Dall’ideale dizionario biografico dell’ebraismo e dell’antiebraismo sardo, nel 1938 e dintorni, di Gianfranco Murtas
Siamo ormai all’80° della legislazione razziale imposta dal regime fascista in chiave antiebraica. Certamente non specialista della materia, sono evidentemente sensibile al dramma storico, umano e civile, quale si consumò in Italia nell’anno di vigilia della seconda guerra mondiale, e nel lustro temporale che seguì. E non avendo altri mezzi, per ora, per partecipare pubblicamente allo spirito comune che, anche in Sardegna, raccoglie la riflessione circa quanto anche noi come sardi fummo carnefici e fummo vittime della ennesima mala azione della dittatura, vorrei proporre un mio lavoro ormai vecchio, rimontante a una quindicina d’anni fa e pubblicato in Ebraismo e rapporti con le culture del Mediterraneo nei secoli 18°-20°, a cura di Martino Contu, Giuntina editore, 2003, come atti del convegno storico internazionale “Ebraismo e rapporti ecc.”, organizzato a Villacidro il 12 e 13 aprile 2002.
Aggiungerei che in epoca recente, gironzolando fra le bancarelle del nostro mercatino domenicale cagliaritano, mi è capitato di scorgere (e subito acquistare) otto numeri di La difesa della Razza – scienza documentazione polemica, la rivista che accompagnò la scempia legislazione del 1938. I numeri fanno riferimento ai primi due anni di uscita del quindicinale: si tratta precisamente dei nn. 3, 4 e 5 dell’a. XVI E. F. (datati 5 e 20 settembre e 5 ottobre 1938), e dei nn. 1, 3, 4, 5 e 6 a. XVII E.F. (del 5 novembre, 5 e 20 dicembre 1938, 5 e 20 gennaio 1939).
Va peraltro detto che diverse delle biblioteche pubbliche sarde custodiscono le collezioni, più o meno complete, della rivista: così, in particolare, quella della Facoltà Teologica della Sardegna, la Biblioteca Universitaria di Cagliari e quella di Sassari, la ”Satta” di Nuoro e la “Studi Sardi” (presso la Mem) di Cagliari.
E’ ancora reperibile, e merita una consultazione e anzi una lettura attenta, anche il volume La difesa della razza: antologia 1938-1943, edito da Bompiani nel 2006.
Direttore della rivista era Telesio Interlandi, mentre nel comitato di redazione figurano Guido Landra, Lidio Cipriani, Leone Franzi, Marcello Ricci e il nostro Lino Businco.
C’era una volta “La difesa della Razza”, quindicinale
Dalla parzialissima fortuita mia raccolta, e pur nella rapidità della ricognizione, ho censito gli interventi di autori sardi o gli articoli variamente riguardanti la Sardegna. Ecco di seguito i risultati (ometto ovviamente qualsiasi facilissimo giudizio e propongo la rassegna soltanto per dare una idea di quel che c’è anche di… nostro, di sardo cioè, nella malvagia opera di ottant’anni fa):
nel n. 3 del 5 settembre 1938:
Lino Businco, “Sardegna Ariana” (purtroppo però dalla copia acquistata manca il foglio in cui l’articolo era impaginato);
nel n. 4 del 20 settembre 1938:
Lino Businco, “La donna depositaria dei caratteri della razza”;
nel n. 1 del 5 novembre 1938:
nota titolata “Sardegna ariana” nella rubrica “Questionario” del seguente tenore (con riferimento all’articolo sopra citato, individuato ma non materialmente recuperato):
«A proposito dell’articolo di Businco sulla Sardegna, sono lieto – ci scrive Angelo Meloni – di segnalare una testimonianza autorevole resa in tempi lontani, nei quali il valore del termine razza era noto soltanto a spiriti di eccezione, a quei pochi che più profondamente sentono la nobiltà della loro antica origine.
«Grazia Deledda – scrittrice sarda, premio Nobel per la letteratura – è più di ogni altra qualificata per parlare dell’anima sarda, perché di essa conosce le millenarie sorgenti.
«Grazia Deledda nel suo libro “La Giustizia” Cap. VII, ediz. 1924, scrive di un personaggio del suo romanzo:
«”Fondeva le tradizionali ninna-nanna, fiere, dolcissime e melanconiche (che avevano antiche reminiscenze di canti ariani forse un giorno singulti dalle antiche donne barbaricine intorno alle rozze culle, mentre i figli di Iolao si rifugiavano sui selvaggi monti della Barbagia sfuggendo le romane legioni) colla cadenzata e triste musica dei gosos, laudi sacre cantate da semplici cori popolari”.
«I sardi sono grati a Difesa della Razza che ha sollevato la questione sarda, questione che interessa il più profondo della nostra anima. Nessuno di noi ha bisogno di sentirsi dimostrare che i sardi sono uno dei più antichi e più genuini popoli ariani che esistano in Italia (basta guardare gli splendidi biondi della Gallura e le nobilissime popolane di Tempio). Questa nostra antichissima nobiltà la sentiamo nei recessi più intimi del nostro spirito, ma pochissimi tra noi conoscono l’etnografia sarda, le leggende e le storie di Sardegna.
«Bene farebbe Difesa della Razza se incoraggiasse gli studi sugli antichi popoli italici e se istituisse una rubrica bibliografica per dar notizie dei libri vecchi e nuovi di etnografia generale (che sono già abbastanza noti) e di storia ed etnografia regionale che spesso sono sconosciuti anche ai più direttamente interessati. I direttori delle biblioteche, gli istituti storici, le varie università potrebbero dare indicazioni preziose e mettere in auge studi del più alto interesse patriottico».
nel n. 4 del 20 dicembre 1938:
Lino Businco, “Salute della famiglia, forza della razza”;
nel n. 5 del 5 gennaio 1939:
Lino Businco, “Il numero è potenza” (l’articolo è corredato, fra l’altro, da una tabella sulla mortalità feto-infantile per mille nati, che colloca la Sardegna, fra le regioni d’Italia, in posizione mediana fra il quoziente 129 del biennio 1929-30 e il migliorato 121 del triennio 1933-35);
nel n. 6 del 20 gennaio 1939:
Lino Businco, “Vecchi mali della gente francese”;
nota titolata “Rinuncia ed eroismo” nella rubrica “Questionario” del seguente tenore:
«Un avanguardista cattolico del liceo classico di Cagliari, che non ha avuto la franchezza di sottoscrivere la sua lettera, pur volendo farsi giudice dell’opinione del suo camerata milanese, ci scrive una lettera, che noi pubblichiamo, avvertendo i nostri giovani collaboratori che una sola ragione ci può essere di non farsi nominare, quella della disciplina, ma che per essere veramente disciplinati bisogna dir cose elevate e plausibili, e queste vanno sottoscritte, prima di tutto perché la disciplina vuole responsabilità, e poi perché a dir cose elevate nessuno si vergogna, e nessuno può essere rimproverato per averle dette. Questo si chiama libertà e bisogna esserne degni.
«L’avanguardista di Cagliari ci scrive:
«”La pubblicazione della lettera dell’avanguardista milanese mi ha profondamente stupito: mi è parso troppo dar ascolto all’esaltazione di un giovine e mi è parso troppo blando il vostro commento. A prescindere dal fatto che la sua teoria non è consona allo spirito religioso del Fascismo: come può egli accusare la religione di umiliare la vita, quando lui stesso afferma la sua incapacità a sentire una conversazione religiosa? Perché così avventatamente scagliarsi contro una cosa che non si conosce profondamente? Perché misconoscere il valore dell’insegnamento religioso? Se riflettesse veramente, capirebbe il valore che lo elemento religioso ha avuto in ogni secolo. Eppoi, perché dire che la religione nega l’eroica volontà di potenza: forse che questa non la troviamo nello spirito di abnegazione e di fermezza dei martiri cristiani? Mi viene il desiderio di rispondere a quel giovane milanese quello che rispose un mio professore a un suo alunno che volendoselo accattivare disse che la religione non lo interessava. Tu non sarai mai un buon cittadino. – Non si tratta nel giovane milanese di boria, ma di esaltazione nata forse con lo studio di Voltaire o di qualche altro scrittore anticlericale. Se un prete si mettesse a combattere il razzismo, non sarebbe un buon prete, e non lo farebbe nemmeno in difesa della religione.
«”Non mi sembra poi, per esperienza personale, molto frequente, che dopo le esercitazioni militari e sportive, nuoccia la calma e la pace di un Oratorio, che è fucina di carattere perché indirizza verso la moralità; non uccide l’amore di lotta, anzi consacra la fermezza di carattere. Mille e mille martiri, che combattendo contro ogni avversità portarono la luce cristiana in ogni dove, non piegandosi nemmeno davanti al supplizio, ne fanno testo. E la rinuncia posta a base dell’etica cattolica è un santo principio che va contro tutti i brutali e bestiali istinti umani. E’ bestemmiatore chi senza conoscerlo bolla uno dei più dolci misteri della fede, mi pare anzi di intravvedere un velato richiamo al libero amore, con quali conseguenze per lo spirito romano e fascista è inutile dire”».
Se è vero che, nel bene come nel male, il rapporto Sardegna-legislazione antiebraica del 1938 non si segnala per speciale significatività, ciò non di meno merita d’essere evidenziata, anche soltanto scorrendo l’indice onomastico della notissima e fondamentale Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo di Renzo De Felice (edizioni, in successione, Einaudi 1961 e 1972, e Mondadori 1977), la presenza di importanti personalità isolane sul fronte dei prepotenti, all’interno dello scenario complesso di quell’impari lotta del Golia fascista – nel regime prima, nell’appendice repubblichina poi – contro il Davide della minoranza ebraica.
Paolo Orano, Lino Businco e Francesco Barracu sono i tre nomi che meglio esprimono la partecipazione dei sardi alla ingiusta offensiva.
Ed invece Max Ascoli, Alessandro Levi, Alberto Lopez, Ugo Guido Mondolfo, Enzo Tagliacozzo – nessuno dei quali sardo di nascita ma, diciamo, di elezione per una parte forse non marginale della loro vita – sono i nomi di chi subì l’ostracismo, nel novero che comprende anche Teodoro Levi, Alberto Pincherle, Camillo Viterbo e Michelangelo Ottolenghi. E forse, o certamente, altri ancora, non compresi in questa mia rapida ricerca, che meriterebbe approfondimenti mirati al quadro ed ai protagonisti.
Gli ingiusti
1. Paolo Orano fu come il preparatore teorico, il seminatore negativo, dieci e anche vent’anni prima della legislazione del regime ed accampa, di necessità, il maggior rango ed interesse.
Egli si presenta come una delle figure più contraddittorie della vicenda politica isolana del primo dopoguerra, fra combattentismo e sardismo. Del PSd’A fu addirittura uno dei deputati eletti nel 1919 (lista dell’Elmetto) e nel 1921 (lista dei Quattro Mori al suo esordio), anche se è notoria l’avversione che quelle candidature – soprattutto la prima – suscitarono nell’opinione democratica che si riconosceva nelle idealità repubblicane ed autonomistiche, e anche nei quadri sardisti, soprattutto in Ogliastra. E l’avversione derivò appunto dalle prime prove “razziste” del professore.
Si ricordi che fu docente di filosofia, ma frequentò la sociologia ed anche l’antropologia, negli anni in cui fu altresì redattore dell’Avanti! ed organizzatore sindacale, nonché direttore della rivista socialista La Lupa, che uscirà fino al 1911, quando egli si dirà favorevole alla guerra in Libia. Sarebbe da ricordare anche che egli fu capo della redazione romana de Il Popolo d’Italia, di stretta obbedienza mussoliniana (numerosi i suoi articoli negli anni della grande guerra).
Alla vigilia della stagione fascista, fra 1919 e 1923, collaborò, dalla capitale, alla Rivista sarda di Pantaleo Ledda, e contemporaneamente o successivamente a La Regione – direttore Sebastiano Deledda – a Il Giornale di Sardegna – quotidiano dei cosiddetti fascio-mori, cioè dei sardisti passati al fascismo e costituitisi in nuova leadership del PNF isolano – e infine al Nuraghe del Carta Raspi, per temi storici e letterari.
Al termine del lungo corso fascista nel quale s’intruppò già dal febbraio 1923, insieme con numerosi altri esponenti sardisti, fu nominato, nel 1939, senatore del Regno. Fu arrestato al termine della seconda guerra mondiale e deportato nel campo di concentramento di Padula, nel Salernitano (ove morirà).
Si diceva dell’opposizione della base e anche, o forse soprattutto, dei quadri culturalmente più emancipati sul versante democratico del sardismo dell’immediato primo dopoguerra alla candidatura Orano che il gruppo ogliastrino facente capo a Egidio Pilia sponsorizzò dopo il rifiuto nientemeno che di Mussolini a presentarsi con i combattenti della Sardegna (meriterebbe segnalare qui i saggi, senz’altro fra i migliori in materia – di una materia alquanto sondata – di Luigi Nieddu Dal combattentismo al fascismo in Sardegna, edito da Vangelista nel 1979, e di Salvatore Sechi Dopoguerra e fascismo in Sardegna. Il movimento autonomistico nella crisi dello Stato liberale 1918-1926, edito nel 1969 dalla Fondazione Einaudi).
Cosa si rimproverava ad Orano «sardo continentalizzato, che ci era caduto tra i piedi e di cui non sapevamo che fare», come scrive Lussu in Essere a sinistra, democrazia, autonomia e socialismo in cinquant’anni di lotte? La diffamazione della Sardegna in chiave “razzista”. Era stato nel 1892 la prima volta – così rivela la letteratura consultata –, e nel 1896 la seconda, che l’Orano – allora giovane ventenne – “colpiva” con argomenti ritenuti di diretta derivazione lombrosiana e imparentata quindi anche con le sgradevoli conclusioni del Niceforo. Nelle collezioni dell’Unione Sarda del 1919 sono ospitate tutte le puntate della contesa fra i pro e i contro.
Il De Felice, particolarmente nel secondo torno di Mussolini il duce, insiste alquanto sulla incidenza della teorizzazione antiebraica dell’Orano sulla legislazione del 1938. Non minori sono i riferimenti, sullo specifico, nella citata Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, dove viene ripercorso l’intero e contraddittorio tracciato ideologico dell’Orano ormai in procinto del riconoscimento senatoriale.
Nel 1895, nell’opera Il problema del Cristianesimo (o Cristo e Quirino, come sarà il titolo nelle successive edizioni), inizia dimostrando l’intimo e insanabile contrasto fra ebraismo e spirito cristiano e romano: e pare qui che l’autore scorga in sé addirittura una consentaneità filosemita (scriverà nel 1905 sul Corriere israelitico, rivolgendosi all’avvocato ebreo Raffaele Ottolenghi, del proprio «ardente desiderio di contribuire alla piena, alla definitiva emancipazione della meravigliosa stirpe nella lotta contemporanea»); poi cambia progressivamente registro.
Scrive del “pessimismo” ebraico, della loro paura della morte, dell’invincibile senso di colpa, ecc. ma soprattutto – nelle diverse annate della Lupa – affaccia una linea sempre più marcatamente avversaria e dileggiante: «Da noi il quattrino, manipolato spesso con lo strozzinaggio, va diventando in gran parte ebraico; la cosa pubblica, sia pure sotto veste gesuitica, è sovente trattata da ebrei; le Università sono infestate, a tutto danno di intelligenze vive e libere, da elementi ebraici…».
E nel 1914, rispondendo ad un’inchiesta promossa dalla rivista L’idea nazionale sulla massoneria (il volume in copia anastatica è uscito nel 1925), precisa: «Il patriottismo italiano degli ebrei d’Italia è sempre… un sopportamento, uno sforzo, una pena taciuta, una dissimulata condanna. Gli israeliti sono patrioti per forza, socialisti per espedienti, sovversivi per tradizione, nemici della storia e della civiltà latine in modo assoluto, istintivamente».
Quattro anni dopo, e giusto a mezza strada fra Caporetto e Vittorio Veneto, sul Giornale d’Italia, non si perita di argomentare sugli ebrei che «hanno bisogno… di fare al mondo e tutto il male e tutto il bene che gli hanno fatto, perturbatori meravigliosi d’ogni illusione e d’ogni inerzia».
E quando, nel 1929, si hanno in Palestina degli scontri feroci fra i “focolari ebraici” e la popolazione araba, e non poche voci anche della stampa di informazione difendono l’iniziativa ebraica vista come una forma di «colonizzazione occidentale, cioè bianca, di un territorio lasciato impoverire dalla neghittosità turca e dalla incapacità agricola delle tribù arabo-beduine», anche Orano apprezza l’opera dei sionisti, forse però per strumentalmente colpire la Società delle Nazioni e l’Inghilterra che sulla Palestina ha il protettorato.
E poi cambia ancora impostazione e tono. Nel 1937 esce il suo libro Gli ebrei in Italia. E tali sono gli argomenti, o forzati i suoi toni, che lo stesso duce, che forse ha commissionato l’opera, chiama il direttore del giornale Il progresso italo-americano per tranquillizzare, tramite suo, gli israeliti degli Stati Uniti: «gli ebrei in Italia hanno ricevuto, ricevono e continueranno a ricevere lo stesso trattamento accordato ad ogni altro cittadino italiano…, nessuna discriminazione razziale o religiosa è in mente mia…, resto fedele alla politica di uguaglianza di fronte alla legge e di libertà di culto».
Il pamphlet dell’Orano è – scrive il De Felice – curato con un rigore dall’apparenza scientifica, salvo poi puntare i suoi cannoni contro i sionisti organizzati in movimento e contro gli ebrei fascisti. Riguardo al sionismo, lo stato d’Israele non sarebbe che una pedina inglese, aiutando il sionismo l’Italia aiuterebbe pertanto l’espansionismo britannico e prenderebbe posizione, contrariamente ai suoi interessi, contro gli arabi, senza dire poi dei diritti cristiani sui Luoghi Santi: «Croce e Fascio sono legati dal più intimo spirito e si trovano oggi di fronte un’Inghilterra ebraizzante ed un ebraismo britannizzante».
E riguardo agli ebrei del PNF scrive: «L’individuazione e la separazione fanno sospettare il recondito bisogno di segnalarsi e ad un tempo di provare l’errore di una presunzione nello spirito della Nazione, quella che gli ebrei non sentissero il patriottismo come gli altri italiani, presunzione che nessuno ha mai nutrita… Ma se di fronte alla Patria, alla Nazione, all’Italia, sono italiani come tutti gli altri, perché separarsi nel documentare partitamente il loro merito?».
Dunque, conclude Orano: gli ebrei italiani prendano posizione «contro l’Israele internazionale, contro il sionismo, contro gli apostoli arcani, i messianismi galvanizzanti» e rinuncino definitivamente ad ogni loro individualità che non sia quella religiosa».
Arriveranno professioni di lealtà fascista da parte del Comitato degli Italiani di religione ebraica, costituitosi a Roma nel gennaio dello stesso 1937, ma forse non basterà. Il libro di Orano – contestato dal giornale cattolico bolognese L’Avvenire d’Italia – sarà fra i più recensiti, sulla stampa d’informazione e su quella più direttamente di regime, dell’intero 1937, e il dibattito aprirà gli scenari più vasti allo spettro che si materializzerà l’anno successivo.
2. A Lino Businco – al tempo poco più che trentenne, originario di lerzu, assistente di patologia generale nell’università capitolina, già redattore a Cagliari della rivista Pattuglia, settimanale degli anni 1929-1930, e Sud Est, periodico universitario uscito nel 1934 e durato fino al 1942 (si veda, a tal proposito, l’ottimo saggio doppio Intellettuali e politici tra sardismo e fascismo, di Francesco Atzeni e Lorenzo Del Piano, edito dalla Cuec nel 1993) – tocca la parte di firmatario, con molti altri, del Manifesto sulla cosiddetta o supposta razza italiana, datato luglio 1938 e redatto «sotto l’egida del ministero della Cultura popolare» (esso uscì in due versioni: la prima anonima, sulla stampa, la seconda in forma ufficiale e rimaneggiata, pare, dallo stesso Mussolini).
«Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto… Gli Ebrei rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia, perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli italiani».
Va aggiunto che Businco è, nel 1938, vice direttore (vice del prof. Guido Landra) dell’ufficio studi sulla razza del ministero della Cultura popolare. In tale veste, nel dicembre dell’anno fatidico, visita alcune istituzioni razziali tedesche, e naziste, come il campo di concentramento di Sachsenhausen.
Riguardo specificamente al Manifesto valga qui appena accennare, elencandoli, ai titoli dello sconcertante decalogo:
Le razze umane esistono.
Esistono grandi razze e piccole razze.
Il concetto di razza è concetto puramente biologico.
La popolazione dell’Italia attuale è di origine ariana e la sua civiltà è ariana. È una leggenda l’apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici. Esiste ormai una pura “razza italiana”.
È tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti.
È necessario fare una netta distinzione tra i mediterranei d’Europa (occidentali) da una parte, gli orientali e gli africani dall’altra.
Gli ebrei non appartengono alla razza italiana.
I caratteri fisici e psicologici puramente europei degli italiani non devono essere alterati in nessun modo.
Sarà utile ricordare anche che alla materia razzistica Businco dedicò vari scritti anche sulla stampa sarda, ad iniziare proprio da Sud Est, negli anni in cui ne era redattore dalla capitale. Suo è l’articolo “Coscienza di razza”, apparso sul n. 19 del novembre 1938.
3. Di Francesco Maria Barracu – sottosegretario alla presidenza del Consiglio della RSI – si ricorda la responsabilità delle pubblicazioni sulla Gazzetta Ufficiale dei decreti di confisca dei beni mobili a persone di radice ebraica(«Il capo della provincia di… Visto il decreto legislativo del duce n. 2 in data 4.1.1944 – XXII… »). Elenchi penosi in sé e, per altra ragione per il dettaglio offerto sulle grigie pagine della Gazzetta Ufficiale (dopo la protesta del ministro dell’Educazione nazionale sono dirottati su appositi “supplementi della Gazzetta stessa).
Di Barracu basti qui dire che era originario di Santulussurgiu, classe 1895, ufficiale dell’esercito: «Un sergente maggiore senza sale in zucca», secondo la (forse) ingenerosa definizione di Roberto Farinacci (è in Giorgio Bocca, La repubblica di Mussolini, Laterza 1977, che rimanda al “Diario” di Farinacci stesso pubblicato sul Tempo di Milano, nel 1947). Giacomo Perticone, nel suo La repubblica di Salò, Leonardo editore 1947, ricorda che nel collegio militare di Roma aprì «un ufficio assistenza sardi. Chiunque si presenta in età militare – scrive Perticone – viene arruolato sui due piedi nel battaglione Angioi». Friedrich Doliman, in Roma nazista, Longanesi 1951, scrive di «assassini della banda sarda di Barracu». Morì a Dongo nell’aprile 1945.
I giusti
Oltre a Teodoro Levi, Alberto Pincherle, Camillo Viterbo e Michelangelo Ottolenghi – i quattro docenti colpiti dalle disposizioni dell’estate 1938 (i primi tre docenti dell’università di Cagliari, il quarto di quella di Sassari), dei quali ha trattato la relazione del prof. Luciano Marrocu – altre eminenti personalità della cultura, anch’esse vittime della legislazione antiebraica, meritano almeno un richiamo, movendo dal ricordo della comune esperienza, in epoca peraltro precedente (per quasi tutti) al 1938, compiuta in Sardegna. Esperienza che, per tutti, è intellettuale e più precisamente, come per gli altri, di docenza: all’Università come al Ginnasio (sarà quest’ultimo il caso del più anziano di tutti, Mondolfo).
Esse sono in ordine alfabetico: Max Ascoli, Alessandro Levi, Alberto Lopez, Ugo Guido Mondolfo, Enzo Tagliacozzo.
Loro tracce biografiche compaiono nel bello studio di Gina Formiggini, Stella d’Italia, Stella di David, con sottotitolo Gli ebrei dal Risorgimento alla Resistenza, pubblicato nel 1970 (e ripubblicata nel 1998) da Mursia.
I. Max Ascoli. Ferrarese classe 1898, laureatosi in legge nel 1920, debuttante sulla stampa insieme nazionale e francese nel 1921 con un saggio su Sorel, egli argomentò, proprio nei giorni della marcia su Roma, – e il caso venne dibattuto – che «in regime di libertà, la libertà è anche esposta al pericolo di essere uccisa». I socialisti riformisti, alla cui rivista Critica Sociale l’articolo era stato offerto, si divisero nel consenso o meno a un tale enunciato. Treves per sì, Turati per il no. Fu no e l’articolo venne dirottato sulle pagine della debuttante Rivoluzione Liberale di Piero Gobetti.
Spirito democratico e libero, Ascoli concesse il contributo della sua elaborazione a svariate testate della galassia antifascista, liberale e socialista negli anni che si chiudono proprio con la strutturazione del regime nel 1925: da Quarto Stato di Nenni e Rosselli, al Mondo di Amendola, al Non Mollare di Rossi e altri. Approfondì lo studio della filosofia del diritto, fu docente, ancora giovanissimo, all’ateneo di Camerino. Arrestato nel 1928, condannato al confino. E al confino scrisse un libro che gli sarebbe valsa la libera docenza: Interpretazione delle leggi. E poi un altro: La giustizia. Portò questo secondo al concorso a cattedra – quello di filosofia del diritto – appunto a Cagliari, nell’autunno 1930. Senza successo (per «ragioni politiche», secondo la dichiarazione di Giovanni Gentile, presidente della commissione di concorso). Ma a Cagliari era già da un anno, come docente incaricato, l’unico non iscritto all’Associazione Nazionale Professori Universitari Fascisti. Tra le sue frequentazioni più stimolanti, in città, quella di Delio Cantimori, docente di filosofia al liceo Dettori, e mentore del giovanissimo Giuseppe Dessì.
Lasciò la Sardegna e l’Italia nel 1931, ottenendo una borsa di studio dalla Fondazione Rockefeller. Negli Stati Uniti rimase molti anni (anche dopo la fine della dittatura), docente in diverse scuole superiori ed università, e qui pubblicò svariati libri di impronta e contenuto antifascista. Per informare gli americani della natura intimamente illiberale del fascismo.
Nel 1939 divenne preside della cosiddetta University in Exile che raccolse i docenti tedeschi allontanati dalla Germania a causa della legislazione antiebraica del nazismo. Fu, Ascoli, il solo non tedesco del corpo docente di quella università.
Si era prestato, due anni prima, a tenere l’orazione funebre per Carlo e Nello Rosselli. Rafforzò da allora il suo rapporto con l’antifascismo clandestino in patria e con il fuoriuscitismo. (Era stato collaboratore dei Quaderni di Giustizia e Libertà). Per alcuni anni, fino al 1943, fu presidente della Mazzini Society, che riuniva il meglio dell’antifascismo democratico, compreso quello cattolico, negli USA.
Collaborò, durante il conflitto mondiale, con il governo di Washington, curando specialmente le relazioni culturali con l’America latina (con quelle minoranze europee residenti nei paesi rimasti neutrali come Argentina e Cile).
Tornò in Italia nel 1945, per ripartire poi alla volta degli Stati Uniti, per il bene sempre e comunque dell’Italia (perfino patrocinando una fondazione a sostegno degli artigiani connazionali per produzioni di qualità che fossero gradite al mercato americano).
2. Alessandro Levi. Veneziano classe 1881, fu anch’egli docente di Filosofia del diritto. Dopo che a Ferrara e prima che a Catania e Parma insegnò pure all’università di Cagliari. E a Cagliari, infatti, nei primi anni ’20, collaborò con la rivista La Regione, insieme con il meglio dell’intellettualità isolana (la prima serie della Regione copre cinque mesi: agosto-dicembre 1922, gli stessi della preparazione e dell’ascesa effettiva di Mussolini al governo).
Socialista riformista, fu vicino, idealmente, a Filippo Turati, e alla formazione di Carlo Rosselli (notoriamente di famiglia ebraica. E dei fratelli Rosselli – di Carlo e di Nello – scrisse nel 1947 un “Ricordo” in un quaderno de Il Ponte). Visse, si può dire, la sua vita nel crocevia quasi delle impostazioni teoriche e del positivismo filosofico e giuridico, che costituì l’effettiva base della sua educazione intellettuale e politica, e dello storicismo nelle sue versioni idealista-crociana e marxista. Fra i suoi studi più significativi è da citare, in tale contesto, La filosofia politica di Giuseppe Mazzini, edito a Bologna nel 1917. Nel 1924 vide il suo Circolo di cultura politica devastato dai fascisti, e dopo l’assassinio Matteotti patì un mese di carcere, e una solenne bastonatura nei giorni del processo contro gli esponenti del gruppo e della testata Non mollare.
Autore di un’infinità di saggi filosofici, giuridici, politici e storici, nel 1938 fu escluso dall’insegnamento. Rimase in patria, senza cattedra, fino al 1943, quando espatriò in Svizzera (dove tenne dei corsi organizzati apposta per i rifugiati italiani presso l’ateneo di Ginevra).
Nel 1943 ebbe la casa fiorentina devastata dai tedeschi, e nel 1947 ne scrisse, titolando le sue memorie, significativamente, “Ricordi penosi”. Nello stesso anno aderì al PSLI di Saragat.
3. Roberto Lopez. Genovese classe 1910, fu giovanissimo – subito dopo la laurea – docente di storia all’Istituto magistrale di Cagliari, che allora aveva sede nel quartiere di Castello; passò poi a Pavia e Genova; nel 1935 e per tre anni, fu incaricato e libero docente nell’ateneo della sua città.
Emigrò in America all’indomani della legislazione antiebraica, insegnando in diverse università. Negli Stati Uniti fu, negli anni del secondo conflitto mondiale, particolarmente vicino a Gaetano Salvemini, e con lui fu ampiamente immerso nell’emigrazione antifascista riparata in America. E decise, anche dopo la fine della guerra, di restare negli USA, dove continuò a pubblicare apprezzati studi di storia ed economia, con prevalente scenario medievale e italiano.
Debuttò come insegnante proprio a Cagliari, appena ventiquattrenne, nel 1899, al ginnasio di Castello intitolato al Siotto Pintor. Sarebbe poi passato, in sequenza, a Siena, Terni, Assisi, Modena e Milano (titolare, al liceo Berchet, dal 1911, della cattedra di storia e geografia).
Sono gli anni, quelli trascorsi in Sardegna, che lo segneranno sia dal punto di vista meramente intellettuale – come ricercatore originale delle fonti giuridiche, delle istituzioni e degli ordinamenti economici medievali, e dunque giudicali (con i vari Solmi, Besta, Di Tucci) – ma anche sul piano umano e civile. Uno dei primissimi numeri di Archivio Storico Sardo – la prestigiosa rivista della Deputazione di Storia Patria –, proprio all’inizio del ’900, accoglie un suo scritto di grande valore scientifico sull’ “Abolizione del feudalesimo in Sardegna”, e così altre testate (richiamate nella bella esposizione bibliografica del prof. Del Piano a complemento del Profilo storico-economico della Sardegna dal riformismo settecentesco ai piani di rinascita, pubblicato con Boscolo, Bulferetti e Sabattini da FrancoAngeli nel 1991): dal Bollettino bibliografico sardo alla Rivista italiana di sociologia, dall’ Archivio giuridico alla Rivista italiana di scienze giuridiche, e i temi affrontati sono quelli – come recitano i titoli – dell’ “Abolizione del servaggio in Sardegna”, dell’ “Agricoltura e pastorizia in Sardegna nel tramonto del feudalesimo”, del “Regime giuridico del feudo in Sardegna”, delle “Terre e classi sociali in Sardegna nel periodo feudale”.
Non va dimenticata, infatti, in tale contesto, la sua militanza socialista. La sua prima tessera data dal 1895. Formatosi al marxismo critico, in quel di Firenze, fu consigliere comunale a Milano fin dal 1914 (e lo sarà ancora nel 1922 e nel secondo dopoguerra). Partecipò alle attività della Lega antiprotezionistica lombarda degli anni ’10, e naturalmente fu attivissimo nell’impegno antifascista, fin dalla fine della grande guerra – dalla nascita quindi dei fasci mussoliniani – al 1925, accanto a Turati e Treves. La definizione che se ne è data è quella di un “educatore politico”, un apostolo della democrazia socialista.
La campagna razzista del fascismo lo portò in America latina.
Nel secondo dopoguerra si schierò anche lui con Saragat, fra gli scissionisti di palazzo Barberini (nel PSI rappresentava la cosiddetta “destra gradualista”; nel PSLI giunse alla segreteria politica su posizioni classificate di sinistra: sì antisovietico ed ostile al patto d’unità azione con i comunisti, però contrario anche all’adesione italiana alla NATO e sempre diffidente verso lo strapotere democristiano). Fra le cariche di maggior rilievo da lui assunte, quella di direttore della Critica Sociale, la rivista ideologica del riformismo italiano.
5. Enzo Tagliacozzo. Napoletano classe 1909, aderente da giovanissimo al movimento sionista (che successivamente abbandonerà), fu docente di storia e filosofia nei licei per oltre un lustro, dal 1932 al 1938.
A seguito delle leggi razziali emigrò in Gran Bretagna e da lì raggiunse poi gli Stati Uniti, dove per alcuni anni fu assistente di Gaetano Salvemini presso l’università di Harward (Renzo De Felice lo classifica, nel maggior quadro dell’emigrazione ebraica, fra i militanti dei «gruppi radicali e anarchicheggianti»). Sarà collaboratore assiduo della Mazzini Society, del periodico della stessa Mazzini Nazioni Unite, e di altri periodici, dalla newyorkese Italia Libera alla bostoniana Controcorrente.
Il suo rapporto con la Sardegna e con Cagliari in particolare, è datato nel secondo dopoguerra. Fu docente presso la facoltà di Lettere nel 1954.. Di Tagliacozzo studioso della democrazia italiana in un’ottica sarda merita ricordare il saggio “Gli scritti di Carlo Cattaneo sulla Sardegna” (non si dimentichi l’attenzione del Cattaneo alla questione ebraica), uscito in Studi Sardi, anno accademico 1959-61. Più recentemente questo studio è stato pubblicato in Risorgimento e post Risorgimento, Fossataro 1969.
Una indicazione conclusiva
Seguire i percorsi biografici dei protagonisti “positivi” della vicenda ebraica negli anni della dittatura fascista, intimamente complice di quella nazista, può certamente offrire dei risultati efficaci a chi voglia accostarsi alla questione della persecuzione razziale con lo spirito dell’indagatore dei drammi umani, spirituali, psicologici, pratici (professionali e di residenza familiare, formativi ed associativi ecc.) patiti dalle vittime.
Ma per penetrare, con pari efficacia di risultato, quella spessa coltre della propaganda “negativa” che incide nello spirito pubblico, negli orientamenti generali dell’opinione locale, la lettura dei giornali, soprattutto dei quotidiani (in un’epoca in cui ancora non s’è affacciata, nelle case, la televisione e la stessa radio è presente ancora in una minoranza delle abitazioni è strumento senz’altro privilegiato.
Per questo può essere utile, anzi estremamente istruttivo, e anche… “gustoso” (o amaramente “gustoso”), uno spoglio personale delle collezioni rilegate della stampa, custodite presso le biblioteche pubbliche. Non è difficile. E comunque, se fosse necessario un riferimento bibliografico quasi di carattere propedeutico, a mo’ dì introduzione della ricerca da compiersi sul campo, si potrebbe segnalare il bel contributo reso da Alessia Anchisi al fascicolo 2 dell’annata 1998 di Orientamenti Sociali Sardi, dal titolo “Le leggi razziali attraverso la stampa sarda”.
In ultimo. Un ambito ancora non esplorato – e che meriterebbe però un adeguato scandaglio – della avversione, o almeno della diffidenza razziale, affermatasi in Sardegna (eco di un’avversione o diffidenza più generale), è senz’altro quello ecclesiale. Di esso la stampa diocesana (segnatamente Libertà, stampato nell’ archidiocesi di Sassari) può ritenersi specchio veritiero. Se ne trova appena un accenno nel recente studio di Guido Rombi Chiesa e società a Sassari dal 1931 al 1961. L’episcopato di Arcangelo Mazzotti, pubblicato nel 2000 da Vita e Pensiero, editrice legata all’Università Cattolica di Milano, ed è adesso credibile che seguiranno approfondimenti mirati.