Macché revolution è tempo d’evolution, di Amos Oz
Fra la mia gente c’è chi mi vede come un pericoloso rivoluzionario amante degli arabi, dice Amos Oz: ma le rivoluzioni non mi hanno mai incantato. La chiave per aprirsi agli altri si chiama curiosità. E si conquista così….
Fra la mia gente c’è chi mi vede come un pericoloso radicale. Un rivoluzionario, un amante degli arabi, persino come un traditore. Ma io non ho mai pensato di essere un radicale. Le rivoluzioni non mi hanno mai incantato. Io mi vedo come un evoluzionista. Ho imparato da Emmanuel Kant l’idea del legno storto dell’umanità, che non si deve mai tentare di raddrizzare: “Da un legno così storto come quello di cui è fatto l’uomo, non si può costruire nulla di perfettamente dritto”. È proprio per questo che così tante religioni e così tante rivoluzioni sono sfociate nel sangue. Quella era gente che voleva raddrizzare il legno storto dell’umanità, voleva cambiare la società per migliorare la natura umana. Era gente che voleva rendere le persone più generose, più disponibili, in una parola: migliori. Ma non funziona. La natura umana non può essere cambiata. Ed è avvilente, perché tutti i rivoluzionari, quei poveri ingenui — che siano di destra, di sinistra, religiosi, anti-religiosi, socialisti, nazionalisti — hanno una sola cosa in comune: il desiderio di creare un nuovo essere umano, di migliorare la specie.
Il personaggio dostoevskiano Ivan Karamazov dice a un certo punto, con un sorriso: ” La psiche umana è troppo vasta; come vorrei restringerla un po’”. Ebbene, io no. E non consiglierei a nessuno di provarci. Tutte le rivoluzioni, a partire dalla Rivoluzione Francese passando per le rivoluzioni comuniste e socialiste del XIX e XX secolo fino alla Rivoluzione Russa, ma anche il fascismo e tutti i totalitarismi partivano dal presupposto che cambiando le persone si poteva migliorare il sistema. È falso. Il sistema può migliorare, o peggiorare, ma le persone non cambiano e se si prova a raddrizzarle il risultato non può essere che violenza.
Ho vissuto in un kibbutz per oltre trent’anni. Si tratta forse dell’unico esperimento sociale che non ha mai comportato spargimenti di sangue. Non c’erano nemmeno le stazioni di polizia, nei kibbutz. Non si praticavano sanzioni, non si infliggevano punizioni. Certo, c’erano i pettegolezzi, che indubbiamente svolgevano un’efficace azione di controllo sociale. Ma senza spargimenti di sangue. I miei tanti anni nel kibbutz mi hanno insegnato che è meglio non pensarci neanche, a migliorare la natura umana.
Mi chiederete se sono contrario a ogni forma di rivoluzione, in qualsivoglia circostanza. La risposta è no. Credo che ci siano situazioni in cui la rivoluzione è l’unico ripiego possibile. Quando l’oppressione è insostenibile. Quando le persecuzioni, le discriminazioni, le ingiustizie, le sofferenze sono insopportabili, allora sì, occorre imbracciare le armi e combattere. Ma ricordate: questo non migliorerà la natura umana. Forse ristabilirà la pace, per qualche tempo, ma è tutto. Non abbandonatevi alla speranza di poter creare un uomo nuovo.
Io sono — e sono sempre stato — un peacenik, non un pacifista. I pacifisti credono che la violenza sia il male supremo del mondo. Anche io penso che la violenza sia da condannare, che sia una cosa terribile. L’ho vista con i miei occhi sul campo di battaglia. Ma per me la fonte di ogni violenza è l’aggressione. È l’aggressione la madre di tutte le violenze. E qualche volta, per respingere l’aggressione, è necessaria la forza. Ed è questa, credo, la differenza fra un peacenik e un pacifista. Io sono dell’idea che qualche volta sia sbagliato porgere l’altra guancia al nemico. Qualche volta è necessario prendere le armi e rispondere agli attacchi. Ma unicamente per respingere l’aggressione.
Ho combattuto due volte in vita mia. Sono stato sul campo di battaglia. Ma mi battevo per due cose soltanto: la vita — mia, e dei miei cari — e la libertà. Non avrei mai combattuto in nome dei luoghi sacri o delle risorse nazionali. Non avrei mai combattuto per ottenere una camera da letto in più per il mio paese. Avrei preferito andare in prigione. Avrei preferito finire in un campo di concentramento, piuttosto che imbracciare le armi. L’ho fatto, e lo farei, solo se la vita mia o dei miei cari fosse a rischio, o se il nemico mi volesse ridurre in schiavitù. Sì, sono un evoluzionista. Credo nel compromesso. Credo nelle soluzioni parziali. Credo che qualche volta ci si debba accontentare, e andare incontro al nemico o al rivale. Non per sottomettersi o sacrificarsi, ma andando incontro a un compromesso. Credo che i rimedi migliori contro i fascismi siano la curiosità, il senso dell’umorismo, l’apertura mentale, e una certa capacità di indossare i panni degli altri.
Credo che la curiosità sia una forza morale. La curiosità è un prerequisito per qualsiasi forma di elaborazione del pensiero, lo sappiamo tutti. È fuor di dubbio. Tuttavia la curiosità è anche una benedizione morale. Penso che una persona curiosa sia una persona migliore. Una moglie, un marito migliore, un vicino migliore, un compagno migliore. Per dirla tutta, credo anche che una persona curiosa sia un amante migliore rispetto a una persona che non lo è — anche se non intendo qui fornire esempi o indagare più a fondo questo particolare aspetto della curiosità. La curiosità è liberatoria. Se l’essere umano fosse più curioso, più aperto, più fantasioso, più disposto a mettersi nei panni degli altri, credo che il mondo diventerebbe un luogo più bello, passo dopo passo. Grazie all’evoluzione, non alla rivoluzione.
La repubblica, 24 giugno 2018