Bachisio Zizi e il suo (e mio) Francesc’Angelo Satta Musio, il rettore bittese di Orune educatore e poeta, patriota e massone, di Gianfranco Murtas

 

Quando apparve Il ponte di Marrei, il primo romanzo di Bachisio Zizi nella sua seconda stagione creativa, dopo quella del 1968-1973 riempita dalle pagine, per molti versi sorprendenti, di Marco e il banditismo, di Il filo della pietra e di Greggi d’ira, ne discutemmo in molti in banca, al glorioso Banco di Napoli, che proprio Zizi dirigeva a Cagliari con un raggio che stava facendosi, da provinciale, regionale: ne discutemmo là prima che altrove, e anche altrove. Ci parve di avvertire nella trama dell’opera e nella narrazione, proprio nei suoi sviluppi e nelle sue cadenze, nei profili dei maggiori personaggi all’azione, Zizi stesso. La sentivamo la sua presenza nella pagina, e non si trattava soltanto delle suggestioni, inevitabili, dettate dallo scenario propostoci di Orvine, il paese metafora del mondo là nel cuore della Barbagia, il paese che sapevamo essere il suo, intus et in cute. Paradossalmente però faticavamo a focalizzare quella identificazione che ci divise in due partiti: il partito che propendeva ad accreditare il ciclo degli idealisti o degli utopisti fra i quali era da collocare Alessio Biote, per rilevare quindi trattarsi del sogno segreto e irrealizzato di un uomo di genio e valore – Zizi appunto – incapace però di quel salto etico-morale necessario all’inveramento della utopia nella storia; il partito dei realisti e pragmatici che scorgeva nella gestione del corrente, complesso e anche complicato, quelle vocazioni e abilità del rettore Arcangelo Satta, titolare del Carmelo, i cui tratti sembravano riportare, nel nostro assillo di referenzialità rintracciabili, possibili e anzi obbligate, a Zizi autore e uomo: anche la spregiudicatezza nella soddisfazione di interessi e perfino di capricci del rettore – chissà perché, dato che Zizi non era certo uomo di capricci –, all’interno comunque di una superiore intelligenza capace di progettualità, parve a taluno assimilabile alle mosse aziendali e professionali del direttore-scrittore delle quali, invero, era nota solo la parte emergente.

Si affermò infine, e la cosa parve acquisizione definitiva e condivisa, fissare proprio nella figura del rettore – meglio, nella figura del rettore in necessaria, feconda dialettica con la provocazione comunitaria del giovane Alessio, lo studente che scriveva per altri le tesi di laurea – l’identikit morale, il modello dell’“uomo del fare” ante litteram, uno di quelli che portano una fisiognomica interiore rara forse, e forse proprio per questo inclassificabili secondo le categorie d’uso comune: giusto come «certe personalità [che] sono e non sono». A dirla con parole anticonvenzionali, «più che aderire a ciò ch’è compiuto, [esse] amano fare, inventare e manifestare nell’atto della creazione il loro sentire».

Una lettera in confidenza

In vista di un convegno nazionale di studi cui fui invitato a partecipare,  con don Giovanni Giacu, l’amico indimenticato e caro professor Tito Orrù e la professoressa Anna Maria Isastia, «per il ventennale di fondazione della loggia Giorgio Asproni n. 1055, Oriente di Cagliari», organizzato nella sessione mattutina nella sede della facoltà di Architettura e in quella serale a palazzo Sanjust, ebbi necessità di concentrarmi, raccogliere materiali, ordinarli e “leggerli” per l’originalità o la novità imprevista da essi celata.

Articolandola in 22 brevi paragrafi tematici, stesi la mia relazione (pubblicata poi, con cospicua integrazione di note documentarie, negli Atti usciti con il titolo Giorgio Asproni eredità morale – attualità politica, a cura di Anna Maria Isastia) dando ad essa il complessivo titolo di “Asproni, relazioni ‘liberali’ fra clero e politica in Sardegna”.

Certamente mi interessava orientare i riflettori della mia analisi sul sacerdozio ripensato (direi ripensato “canonicamente” e mai, credo, ripudiato “sacramentalmente”) di Asproni, il suo anti-piismo, l’abnormità delle sentenze capitali dei tribunali pontifici, gli episodi di rottura fra la curia cagliaritana e il governo a proposito delle decime ed i casi più dolorosi dei sacerdoti rinchiusi nelle segrete del foro ecclesiastico, i conflitti interni al clero nuorese e fra il clero e il vescovo Demartis, gli spazi sociali, economici e religiosi fra Bitti ed Orune, la figura speciale di don Francesc’Angelo Satta Musio fratello del magistrato (e già deputato subalpino) Antonio Giuseppe presidente “universale” (come fu definito) e soprattutto dignitario super della Libera Muratoria sarda negli ultimi anni ’60, l’organizzazione massonica isolana e le singolarità della loggia nuorese intitolata alla giudicessa Eleonora, la militanza asproniana nelle gerarchie del Grande Oriente d’Italia, ecc.

Entravano nella preparazione del mio contributo due testi di recente pubblicazione, esito delle fatiche di ricercatore di Francesco Mariani, al tempo credo ancora direttore di Radio Barbagia (alle cui edizioni facevano infatti riferimento entrambi i titoli, rispettivamente del 2004 e del 2005): Pro torrare a su contu. Orune 1750-1850, e Fui Rettore Satta Musio. Sichit su Contu, Orune 1850-1875. Due volumi importanti, corposi e documentatissimi, di bella lettura e bilingue, con una tesi preconcetta però – evidente la circostanza – che l’autore si era impegnato a dimostrare con dovizia di prove. Contro don Francesc’Angelo, s’intende, avversario di monsignor Demartis, il vescovo «frataccio» per dirla con Asproni. Io mi collocavo su un altro fronte: lo spirito patriottico liberale di quel tempo e di quegli ambienti, per quanto potevo aver capito degli uomini e delle trame, mi faceva, se non partigiano, certo simpatizzante del rettore che era stato rilanciato in positivo da Bachisio Zizi.

Fu in quel contesto, dunque, che ebbi uno scambio, un ennesimo scambio, con lo scrittore, allora in quiescenza dalla banca ormai da tre e più lustri ed imperatore di una casa grande, nel centro di Cagliari, tutta piena di libri ordinati e curati come fossero persone in carne ed ossa. Immerso ancora nelle sue letture, nei suoi dialoghi con gli autori, e immerso anche e ancora nelle sue produzioni che per lui costituivano una necessità di vita, la creazione e ri-creazione dei mondi possibili, aveva patito un lutto crudele mesi addietro, nella sua casa, e un altro, non meno nemico, lo attendeva al varco. E’ stato uomo che il dolore – dalla malattia alla morte – ha saputo cosa fosse, Bachisio Zizi, per esperienza patita in casa lungo tanti anni…

Gli chiesi qualche giudizio sull’uomo Satta Musio, e così il 9 agosto 2006 mi rispose:

«Carissimo Gianfranco,

«se, come i miei compaesani, mi affidassi anch’io ai simboli e ai rimandi per capire e capirmi, direi che questa è la stagione in cui Su Rettore ha deciso di si pessare, non so se per placarmi o inquietarmi. La questione da te sollevata con la generosità e pensosità che ti sono proprie, si aggiunge alle molte altre coincidenze che da qualche tempo mi assaltano nelle ore morte di questo mio crepuscolo, e che sembrano votate pietosamente a sciogliere i nodi e i grovigli che mi sono lasciato dietro nelle traversate del mio vivere. Può darsi che tutto ciò sia un riflesso del ruminio che impegna la mente dei sopravvissuti, nella cui schiera io mi colloco per privilegio di sorte. Non mi lamento, né mi esalto, in me prevale quella che qualcuno ha chiamato “passività attiva” che porta a forme più stringenti di identificazione con gli uomini e le cose.

«Vorrei esporti brevemente le due coincidenze che riconducono alla vicenda umana e letteraria del Rettore Satta e che in qualche modo costituiscono la motivazione di fondo della risposta al quesito che gentilmente hai voluto pormi.

«1) – Alcuni mesi fa è uscito un libro dedicato al nostro personaggio, opera di don Francesco Mariani, direttore di Radio Barbagia di Nuoro. Don Mariani, un prete orunese, non è stato mai tenero con la memoria del Rettore Satta, sulla cui opera di sacerdote e di uomo ha riversato tutto il male che può contenere la tua immaginaria colonna del “cattivo”. Don Mariani è personaggio di molti talenti, con una profonda conoscenza delle cose di Barbagia, per cui ciò che scrive o dice dai microfoni della sua Radio lasciano il segno.

«Ho incontrato questo mio illustre compaesano a Nuoro, nel 1981, in occasione della presentazione del Ponte di Marreri, di cui lui contestava proprio la figura del mio personaggio, molto lontana, a suo dire, dalla realtà storica del parroco che aveva imperversato a Orune nell’epoca da te ricordata. Una fotografia rintracciata fra le mie cose mi ritrae nella Biblioteca Satta di Nuoro, dove aveva avuto luogo la presentazione del mio libro, insieme a don Mariani, giovanissimo, ma infervorato nel riaffermare le ribalderie del “suo” don Francescangelo Satta Musio.

«Non avevo più incontrato don Mariani, anche se seguivo con interesse le sue “prediche” scritte e dette. Nel mese di Gennaio del 2005, una compaesana mi fece pervenire il libro Pro torrare a su contu, un testo pregevolissimo di don Mariani calato nella ribollente realtà orunese. Conquistato dall’intelligenza narrativa di quel piccolo capolavoro, indirizzai una lettera al suo autore, nella quale definivo l’opera “libro delle grandi fusioni: fusioni di saperi, di linguaggi e di genti”. Il libro trattava anche del processo celebrato contro Sos mortores del Rettore Satta, ma io concludevo la mia lettera con questo giudizio che per compiutezza d’informazione desidero riportare in parte: “I Suoi conti tornano tutti, e lo dico invocando la mia esperienza di bancario che per quarant’anni mi ha portato a pesare il “dare” e l’”avere” dei bilanci degli altri, coniugando i verbi al futuro, futuro probabilistico, non profetico… Torna il conto del narratore che con un colpo d’ala riesce a sollevare dall’anonimato individui esiliati da ogni ricordo; torna il conto dello storico che va per archivi e “repertori” per alzare i sipari tenebrosi calati sui fatti e misfatti della nostra piccola-grande patria; e torna il conto del linguista sperimentatore che ci fa dono di uno straordinario “concerto” tra la “lingua” orunese, nobilitata nelle sue strutture sintattiche e nei suoi segni grafici e la blasonata lingua italiana, collocando su un altro orizzonte le piccole diatribe o zuffe in cui si consuma il tempo e l’intelligenza dei nostri sapienti ( e se fosse veramente il bilinguismo “alto” il veicolo virtuoso delle nostre conquiste in ogni campo del sapere? )…

«Don Mariani apprezzò molto quel mio gesto e per telefono mi preannunciò una visita nella mia casa di Cagliari, per ringraziarmi personalmente. Visita che non ebbe luogo.

«Nei primi mesi di quest’anno, sempre don Mariani mi annunciò per telefono l’uscita del libro sul Rettore Satta di cui parlavo, soggiungendo che la sua esposizione aveva preso le mosse da un passaggio del Ponte di Marreri, che si premurò di leggermi, e dove il bene e il male delle tue colonnine si combinavano armonicamente come accade nelle cose che toccano gli umani. La telefonata si concluse con la promessa che lui, don Mariani, sarebbe venuto a Cagliari per consegnarmi il libro. Neppure questa volta si realizzò la visita preannunciatami con tanta premura. Io non me ne dolgo, ma ritornando ai simboli e ai rimandi dei miei compaesani mi viene da gridare: Isce non cheret, prefigurando il divieto di un irato Rettore Satta che vuole tenere separate verità storica e verosimiglianza narrativa.

«2) – L’arrivo del tuo messaggio mi ha trovato immerso nella lettura del nuovo libro di Carlo Ginzburg Il filo e le tracce – Vero falso finto, libro ricco di spunti e citazioni in cui prende via via rilievo il concetto che i romanzi sono testi impregnati di storia: se è vero, infatti, che l’opera del narratore non consiste nel riferire gli eventi reali, bensì fatti che possono avvenire e fatti che sono possibili nell’ambito del verosimile e del necessario, è altrettanto vero che uno scrittore che inventa una narrazione immaginaria deve raffigurare personaggi basati sugli usi e i costumi dell’età in cui vissero. Interessanti sono le citazioni che Ginzburg invoca a sostegno di questo orientamento, a cominciare da Auerbach, l’autore di Mimesis, il quale sostiene che Stendhal attraverso un racconto basato su personaggi ed eventi inventati cercava di raggiungere una verità storica più profonda; per risalire fino ad Aristotele quando scrive che gli storici parlano di quello che è stato (del vero), i poeti di quello che avrebbe potuto essere (del possibile)… ma naturalmente il vero è un punto di arrivo, non un punto di partenza…

«Se penso che oggi più che mai la storia viene riveduta o inventata da persone che non vogliono accertare il passato autentico, ma solo descrivere un passato che si adatti ai loro scopi, non c’è da scandalizzarsi se continuo a sostenere che il “mio” Rettore Satta, personaggio di fantasia certamente, è impregnato di storia e di quelle “minute circostanze che non è lecito ad uno storico riferire”.

«Io sono prigioniero di questo mio personaggio, in me è avvenuta una sorta di cristallizzazione delle ragioni e passioni che mi hanno spinto a scrivere Il Ponte di Marreri, e per rispondere alla domanda che cortesemente mi poni su “questa figura ingombrante”, riesco soltanto a riproporre uno stralcio del monologo interiore di Monaldi quando lascia la chiesa: “Non voleva più indagare per sapere se il prete credesse o no: certe personalità sono e non sono, più che aderire a ciò ch’è compiuto, amano fare, inventare e manifestare nell’atto della creazione il loro sentire”.

«Per concludere vorrei accennare a una terza circostanza, la più interessante: riguarda il compito che ti sei assunto e i percorsi conoscitivi che hai già delineato. Sono convinto che riuscirai a dare al Rettore Satta la collocazione che merita, combinando sapientemente sapere narrativo e sapere storico scientifico. Il mio non è un auspicio, ma certezza solidamente fondata:

«a)- tu sei l’autore dello “Specchio del Vescovo”, un racconto capace di dire ciò che nessuna scienza saprà mai dire né dei testi, né degli uomini, né del mondo;

«b)- Francescangelo Satta Musio era massone, e quell’appartenenza dice molto della sua statura intellettuale che lo innalzava al di sopra di ogni mediocrità nel mondo “povero” in cui ha vissuto e operato. La mentalità è uno dei nuovi temi che solo da poco hanno fatto irruzione nel territorio della storia (Mentalità mi piace. E’ una di quelle parole che si lanciano. Proust, Recherche).

«Il “mio” Rettore Satta farà cadere il veto dell’isce non cheret e benedirà il tuo lavoro. Affettuosamente».

Un ricordo sempre vivo

Sono ormai passati quattro anni dalla scomparsa di Bachisio Zizi, e il mio sforzo, che risponde ad un dovere della coscienza oltreché al sentimento, è teso sempre ad onorare, di lui, l’alta memoria dell’ uomo – dico dell’uomo di relazioni oltreché dell’uomo di lettere –, e, con quella, la memoria del dirigente di grande personalità e competenza, interprete oltre che, per il ruolo professionale, coprotagonista della vita economica della Sardegna e in specie del suo capoluogo per lunghi anni.

Meriterebbe la sua opera di scrittore un’applicazione speciale da parte degli studiosi, degli storici della letteratura; direi che meriterebbe anche la sua azione di dirigente bancario una lettura critica, in uno ovviamente a quel che il sistema creditizio è stato nella Sardegna del Novecento, e in particolare dal secondo dopoguerra alla fine del secolo. Potrebbero preparare il terreno alcuni approfondimenti mirati, in entrambi i campi, con sede magari in qualche tesi di laurea; si potrebbe portare in teatro qualche suo lavoro approntato per il teatro o riducibile al linguaggio teatrale; potrebbe la facoltà di Economia e commercio promuovere analisi mirate al sistema delle imprese  ed a quello propriamente bancario prima che fosse investito dalle “ondate” fusorie che abbiamo conosciuto ora sono già quasi due decenni.

Guardo in particolare al mio campo letterario. Bisognerebbe forse che soprattutto a Nuoro, in Barbagia, nella sua Orune qualche anima nobile prendesse l’iniziativa, da qui a quel che sarà fra alcuni anni il centenario dalla sua nascita, ed orientasse su Bachisio Zizi e le sue complessità intellettuali ed esistenziali i riflettori di una nuova conoscenza.

Abbiamo con noi, ancora, fortunatamente e felicemente, molti parenti stretti, molti amici stretti, molti conoscitori preziosi della sua opera creativa, tutti testimoni diretti. Forse potrebbero i responsabili delle pagine culturali (?) dei quotidiani isolani o quelli delle collane editoriali promosse da L’Unione Sarda e da La Nuova Sardegna, animare un rilancio degli studi di un autore che è stato, indubitabilmente, fra i maggiori del nostro Novecento sardo. Per quanto posso, resto a disposizione. E intanto registro che un comune sardo gli ha intitolato una strada: Villaspeciosa. Evviva la comunità e l’amministrazione di Villaspeciosa.

 

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