Presbiteri immersi nella vita come uomini di Dio e della comunità, di Angelo Pittau
Sull’ultimo numero di Nuovo Cammino, quindicinale della diocesi di Ales-Terralba, è apparso un interessantissimo articolo di don Angelo Pittau, presbitero villacidrese e giornalista (oltreché poeta) fin dai tempi degli studi ginnasiali, liceali e teologici, fra Seddanus e Cuglieri. Argomento: la problematica idoneità dei preti d’oggi – tanto più del giovane clero – a rispondere alla chiamata ad un tempo religiosa e sociale che li raggiunge nelle comunità le più diverse, a cominciare da quelle parrocchiali.
La tesi di don Pittau è che una certa riconoscibile e diffusa… inidoneità rimandi, come sua causa, non a personali insufficienze ma alla caduta valoriale o di tensione etica della società civile che contiene quella ecclesiale, la quale ne è così per prima colpita, trascinando in un indebolimento continuo, e nella frequente dimenticanza della centrale vocazione ad essere sale e lievito, le nuove leve. Per un mestiere, un ruolo, si spegne una vocazione all’affiancamento che sa essere qualche volta guida, altre volte soltanto compagnia, sempre condivisione.
E’ quanto, ci si potrebbe permettere di dire, condividendo per larga parte questa opinione (suffragata da mille analisi sul campo), sta avvenendo ormai da decenni anche nella politica o nell’amministrazione, nella scuola, nei servizi generali alla comunità (chi mai avrebbe immaginato – per riassumere adesso tutto in un nome simbolico – che un Berlusconi o un Salvini potessero condurre il governo di un paese che era stato di Cavour e Giolitti e De Gasperi?).
Molte vicende della Chiesa sarda, anche recenti e recentissime, rimandano ad un arretramento che pare strutturale (e deresponsabilizzato, di mano ipocrita dunque) e genera così, in chi è chiamato a formarsi e ad esercitare un ministero, personalità deboli e confuse. Ne è stato pressoché mortalmente colpito, ai tempi della presidenza Mani, il seminario regionale, quando la massa dei vescovi isolani non alzò la schiena per difendere l’istituzione da chi voleva dimidiarla fra lo sperimentato ordinario (le diocesi cadette lasciavano a Cagliari, dovendosi… accontentare, i loro giovani) e l’attesa magistrale (i cagliaritani erano destinati dal primo anno di teologia alla Gregoriana o alla Lateranense, ecc.).
Questione di pizzi che ritornano, di abiti e saturni in rilancio, di latinorum e messe lefebvriane e di silenti avversioni alle pronunce conciliari ed ecumeniche. Confusione, per dirla con Alberto Melloni, fra la santa tradizione che rimanda alle fonti – come ha fatto il Vaticano II – e le anticaglie di San Pio V… Ma questione anche di altro. Bisognerebbe approfondire, senza temere nulla. Essendo però pronti anche a revisioni radicali di comportamenti e, prima ancora, di impostazioni mentali. Ripensando, come anche in economia, a priorità e compatibilità, ripensando, magari aristotelicamente, a sostanza ed accidente, e rispettandone le relazioni…
Don Pittau ha già celebrato il suo giubileo, in questi giorni è toccato a don Cannavera e ad altri loro colleghi di pari statura intellettuale, morale ed ecclesiale. Sarebbe bello oltre che utilissimo ripassare la loro testimonianza di vita, e cogliere quanto di storico sia in esso ed insieme di evangelico, non di clericale: in altre parole, di secolare nell’ordinario umano, fuori dalle strettoie catechistiche del nuovo conformismo. (gf.m.)
Va bene da Cuglieri a Cagliari, ma poi?
Ho letto con grande coinvolgimento la pagina di Nuovo Cammino dedicata alle vocazioni sacerdoti in Sardegna ed in modo particolare nella nostra diocesi di Ales; ho letto l’articolo di Mario Girau, quello del Rettore del Pontificio Seminario Regionale e le considerazioni di Mons. Antonio Massa.
Credo che noi presbiteri (sarebbe bene che usassimo per noi il meno possibile il sostantivo “sacerdote” per non continuare a cadere in certe deviazioni) giustamente siamo pensosi sulla situazione: da una parte le “vocazioni” che vengono meno e dall’altra parte i presbiteri ordinati in questi ultimi anni (credo che Mons. Massa pensasse a loro). Sono problemi che non ci lasciano insensibili, ci coinvolgono.
Onestamente non si vuole colpevolizzare nessuno. Ma forse siamo dai tempi di Mons. Efisio Spettu che si cerca di affrontare il problema, di parlarne, di cercare onestamente delle risposte. Mi chiedo cosa si è rotto nella formazione dei chierici con il passaggio da Cuglieri a Cagliari, nella divisione del Seminario Regionale dalla Facoltà Teologica Regionale, nell’affidamento del Seminario Pontificio al Clero Regionale e della Facoltà all’Ordine dei Gesuiti. Come mi chiedo (senza offendere nessuno) come mai pochi prendono la licenza in teologia, alcuni faticano tantissimo a prendere il baccalaureato. So bene che alcuni arrivano in seminario e in facoltà dal liceo classico, altri da istituti tecnici dove la cultura umanistica fondamentale per gli studi in teologia non è proprio l’apice. D’altra parte non parlo solo di “cultura” ma di quella formazione che era proprio di chi sentiva la vocazione al ministero presbiterale.
Sembra che la situazione sia quasi sfuggita di mano; così non è solo la mancanza di vocazioni a preoccupare vescovi, preti e laici, ma anche lo stile di vita e di pastorale di una parte dei preti giovani. Non mi riferisco solo alle sottane, alle pianete, alle cotte che ritornano di moda. C’è qualcosa di più profondo, di essenziale, di esistenziale.
Ho un ricordo bello e un’alta stima del seminario e dei superiori che ho avuto a Villacidro e poi a Cuglieri. Cuglieri mi ha fatto uomo, uomo libero e prete; mi ha dato discernimento per la mia vita di presbitero, mi ha dato sogno, passione.
Ma credo che sia diventato presbitero con il mio stile più sotto la mantella di don Manias quando andavo con lui nelle case dei malati, anziani, poveri o quando pregavo a suo fianco dinanzi al Santissimo o giocavo nella sede dell’Azione Cattolica.
Questo più del seminario stesso, dei superiori o direttori spirituali.
Ancora, forse e senza forse, maestri di presbiterato mi sono stati i miei genitori, i miei fratelli, i miei amici, e direi e dico le mie amiche, senza arrossire. Tutto questo è scomparso.
Dove preti quasi non ce n’è, ma c’è la fede
D’altra parte premetto sempre ragionando di vocazioni che la Chiesa di Corea e del Giappone ha conservato la fede in Cristo Gesù senza preti per due cento anni!
Ho pure l’esperienza dell’Africa, ma anche dell’America Latina (penso all’Honduras) dove il prete va in tante comunità una volta al mese (quando va bene).
Mi sembra che adesso i giovani preti (non dico tutti e vorrei sbagliarmi) si formino per un mestiere, un ruolo.
Non hanno passione, sogno, ideali, non volano alto. Certo sono più efficienti di noi: computer, Iphone, Ipad, interconnessi. Forse e senza forse pregano, cantano, guidano le liturgie meglio di noi. La gente li ammira “ta bellu” dicono… ma non convincono.
Mi sono messo anch’io delle domande.
Da parroco ho avuto quasi sempre il viceparroco (tutti o quasi tutti) presbiteri di grande spessore. Il più stimato, seguito dalla gente, era un prete gay. Lo allontanai di brutto dalla parrocchia, i fedeli volevano fare le fiaccolate per difenderlo!
Ho avuto anche la bella esperienza in parrocchia dei giovani che si preparavano al sacerdozio, che guardavo con simpatia ed affetto paterno.
Tutte esperienze positive (o quasi tutte!) ma anche con loro mi chiedevo cosa “mancava”, senza colpa loro.
Cosa noi preti diocesani, cosa il seminario non aveva trasmesso, cosa non avevamo dato?
Oggi mi dico, senza colpevolizzarmi, che questi giovani sono figli del tempo che stanno vivendo. Hanno altre categorie, altri schemi mentali, altre modalità di pensare, di comportarsi.
Se ieri avevo la tentazione di giudicarli, di puntare il dito sul seminario oggi mi sembra che non possiamo giudicarli. Sbagliamo tutto giudicandoli.
È un cammino che sta facendo la Chiesa, un cammino di spoliazione, un cammino nella notte anche se sappiamo che poi c’è l’alba.
D’altra parte i problemi oggi sono per i singoli battezzati, per le famiglie, le Associazioni Cattoliche, per i religiosi.
La crisi della Chiesa e del suo clero è la stessa crisi della società
Ieri era un mondo che cambiava, oggi è un mondo liquido, inafferrabile, una realtà che sfugge nelle sue forme.
Certo c’è sofferenza; non ci sono preti ma le chiese sono vuote: nella società non c’è più posto per noi. Chi volete che si accorga che non ci sono preti o che si accorga come sono i preti giovani?
Per concludere, ed anche per non contradirmi troppo e per non apparire rassegnato, mi sembra che abbiamo perso il senso del lavoro pastorale, di essere mangiati dalla passione delle anime.
Siamo spariti dalle chiese, un fedele ci cerca e non ci trova; non insegniamo più nemmeno religione, spariti dalle scuole; non siamo nel mondo del lavoro, non siamo coinvolti nella povertà della gente, nella salute, nel bisogno abitativo.
Arriviamo in chiesa giusto per metterci il camice e celebrare, finita la celebrazione scappiamo; non c’è sistematicità nel lavoro pastorale (formazione delle famiglie, dei giovani, dei ragazzi, delle catechiste, non visitano i malati, – mandano i ministri dell’Eucarestia -) non accolgono i poveri. L’otto per mille utilizzato per dare lo stipendio ai preti ci ha spento.
Mia madre raccontava di un prete che la mattina andava a casa di nonno per sbucciare e tagliare le mandorle con la servitù: alla fine della mattina faceva finta di andare via. Mio nonno lo invitava a pranzare con loro, padroni e servitù. Il prete restava, aveva fame. Mamma lo ricordava come un santo.
Mi chiedo non sarà necessario che i preti tornino alla normalità, siano senza ruolo, lavoriamo e servono la comunità…
Concludendo direi che non è necessario essere pochi e buoni: basta essere immersi nella vita come uomini di Dio e della comunità, uomini fragili, poveri uomini innamorati di Cristo e della Povera gente.