altre cose: «Francescangelo Satta Musio era massone, e quell’appartenenza dice molto della sua statura intellettuale che io innalzava al di sopra di ogni mediocrità nel mondo povero in cui ha vissuto e operato. La “mentalità” è uno dei nuovi temi che solo da poco hanno fatto irruzione nel territorio della storia (“Mentalità mi piace. E’ una di quelle parole che si lanciano”, Proust, Recherche)».
Quel che il rettore Satta-Musio avvertì come sua migliore vocazione fu forse – come, eppure diversamente dal suo amico Asproni – non il servizio dell’altare, del pulpito e del confessionale, ma quello sociale. La sua biografia riempie la cornice ideologica di molta economia pratica.
Ottenuta l’approvazione regia – valida per un quinquennio; fino al 1849 – a un Comitato agrario con soci scelti per metà fra gli agricoltori e per metà fra gli armentari (e senza numero i soci straordinari), lanciò, nella povertà barbaricina documentata dal censimento dell’Angius che proprio in quegli anni aveva steso le sue schede per il Dizionario geografico del Casalis, la cultura della razionalizzazione e dell’innovazione dei metodi così di coltivazione come di allevamento e perfino di caseificazione: il tutto senza speciali contributi governativi, e invece con l’apporto specialistico di tecnici provenienti ora da Cagliari ora dalla Toscana e perfino dalla Svizzera.
Il sogno era forse quello di una forma di complementarità di interessi e d’attività, fra pastori e agricoltori, identificando nella stessa figura del massaju il soggetto protagonista della nuova e più evoluta stagione agraria. [È quanto lo stesso romanzo di Zizi sostiene, scorgendo nell’ardita, epperò a lungo meditata, scommessa comunitaria – su cumone – la causa della sua morte efferata, molti anni dopo: avvenuta non lontano dalla tenuta modello di Marreri].
Una rivoluzione comunitaria: luci e ombre
La prima domenica dopo la Pentecoste, in una riunione plenaria, “cittadina”, solennizzante la Madonna “degli Abbandonati”, si discuteva il consuntivo dell’anno e si votava il nuovo preventivo; si premiavano sia le migliori coltivazioni che i migliori capi di bestiame (risultato di opportuni incroci), e si dava merito – e morale e materiale – ai lavoratori distintisi per scrupolo e abilità.
Il rinnovamento agricolo veniva associato alla crescita della cultura popolare. La scuola domenicale comprendeva tanto la lezione di catechismo – anche in funzione di alfabetizzazione, per i ragazzi dai 7 ai 18 anni, con espansioni nell’economia domestica e nelle nozioni d’igiene per le ragazze – quanto quella teorico-pratica su campi e pascoli; con verifiche dei risultati dati dalle sperimentazioni.
Il successo dell’iniziativa – con 220 frequentanti la scuola domenicale – indusse a spalmare in tutti i giorni della settimana le lezioni e le attività, suggerendo anche la stampa di un “catechismo agrario” in dialetto orunese. Brillante idea e personale applicazione didascalica del rettore Satta, il quale – oltre ad aver messo a disposizione di tutti la sua ricca biblioteca – aveva così tradotto, e ridotto in versi da memorizzare, il celebre Manuale del Ragazzoni ed altre istruzioni tratte dai bollettini agrari che puntualmente arrivavano, dal continente, alla canonica.
Ecco così su berenili (rotativa) a sostituire su bedustu, ecco le novità degli innesti e potature ad olivastri e peri selvatici nel salto comunale, ecco le nuove coltivazioni delle patate (anche in funzione sostitutiva dei cereali nelle frequenti stagioni di carestia) e dei gelsi (con allevamento dei bachi da seta, ecco la semina dell’indaco (per la tintura delle stoffe) e del sesamo (per la spremitura dell’olio), ecco la diffusione della viticoltura nei terreni più idonei, ecco la miglior confezione dei formaggi e la sperimentazione dei tipi gruviera e parmigiano (questo secondo con grande risultato); ma ecco anche l’attivazione del pieno ciclo produttivo di ben 300 telai, e di un laboratorio per la filatura e tessitura della seta e della lana (dalle pecore merinos spedite ad Orune da Cavour in persona).
E di più, e prima e dopo: ecco le opere di irrigazione e deflusso delle acque in campagna, ecco un pozzo scavato davanti alla casa parrocchiale per l’approvvigionamento del paese ed il progetto di allaccio in sistema delle numerose fonti sparse nel territorio comunale, ecco la realizzazione di una strada carreggiabile fino ad Orosei per l’imbarco delle produzioni agricole ed artigiane, senza più obbligo di ricorso ai maggiori porti nei capi opposti dell’Isola, ecco l’impianto del cimitero fuori dell’abitato.
Un poeta bittese – Ciriaco Antonio Tola – ci ha lasciato in corposi testi poetici in limba (Cantones e Mutos pubblicati a stampa soltanto nel 1913), una dettagliata descrizione della rivoluzione orunese che si concluderà, per la miopia governativa, troppo presto: nonostante i risultati, nonostante la quadruplicazione, in pochi anni, della produzione dei campi.
Uomo pratico, il rettore Satta-Musio converte in titoli della rendita i beni parrocchiali che, alla fine degli anni ’40 – in regime ormai di legislazione condivisa con la terraferma –, rischiano la confisca governativa e realizza, con i proventi, la nuova parrocchiale di Santa Maria: una piccola cattedrale impreziosita dalle tele del maggior pittore cagliaritano del tempo, Giovanni Caboni; uomo pratico, offre al Municipio, franca d’interessi, l’intera somma dell’annata di imposte prediali dovuta al governo, a titolo di prestito forzoso, nel 1860.
Il rettore Satta massone? È una ipotesi non sostenuta, allo stato, da alcuna prova documentaria; possono valere soltanto alcuni indizi. I quali salgono dal suo sempre dichiarato sentimento patriottico e/o liberale e dalle ripetute occasioni di scontro – queste ben documentate – con il suo vescovo monsignor Demartis Cuccuru, il più fiero avversario della Massoneria, in termini non solo di teorica generale, ma anche di stretta nuoresità, vis-a-vis (com’è espresso nella corrispondenza con Pio IX).
Ne danno abbondante contezza sia i lavori di Ottorino P. Alberti che quelli, più recenti – mossi da un forte ostilità verso il protagonista — di Francesco Mariani, prima citati, e lo stesso Diario asproniano. Quest’ultimo menziona numerose volte sia FrancescAngelo che Antonio Giuseppe Satta-Musio: ne emerge un rapporto di amicizia verso entrambi – ma specialmente verso il rettore – autentico e continuativo.
Il dolore per un omicidio efferato
Anche l’epistolario asproniano assevera questa intesa umana, prima ancora che ideale. Quando don Francesc’Angelo cadrà vittima di sicari, Asproni esploderà in un’emozione incontenibile. Così scrivendo, il 13 febbraio 1873, ad Antonio Giuseppe: «Io… non sentii mai dolore così intenso come quello che mi trafisse leggendo il tuo telegramma. Prima intontito, poi pazzo. Mi credeva travagliato da un sogno crudele, ed era realtà. FrancescAngelo assassinato!!!
«Maggiore fu la pena mia considerando come si aveva da fare per l’onorandissimo tuo zio. Mi mancò la lena per andarci. Scrissi a Donna Mariannica. Essa a poco a poco, e a grado a grado gli partecipò la morte. Tacque, e ancora non gli ha fatto sapere che fu trucidato. Io… mi determinai di andarvi ieri. Non potei reggere, e scoppiai in dirottissimo pianto. Io ho sempre davanti agli occhi miei Francescangelo. Tu sai la intrinsichezza fraterna di tutta la vita nostra. Io credeva di morire prima di lui, e nel mio testamento gli avevo legato l’abitazione colle mie case di Nuoro durante la vita sua come pegno di vero affetto.
«Non vi sia precipitanza né trasporto d’ira. Indagate con calma e con diligenza per scuoprire, mandanti ed esecutori, e tutta la tela di questo orribile misfatto. E tu, caro Antonio Giuseppe, abbi pazienza e usa l’autorità ed il senno per regolare i tuoi».
E il 22 dello stesso febbraio: «Se si potesse vedere il cuore mio dilacerato, e la mente inchiodata dal doloroso pensiero di Francescangelo e dello assassinio suo, si comprenderebbe la immensità dell’afflizione mia. Prima ancora che tu melo raccomandassi, io tentai di scrivere una necrologia, ma il sangue mi risalì subito alla testa, mi si offuscarono gli occhi, e mi cadde la penna di mano.
«Non basta lo impero di forte volontà per vincere la natura; ci vuole il balsamo del tempo, e la calma per fare una cosa degna della memoria sua e del mio affetto fraterno. Io appena mi ci fermo, divento bestia inferocita. Giovane, ed in paese, Dio sa cosa avrei fatto.
«Scrivo a Pietro Sanna sfumatamente le mie conghietture. Egli tele comunicherà. Medita bene ogni amminicolo. Se nemici particolari avessero da soli pensato a questo assassinio, o non si eseguiva, o si consumava, da molti anni prima»…
Il cantore delle virtù di Eleonora giudicessa
Circa la partecipazione del rettore Satta alle manifestazioni eleonoriane di metà Ottocento – mosse dalle suggestioni provocate dalle famose pergamene arborensi e forse neppure spentesi dopo la sentenza dell’accademia delle Scienze berlinese (che me dichiarò il falso materiale) – va detto che chi per primo e con più onere ed onore tenne alta la bandiera nazionalitaria (non antiitaliana, mai antiitaliana, al contrario!) fu proprio Antonio Giuseppe, il fratello del sacerdote, il magistrato e maggior dignitario di quel circuito liberomuratorio isolano che si coinvolse pienamente nel mito. Promotore di comitati ed iniziative, di pubbliche questue e conferenze patriottico-didascaliche, Antonio Giuseppe Satta Musio avrebbe coronato infine la sua fatica quando, nel maggio 1881, finalmente il monumento alla giudicessa sarebbe stato inaugurato nella piazza principale di Oristano. Una quindicina di mesi ancora ed anch’egli si sarebbe involato all’Oriente eterno, quasi nove anni dopo suo fratello colpito a Marreri, quasi sette dopo l’amico e sodale Giorgio Asproni.
Le logge sarde, tanto più la Vittoria – la prima della serie –, celebrarono Eleonora nel Tempio (che si dice allestito a Palazzo Villamarina, ad un passo dalla cattedrale cagliaritana) e fuori: è nota del 1865 la manifestazione al Civico, con la esibizione storico-letteraria-teatrale di numerosi Fratelli, nomi tutti impegnativi dell’accademia o delle professioni nella Cagliari quale si presentava all’indomani dell’unità d’Italia: da Gavino Scano – futuro rettore dell’università – a Pietro Mossa, da Angelo Arboit ad Efisio Tanda, da Felice Uda a Filippo Vivanet…
Al mito non si sarebbe sottratto, dalle alture di Orune, il prete ispido e idealista…
Dal rettore di Orune, «in limba sardoa muntagnina»
Non sono datate le «cantones in onore de sa sarda eroina Eleonora Regina d’Arborea» che «su Rettore de Orune Don Francescangelu Satta-Musio commendatore maurizianu», fratello maggiore di Antonio Giuseppe e lui stesso in odore di Massoneria, ha lasciato fra i suoi testamenti letterari. Ma credibilmente dovrebbero riferirsi alla metà degli anni ’60, alle fasi cioè di lancio della grande operazione “Eleonora”. È infatti da tenere presente che un agguato teso nel febbraio 1873 sul ponte di Marreri, farà fuori il sacerdote, personalità di primo piano del clero nuorese e non soltanto del clero, né soltanto del Nuorese…
Le composizioni in versi del rettore Satta sono tre. La prima comprende dieci sestine di endecasillabi, la seconda s’intitola Cantica pro sa matessi e si compone di nove ottave (pure di endecasillabi), la terza ha la classica estensione e metrica del sonetto (Sonettu).
Eccole in successione, iniziando dalle dieci strofe d’apertura.
1 – «Ue sunt sos triunfos de Arborea / D’Eleonora sa grande Regina / De sa Sardigna prediletta Dea / Ch’in arma set in legges fit Divina / Sas pergamenas nde faghent memoria / Rammentende a su mundu tanta gloria.
2 – «In sos libros antigos e in s’istoria / No incontresi femina plus forte / Nessuna l’uguagliat in sa gloria / Nessuna l’assimizat in sa Corte / In bravura in pensare ed in consizu / Non tenzende cumpagna ne assimizu.
3 – «Ue ses Ester ue ses Rachele / Ue Susanna tantu rinomada / Cudda chi difendesit Daniele / Ca duos bezzos l’hant calunniada, / Ma poite rammentare tantas bellas, / Si presente su sole sunt istellas?
4 – «A su primu cumparrer in battaglia / Perdiat s’inimigu forza e briu / Cum s’elmo in testa e cum lughente maglia / Cantu incontrat investit che unu riu / Dissipende sos prodes de Aragona / De sa Sardigna sa vera padrona.
5 – «Dada manu a sa gherra e senza tinu / Si battit su soldadu de Aragona / Su Catalanu avesu a su buttino. / S’innu de sa Vittoria già s’intonat / Ma su valore de sa Dea Marte / Sa zuffa dirigesit cum grand’arte.
6 – «De samben a su ferru micidiale, / Sos campos Sanluresos sunu tintos / A difesa ormende antimurale / Fraponent mortos e caddos estintos, / Sas boghes a sa zuffa ed a S’ispantu / S’inalzant a disperu cum su piantu.
7 – «Una sola isperanzia faghet logu / Ch’est cudda de non tenner plus salude / Eleonora sinde faghet giogu / Ed ispettat, chi cras torret sa lughe / Allegras e plus sigura in sa costanza / De fagher d’Aragona sa matanza.
8 – «Pro poder bincher cumbinant s’ingannu / Chi su fizu in sa Regia fit mortu / Eleonora turbada à tantu dannu / Curret ad Oristanu a frenu iscioltu / Ed incontradu su fizu legramente / Torrat in Campu cum nova plus gente.
9 – «Torrada a Campu sa forte Reina / Si mudant in leones sos soldados / Sos fertos sanant senza meighina / Sos d’Aragona benino trucidados, / E gasie triunfat in sa gherra / Bettende fortes e turres a terra.
10 – «Alza superba Sardigna su fronte / Celebra sos triunfos de Arborea / Ritempradi sas armas in su fonte / Ue las immergesit cussa Dea / Pro poder sa Sardigna cunservare / Dende fogu per terra e per mare».
«Cantica pro sa matessi»…
1 – «No perit no de sos benefattores / De su generu umanu sa memoria, / Mentras chi entes iscrittores / Eternizant sa fama cun sa istoria; / In mesu a custos meritat onores ponora de Sardigna gloria; / In tempos de ignoranzia Eleonora / Promulgat legges ch’esistint ancora.
2 – «Dae profunda dottrina istruida / Sa grande Giuighessa de Arborea / Dezidit de sa morte et de sa vida / Tenzende in manu sa libra d’Astrea. / Sa pergamena chi s’est custodida / Nde dat indubitata una idea / De custa benemerita Eroina, / Chi meritat s’iscettru.
3 – «Eleonora fit legislatrice, / Affabile de trattu, ma severa, / Disposta a sollevare su infelice, / Emula de Bellona sa gherrera, / Su cantatore de Clori et de Nice / Deviat tesser elegia intera, / Pro poder degnamente encomiare / Custa femina prode e singulare.
4 – «Tentu in ostaggiu fit Brancaleone / Dae s’ambiziosu Aragonesu, / Pro lu salvare a pugnare s’esponet / De fortalesa su pettus azzesu; / Et consighiada sa salvassione / S’isposu restat liberu et illesu. / Tantu est s’amore ch’hat a su consorte / Custa cumpagna preziosa e forte.
5 – «Sa fiza de su piu Marianu / Est impignada in attera battaglia; / De Cagliari a s’astutu Capitanu / Punta de lanza sambenosa iscagliat; / De manu sua morit Castellanu, / Intrepida s’esercita isbaragliat. / Muraglias e fortinos tottu atterrat / Cun balista set machinas de gherra.
6 – «Fit de aspettu gentile e graziosa / Bene formada de corporatura / Si distinghiat pr’esser animosa / Manifestendende in s’assaltu bravura; / Affabile, benigna, et virtuosa, / Donos ch’hapesit dae sa natura, / Solu mirende sa fisionomia, / Si li leggiat sa filantropia.
7 – «De s’Amazzone Sarda sa bravura / Istesit finza a como soppellida; / Suggettos t’altu bordu hoe procurant / De li dare sa laude de vida; / Ed essendesi unidos hant premura / Cale Fenice a la torrare a vida / Et raccogliendo sa fitta chisina / Resuscitare sa Sarda Eroina.
8 – «S’est istada ammirada sente in vida / Cantu lu siat creatura umana, / S’istesit dae tottu applaudida, / Tenta pro sa Camilla Sardiniana, / Cando fattezit s’ultima partida / Morzesit ortodossa, cristiana, / Pentida d’ogni culpa, e d’ogni errore / S’anima cunsignende a su Dadore.
9 – «Sa fama tua durat immortale, / Et diat esser a mie cunzessu / De poner subra s’urna sepulcrale / De viola unu ratu et de cipressu, / Ed de benemerenzia pro signale / In ispiritu daremi unu amplessu, / Istringhende sa mamu si l’istimas / A chie iscriet custas pagas rimas».
…e cussu Sonettu «pro sa virtude rara e singulare»
«De Castaliu in s’unda, Euterpe bella, / Sa destra immerge in s’abba cristallina, / E bagna custa fronte, chi rebella / Si rnustrat pro cantare un’Eroina.
«No in latina od itala favella, / Ma in limba sardoa muntagnina, / Eleonora risplendente istella / Ch’in Tirsu illustrat terras, et marina.
«Non fit mancu trilustre Eleonora, / E fit s’ammiru in totta sa Contea / Pro sa virtude rara e singulare;
«Fit affabile, et dotta fit ancora, / Ermosa che Pandora, e Citerea, / Et fit distinta in s’arte militare».