Titino e Pietro Melis, le ampie visioni, il comune liberalesimo, l’esperienza di amicizia e consentimento nelle parole di Paolo De Magistris di Gianfranco Murtas

Le sorelle e i fratelli Melis, con alcuni nipoti. Titino è il primo da destra; Pietro, il terzo da destra.

Era il 1992 e in vista della pubblicazione del quarto e ultimo volume della serie sardoAzionista all’insegna di “documenti e testimonianze”, ivi includendo il meglio delle personalità del sardismo, dell’azionismo e del repubblicanesimo isolani negli anni della lotta antifascista, della liberazione e della ricostruzione nell’ordinamento repubblicano ed autonomista, chiesi un contributo a Paolo De Magistris.

Da due anni egli aveva ormai lasciato lo scranno di giunta e anche di Consiglio, aveva anche lasciato, di fatto, la politica. I malanni della malattia cominciavano a farsi sentire ed egli aveva riorganizzato la sua vita. Ma anche nella nuova situazione continuò a mostrarmi disponibilità e grande rispetto, forse valorizzando il tanto che, sul piano dei valori di coscienza e religiosi, ci univa e valutando con benevolenza anche il molto che, sul piano di certe visioni ideologiche, civili e politiche, ci distingueva e anche allontanava.

Il libro cui mi riferisco porta il titolo Titino Melis, il PSd’A mazziniano / Saba, Fancello, i gielle, ed in esso una intera corposa sezione è interamente puntata sul leader storico del Partito Sardo d’Azione, cui avrei successivamente dedicato altri studi, la raccolta integrale dei suoi interventi parlamentari nella 1.a e 4.a legislatura repubblicana, nonché gli appunti autobiografici stesi nel suo tormentatissimo declino di vita.

Che c’entrava Paolo De Magistris, intellettuale e uomo politico cattolico, con il sardismo laico dei Melis, e addirittura con quello sfondo politico azionista, mazziniano pur in senso lato? Che c’entrava, in particolare, con la figura di Giovanni Battista Melis, che c’entrava con quella di suo fratello Pietro, esponente di primo piano anch’egli del PSd’A?

C’era il tanto, invece, anche al di là dei prolungati e generali rapporti di collaborazione politica ed istituzionale dei Quattro Mori con lo Scudo Crociato. C’era, relativamente a Titino, la lunga consuetudine in Consiglio comunale; c’era, relativamente a Pietro, il comune lavoro – l’uno da titolare politico, l’altro da dirigente – all’assessorato regionale dell’Industria negli anni delle giunte di apertura al centro-sinistra presiedute da Efisio Corrias (e precisamente dal novembre 1958 al giugno 1965). Gli anni che erano anche quelli di elaborazione e lancio del Piano di Rinascita.

Aveva da dire, poteva dire cose preziose, Paolo De Magistris e le offerse, con la solita generosità, alla pagina.

 

Pietro Melis, il professore

Nell’anno scolastico 1938-39 frequentai la IV ginnasiale nell’antico “Siotto Pintor” che da poco (tre anni) aveva lasciato la vecchia, originaria e storicamente gloriosa sede di via San Giuseppe per trasferirsi – da convento a convento – nell’edificio già dell’ospedale di Sant’ Antonio Abate dei Fatebenefratelli.

Dalla vecchia sede erano venute giù anche le strutture materiali – banchi, cattedre, etc. – con il carico di “ricordanze” delle tante generazioni che avevano lasciato inciso il segno del loro passaggio: firme, scacchiere, pazienti lavori di intaglio e l’immancabile glossario al limite del turpiloquio.

Al vecchio mondo apparteneva anche il grosso del corpo docente, dal Preside a insegnanti famosi per cultura e per rigorosità in fatto di disciplina, nonché alcune mitiche figure di ausiliari che sembravano essere incorporati alla scuola fin dal tempo degli Scolopi.

Ma la discesa dall’aristocratico (e decadente) Castello al più borghese (e vivace) quartiere di Marina, aveva con sé anche una simbolica carica di novità espressa, specularmente, da un gruppo di giovani professori (quasi tutti non ancora trentenni) che della didattica avevano una concezione più aperta e che, senza tradire l’indispensabile rapporto autoritario tra docente e discente, amavano creare con gli alunni un clima di amicizia, anche mediante metodi di insegnamento coadiuvati da una attenzione al mondo delle realtà extra-scolastiche.

Ebbi la fortuna di trovare uno di questi giovani insegnanti: Pietro Melis.

Autorevole ma cordiale, sapeva porgere, con tutta l’evidenza di una profonda preparazione letteraria, il suo bagaglio didattico, rispettoso dei collaudati vecchi canoni (usavamo ancora lo Zenoni !), ma attraverso una più viva espressione di attualità, con ogni possibile riferimento alla realtà storica e culturale locale che, così, non risultava più un fatto staccato dalle implacabili regole mnemoniche della sintassi greca o latina o dalle indispensabili intelaiature delle cronologie storiche, ma, al contrario, dava vita e vitalità all’armamentario didattico facendone cogliere quel continuum che lega il passato e il presente spiegandoli vicendevolmente.

E, così, le visite al “carcere di S. Eflsio”, all’anfiteatro romano, alla torre di San Pancrazio, diventavano lezioni all’aperto di storia, di lingua, di costumi.

Purtroppo questo favorevole clima non durò a lungo. Prodromi – da noi giovanissimi non percepiti – di quella guerra che il settembre 1939 avrebbe coinvolto l’Europa e il giugno del 1940 anche l’Italia, provocarono la chiamata alle armi di una vasta categoria di intellettuali (docenti, professionisti, funzionari) che in precedenza ne erano stati esonerati. Furono organizzati dei corsi accelerati di allievo ufficiale cui fu iscritto anche Pietro Melis.

I corsi si svolgevano presso il “Panificio Militare” di Buon-cammino dove si trovarono uomini per temperamento e posizione ideale assolutamente distanti dallo spirito guerriero e molti dei quali, poi, avrebbero avuto ruoli di notevole rilevanza nella vita civile post-bellica, nell’amministrazione, nella politica, nella cultura, nell’economia: Alberto Carboni, Salvatore Marcialis, Casimiro De Magistris, Gigi Contivecchi, Francesco Alziator, etc.

Per l’anno scolastico 1938-39, quindi, fummo affidati a diverse supplenze non certo all’altezza di Pietro Melis. Egli però poté riprendere l’insegnamento per il successivo anno scolastico e portarlo a conclusione in continuità didattica. Nacque così un rapporto affettuoso e rispettoso che sarebbe poi stato determinante per un altro, più impegnativo e profondo rapporto.

Nel 1949, dopo le prime elezioni regionali, andava prendendo corpo la struttura amministrativa della quale fin dall’agosto entrai a far parte.

Mi trovai così, qualche anno dopo, ad accogliere il prof. Pietro Melis (Consigliere Regionale dalla prima legislatura) quando, nominato Assessore, si presentò a prendere possesso del suo ufficio nel Palazzo INA di Piazza Darsena. Poiché però fui assegnato ad altro Assessorato si trattò solo di un fugace incontro. Di lì a non molto tempo, però, si pervenne ad una nuova Giunta e Pietro Melis ebbe l’incarico di Assessore all’Industria, dove nel frattempo io ero stato assegnato. Ebbe inizio così il lungo, intenso, appassionato, amichevole periodo di collaborazione durato quasi sei anni.

Ricordo che, anzi, l’intesa e la collaborazione nacquero, per un gesto di fiducia e di stima che mi colpì e lusingò, prima dell’insediamento della nuova Giunta: fui infatti chiamato ad apportare il mio modesto bagaglio di esperienza burocratica per la redazione delle “dichiarazioni programmatiche”. I settori di competenza erano, forse, di importanza, per lo sviluppo della Sardegna, maggiore di quanto lo siano ora.

Si pensi da un lato alle prospettive che il tema della industrializzazione aveva negli anni delle speranze e, dall’altro lato, a quel che significava l’attività mineraria in termini di produzione (400 concessioni in attività) e di occupazione (12mila unità nel piombo e zinco; 6-8mila nel carbone; oltre mille nel ferro).

Furono gli anni fervidi dell’impostazione di nuove strategie: dall’assetto del territorio a fini di sviluppo (Aree, Nuclei e Zone Industriali), alle ipotesi di una verticalizzazione della metallurgia (impianto Imperial Smalting dell’AMMI) e alla connessa politica di ampliamento della produzione e distribuzione di energia elettrica.

Ricerche petrolifere (d’intesa col gruppo tedesco Wintershale); ricerche di nuove mineralizzazioni fuori dalle aree tradizionali; infrastrutturazione a servizio dello sviluppo. Se posso fare un esempio illuminante, vorrei ricordare che l’Assessorato all’Industria assicurò in quegli anni (1963-64) il finanziamento di quell’asse viario di collegamento tra l’aeroporto, la Città di Cagliari e l’Area Industriale che poi si è realizzato nel 1990!

Furono anni intensissimi, caratterizzati da una visione ampia dei problemi, da una perfetta intesa tra concezione politica e traduzione amministrativa e da una estrema linearità in quei rapporti col mondo degli imprenditori (gli anni della calata dei grandi gruppi e delle loro strategie tendenzialmente invasive) che, forse, dopo, manifestarono qualche lato meno limpido nella stretta interdipendenza col mondo politico.

Furono anche anni di grandi eventi, taluno dei quali con risonanze nazionali e internazionali. Cito, così, esemplificativamente i non sempre razionali programmi concernenti il miraggio della piena utilizzazione del carbone Sulcis, su cui gravitavano attenzioni di grandi gruppi esteri, la contrapposizione dura, originata da una politica aziendale ancora da “padrone delle ferriere”, tra l’Assessore Melis e la “Pertusola” (cioè il gruppo Rotschild) che portò (con mio parere contrario) l’Assessore a tentare di sbloccare la situazione con la dichiarazione di “non gradimento” dell’Amministratore Delegato ing. Pani Dudebert.

Sei anni – quelli trascorsi gomito a gomito con Pietro Melis – di attività continua, senza soste, diurna e notturna, nella tessitura di una trama di sviluppi economici che doveva proiettare la Sardegna nei grandi circuiti della imprenditorialità, senza sacrificarne i legami culturali con la sua base tradizionale.

A nulla vale che, poi, la storia abbia fatto calare la scure delle delusioni e dei fallimenti. Resta la certezza di una generosità e ampiezza di visioni che collega l’uomo politico all’uomo di raffinata cultura e la passione di sardo alla sensibilità verso le aperture internazionali.

 

Giovanni Battista, Titino Melis l’avvocato

Fin dai primissimi attimi della ripresa della vita democratica (al rientro a Cagliari dallo sfollamento) fu facile incontrarsi – di persona o attraverso la stampa – con le figure emergenti della entusiasta vita politica. Ovvio quindi avere contatti (molte erano le forme di una vitalità politica che solo più tardi avrebbe conosciuto deformazioni, stanchezze e corruzione nel professionismo e nella burocratizzazione) con alcuni leaders. Tra questi, per irruenza, foga oratoria e dinamismo, si collocava G.B. Melis, anche per l’aureola di simpatia che, provenendo da quella atmosfera di antifascismo che durante il ventennio aveva identificato, quasi, Lussu con il rifiuto del regime, gratificava il rinato Partito Sardo d’Azione.

Di Lussu, infatti, G.B. Melis era più intelligibile per una umanità più calda e per una più evidente linearità politica, immune da quelle “contaminazioni” che, di lì a non molto, avrebbero portato alla scissione, alla creazione del PSd’ Az. Soc. e, infine, alla confluenza nel PSI.

Massimalista nella foga oratoria, G.B. Melis non lo era, invece, nella prassi politica, come risultava dai suoi stretti legami di condivisione attorno ai grandi fatti della democrazia e delle problematiche sarde, con esponenti di altri schieramenti: posso citare in particolare Ciccio Cocco-Ortu, Antonio Maxia, Peppino Martelli, Luigi Crespellani. Ma vorrei ricordare anche l’amicizia e, in certo qual modo, l’affinità di sentire “politico” con mio fratello Casimiro che dalla politica come ideologia di schieramento era lontanissimo. E proprio da questa caratterizzazione (che naturalmente non escludeva in G.B. Melis le sue “pregiudiziali sardiste”) fu rivelatrice, in un colloquio avuto con me intorno agli anni ’50, la frase con cui riconosceva un comune denominatore, dicendomi che ci accomunava «il fondamentale liberalesimo» (oggi si direbbe detto “il patrimonio liberal”).

I rapporti si intensificarono quando il fratello Pietro diventò Assessore all’Industria e furono molte le occasioni di verificare comuni punti di vista e in particolare sul tema della politica elettrica regionale e sul ruolo che avrebbe potuto svolgere una intesa tra Ente Sardo di Elettricità ed Ente Autonomo del Flumendosa.

Negli anni ’60, poi, sedemmo entrambi al Consiglio Comunale di Cagliari, nel periodo (1960-67) della Giunta a cinque (DC, PSI, PSDI, PLI, PSd’Az.). Riunioni di intergruppo, posizioni dialettiche in Consiglio Comunale, consentirono, pur nelle macroscopiche differenze temperamentali, di cogliere molti punti di vista comuni.

Una rottura, invece, avvenne quando, chiamato a fare il Sindaco nel 1967, tra DC e PSd’Az. non si raggiunse l’accordo sul posto in Giunta (cioè sulla materia della delega all’assessore sardista): la responsabilità ne fu addossata a me (e così invece non era se non in piccola parte) e ciò portò ad un confronto-scontro che non tralasciò occasione per attacchi anche duri.

Oggetto privilegiato della polemica fu spessissimo l’atteggiamento nei confronti dello Stato che G.B. Melis avrebbe voluto – a parole – barricadiero e piazzaiuolo, con forme, quindi, lontanissime dal mio modo di pensare e che mi attirarono filippiche virulente.

Sono però convinto che poi, come era suo costume, passato il momento della battaglia, rinascesse in lui quel senso di rispetto e di consentimento che mi permise di condividere con Pietro e con l’altro fratello Pasquale, una cara esperienza di amicizia e di stima.

 

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