UMBERTO CARDIA: il teorico della città mediterranea, di Antonello Angioni

 

 

Per chi, come me, ha avuto la fortuna di conoscere Umberto Cardia molto da vicino, e soprattutto anche al di fuori dell’ufficialità delle riunioni, non è semplice tracciarne un ritratto. Ciò perchè – nel definire i caratteri dell’uomo, dell’intellettuale e del politico – inevitabilmente si sovrappongono e si intersecano ricordi e sentimenti che riflettono in qualche misura anche le emozioni e le suggestioni che, nel corso del tempo, si sono sedimentate nell’animo e nella memoria di chi è chiamato, ora, a rendere testimonianza attraverso lo scritto. Con l’evidente rischio di cedere alla soggettività dell’analisi e dei giudizi a tutto discapito dell’oggettività dell’elaborazione teorica e dei risultati che l’agire politico dell’uomo ha lasciato.

 

Peraltro scrivere su Umberto Cardia costituisce, al tempo stesso, un esercizio di grande fascino perchè si ha l’occasione di parlare di uno dei protagonisti  più attenti e dinamici del dibattito politico e culturale che ha caratterizzato la Sardegna nella seconda metà del Novecento. I suoi numerosi interventi, svolti nell’arco di oltre quarant’anni, hanno dato un contributo originale allo scenario della politica regionale e autonomista. Aveva partecipato in prima linea all’elaborazione del Piano di Rinascita, condividendo le speranze dallo stesso suscitate ma anche individuandone ben presto le contraddizioni di fondo e i limiti.

I suoi interessi spaziavano in diversi campi, scandagliati al di là delle contingenze dettate dalla politica e dagli eventi: coltivava con regolarità e metodo gli studi storici (in particolare quelli riguardanti la Sardegna) e filosofici; si occupava anche di letteratura e arte, di economia politica e di diritto dell’economia (inteso come l’insieme delle regole destinate a disciplinare il corretto operare delle imprese anche nei rapporti con i lavoratori). Dunque un uomo affascinante, dai tratti gentili e signorili, dalla formazione complessa, sempre attento al “nuovo” e alle posizioni altrui, scrupoloso nel lavoro, preciso e informato. Apertamente schierato ma – al tempo stesso – di grande onestà intellettuale; sempre pronto a rimettere tutto in discussione, a rivedere le premesse sulla base dei risultati e della realtà effettuale. Nella sua visione teoria e pratica, ragione e sentimento,  spirito e strutture materiali, non dovevano mai essere disgiunti.

Era  un convinto assertore della “dimensione internazionale” quale ambito operativo per la risoluzione dei problemi del sottosviluppo della Sardegna e delle aree deboli più in generale: riteneva che solo attraverso una politica fondata sulla cooperazione della nostra Isola con i Paesi del Mediterraneo e con l’Europa continentale si potessero porre le basi per il superamento della condizione di marginalità e di arretratezza. Tale convinzione era maturata attraverso la vasta esperienza fatta sulle questioni internazionali, prima come consigliere regionale e dirigente nazionale del PCI (essendo stato, tra l’altro, uno dei responsabili della politica estera) e poi all’interno dell’ISPROM (Istituto di cui, per diverso tempo, aveva ricoperto la carica di presidente). In particolare era un fautore del dialogo euro-arabo e dei rapporti di scambio e cooperazionali tra l’Europa e i Paesi rivieraschi del Nord Africa e del Medio Oriente.

Al riguardo sosteneva la necessità di andare verso la creazione della “Banca mediterranea di sviluppo”: una banca che, anziché  prestare danaro ad un imprenditore a fronte del riconoscimento di un interesse e del rilascio di garanzie personali e reali, doveva valutare l’iniziativa economica e partecipare al capitale di rischio dell’impresa. Con la conseguenza che se le cose vanno bene la banca ottiene una parte dei profitti; se vanno male copre una parte delle perdite. La banca in altri termini – secondo il “modello islamico” – non presta ma “investe” nel quadro di una sostanziale condivisione di responsabilità, fermo restando il potere di gestione in capo all’imprenditore. Più di recente il tema della “Banca mediterranea di sviluppo” è stato ripreso dal governatore della Sardegna, Renato Soru, nella prospettiva della creazione di un ponte per il dialogo e la cooperazione economica tra l’Europa continentale e la sponda Sud del Mediterraneo, ma anche verso i Paesi orientali che – con peso sempre maggiore – si affacciano alla nostra realtà sociale, culturale e di mercato. Nella primavera del 2005 è nata una rete di collaborazione tra la Sardegna ed alcune regioni dell’Italia centro-insulare: il Lazio, la Campania ed altre.

Umberto Cardia propugnava inoltre la necessità di andare verso l’istituzione di una “Conferenza permanente delle isole, delle regioni e delle città del Mediterraneo”. Tale conferenza, ideata e progettata nell’ambito della grande campagna per l’interdipendenza e la solidarietà Nord-Sud allora portata avanti dal Consiglio d’Europa e dalla Comunità Europea, si proponeva lo scopo di fare dell’area mediterranea – ed in particolare dei Paesi rivieraschi – un luogo privilegiato ed esemplare di relazioni, di scambio e cooperazione, dirette ad obiettivi comuni di solidarietà e di sviluppo nel quadro di nuovi e più avanzati rapporti tra il Nord e il Sud del mondo.

Il Mediterraneo – al quale Cardia, quale promotore dell’iniziativa, guardava – peraltro non era soltanto quel grande mare interno su cui si affacciano i paesi rivieraschi, sedi di alcune delle più antiche e suggestive civiltà umane (oggi raccolte in importanti e vaste comunità politiche, culturali e religiose di popoli e di Stati), ma anche lo spazio di contiguità fisica tra l’Europa, l’Africa ed il vicino Medio Oriente fino al Golfo Persico. “Nasce da questa primaria e oggettiva connotazione, geofisica e geopolitica, in un mondo che procede verso l’interdipendenza e l’integrazione, con coscienza sempre più chiara e diffusa degli interessi comuni e del comune destino, l’esigenza di saggiare, proprio nell’area mediterranea, la possibilità e i modi di un approccio non più bilaterale, tra paese e paese, ma multilaterale e globale, almeno a livello di grandi comunità di popoli e di stati, ai temi della cooperazione e dello sviluppo comune, quindi di una svolta decisiva nei rapporti Nord-Sud” (v. l’intervento di Cardia sulla rivista Cooperazione mediterranea, n. 3/1990, p. 9 e ss.).

Cardia riteneva che, in tale ambito, molto potessero fare le grandi religioni ecumeniche (il cristianesimo, l’ebraismo e l’islam), la scienza e la cultura laica e i grandi centri del sapere, come le università; moltissimo i mezzi telematici e audiovisivi dell’informazione, la stampa, la scuola, le associazioni del volontariato. Ma era convinto che il ruolo principale dovesse essere svolto dai partiti politici – che continuativamente dirigono imponenti masse di popolazione – e dalle istituzioni pubbliche rappresentative (parlamenti, assemblee, consigli) e di governo, presenti a tutti i livelli della vita associativa. Spettava dunque agli stati, alle regioni e agli enti locali, il compito – impegnativo ma ineludibile – di “tradurre i processi di disarmo e di pace in corso in una rinnovata, multiforme, concreta iniziativa e azione di cooperazione globale che abbracci tutti i campi della vita sociale: il sapere e la cultura umanistica e tecnologica, l’uso comune delle risorse e dell’ambiente, la produzione e gli scambi”.

La prospettiva era quella di un Mediterraneo unificato, attraversato da una fitta rete di relazioni cooperazionali e di scambi pacifici, nel quale le regioni meridionali e insulari italiane ed europee (in primis la Sardegna) – con le loro città e i loro porti operosi, con i loro centri del sapere, della cultura e della ricerca avanzata, con i loro patrimoni di risorse umane e ambientali – potessero trovare le condizioni più favorevoli al loro sviluppo endogeno, all’uscita dalla marginalità, alla costruzione di una nuova (più umanamente solidale) civiltà mediterranea ed all’ampliamento dei suoi orizzonti.  I Paesi rivieraschi dell’Europa   dovevano dunque collegarsi con quei popoli e quelle culture dell’altra sponda del Mediterraneo, apparentemente  distanti e lontani ma in realtà profondamente affini per modi di vita e di pensiero e per antiche comuni vicissitudini storiche e reciproche influenze.

La Sardegna ha costituito, da sempre, una delle più grandi realtà insulari del Mediterraneo, posta lungo l’antica “rotta delle isole” che collegava i bacini occidentale e orientale del grande mare interno. Ci sono millenni di storia comune delle rive e tuttora permangono i segni della loro unità, di imperi tramontati e di egemonie scomparse, di culture stratificate. Oggi in quest’area non secondaria del mondo emergono e si manifestano forme nuove di contatto e di dialogo culturale, flussi di popolazione, convergenze di interessi e integrazioni di fattori produttivi, mentre gli scambi  tendono sempre più ad intensificarsi e a dar luogo ad un vero e proprio processo di stretta interdipendenza e, al limite, di integrazione e unificazione.

E’ per tali ragioni che Cardia vedeva nel Mediterraneo un’area privilegiata di cooperazione internazionale orientata a fini di sviluppo comune. Ma il Mediterraneo – secondo lui – all’alba del terzo millennio non era più soltanto, né principalmente, il mare delle sue rive, delle piccole e grandi civiltà del passato, illuminato dai “fari” delle città storiche (Atene, Alessandria, Cartagine, Roma, Bisanzio, Barcellona e altre) e unificato – volta a volta – dall’egemonia di singole potenze economiche, politiche e culturali. Era ormai qualcosa di più ampio e di diverso.

“Il mare nostrum, quale che fosse il soggetto di quella pretesa di dominio, non è più che il ricordo, sempre più vago, d’un passato che precipitosamente si allontana. La nostalgia che ne permane in noi, con l’eco dei suoi cantori (Omero, Dante, Cervantes, Baudelaire, Valery) non ha più alcuna presa effettiva sulla realtà odierna. Non solo le sue rive non costituiscono più un continuum, come ai tempi di Roma o, più di recente, dell’imperialismo colonialista europeo, ma su di esse, attraverso processi di integrazione in pieno svolgimento, sono sorte comunità di popoli e di stati a dimensione continentale e subcontinentale, con identità politiche, economiche, culturali e religiose definite e diverse, che integrano – nel proprio spazio e nella propria differenza dinamica – le fasce rivierasche in altri tempi congiunte e connesse nel continuum marittimo mediterraneo: la Comunità Europea, il Comecon con le sue propaggini transoceaniche, la Lega degli Stati Arabi, l’Organizzazione dell’Unità Africana” (U. Cardia, Mediterraneo e cooperazione internazionale, in Cooperazione mediterranea, n. 1/1988, p. 7).

E’ in tale ambito che Cardia – da attento osservatore quale era – registrava un graduale ma significativo processo di emersione delle autonomie regionali e urbane come nuovi soggetti dell’azione cooperazionale e, prima ancora, fautori di contatto e di dialogo fra le diverse civiltà. Non a caso, scorrendo gli atti dei seminari dell’ISPROM, ai quali partecipava con grande assiduità, è possibile riscontrare il costante sforzo di evocare – oltre i soggetti statuali e di gruppo, oltre le organizzazioni non governative e le imprese pubbliche e private, oltre le associazioni scientifiche e culturali, oltre le Università e i centri del sapere -  i nuovi soggetti della cooperazione: le regioni e le città mediterranee.

Negli ultimi anni della sua vita operosa, prima che nel dicembre del 1991 una terribile ischemia ne annullasse le energie intellettuali, aveva dimostrato una straordinaria capacità di ripensare alla sua esistenza e alla lunga militanza nel PCI (e poi nel PDS) manifestando, con grande onestà, la disponibilità a riconoscere – non solo nei circoli ristretti – gli errori del comunismo (internazionale e nazionale): basti pensare al fatto di aver sposato, nel 1956, la linea degli invasori sovietici e non del popolo ungherese. E ancora allorchè, sulle colonne de L’Unità, e dunque pubblicamente, pochi mesi prima dello “strappo” di Occhetto, aveva denunciato l’ “abbandono”, da parte di Togliatti, di Gramsci nelle carceri fasciste a seguito della “svolta” conseguente al Congresso di Colonia (1931).

Per tale condotta cristallina, nonostante la sua grande cultura e il carisma che esercitava, non sempre aveva avuto vita facile all’interno del suo partito. Era in qualche modo un “eretico”, uno che pensava con la propria testa, talvolta un oppositore interno. Siffatta condizione derivava dalla sua onestà intellettuale, dall’indipendenza del politico e dalla sua capacità di effettuare analisi sempre chiare, rigorose e critiche. Ricordo una dichiarazione di voto – rilasciata al congresso della Federazione del PCI svolto  a Cagliari nel febbraio del 1983 – con la quale lamentava “un certo affievolimento …… dell’ispirazione regionalistica e autonomistica”. Ma soprattutto, per quanto riguarda i principi del socialismo, esprimeva forti riserve “nel carattere ancora empirico, e per questo incerto, con cui si manifesta la critica, mentre si respinge ogni autocensura, nei confronti del modello ideologico e pratico imposto in URSS e in tutta l’internazionale nel periodo della direzione staliniana, modello che nè poteva nel passato nè può tanto meno identificarsi nel presente coi valori fondamentali e più che mai vivi, che stanno alla base di quella rottura epocale che fu la Rivoluzione d’Ottobre”.

“Anche qui – aggiungeva Cardia  nella dichiarazione di voto – avrebbe dovuto e dovrebbe soccorrere l’insegnamento e la tradizione internazionalistica di Gramsci ma, purtroppo, a tale tradizione si fa nel documento congressuale del Partito solo un fuggevole accenno e per di più perpetrando l’equivoco di identificarla con la tradizione che si richiama a Togliatti, meritevole di ogni rispetto ma di altro percorso e di differente natura”. La discontinuità tra il pensiero di Gramsci e l’azione di Togliatti – dai più negata – verrà successivamente approfondita da Cardia anche a livello teorico con apposite riflessioni. L’ultima riserva espressa in sede congressuale riguardava “la convinzione, maturata da tempo, ed oggi diventata certezza, che senza un rinnovamento sostanziale del vertice del partito, non potranno essere create le condizioni nè di un efficace lavoro, teorico e pratico, su scala europea e internazionale, nè le condizioni per creare in Italia le basi dell’alternativa e del governo democratico”.

Nel 1990 (unitamente a Giovanni Maria Cherchi, Giovanni Licheri, Eugenio Orrù, Giuseppe Podda, Nereide Rudas, Antonio Sassu, Bruno Terlizzo ed allo scrivente) aveva fondato a Cagliari l’Istituto di Studi e Ricerche Antonio Gramsci che, pur entrando a far parte della “grande famiglia” degli omologhi istituti, se ne differenziava anche per alcune peculiarità dello statuto: l’associazione, tra l’altro, si prefigge lo scopo di contribuire “allo sviluppo degli studi e di ogni altra attività culturale concernenti la Sardegna nella sua soggettività storica, politico-istituzionale e culturale”. Fatto unico per quegli anni (era il 1990), in caso di scioglimento dell’associazione, il patrimonio non veniva devoluto al PCI ma la sua destinazione era rimessa alla autonoma e sovrana volontà dell’assemblea.

 

Il suo impegno politico era tutto teso alla ricerca di una sintesi tra impegno rivoluzionario, in senso gramsciano, e pacifismo. Nella casa di viale Merello riceveva tanti giovani – molti di estrazione cattolica – impegnati nelle battaglie per la pace, la solidarietà e lo sviluppo sostenibile (equilibrio tra crescita economica e tutela ambientale). Ad essi dedicava tutto il suo tempo con grande generosità e sincero interesse. Per la sua apertura mentale aveva inoltre una straordinaria capacità di stabilire un dialogo tra intellettuali e politici di matrici ideologiche assai diverse.

Altro tema che per Cardia rivestiva grande interesse era quello riguardante lo sviluppo della città di Cagliari e dell’area urbana cagliaritana più in generale: sin dal 1980, allorchè  con spirito di servizio diede la disponibilità a rientrare in Consiglio comunale,  aveva elaborato – con un gruppo di “fedelissimi” (fra i quali ritengo di dover ricordare Carlo  Salis e il compianto Enrico Milesi) le idee per un piano integrato in grado di creare le premesse per la salvaguardia, il riequilibrio e lo sviluppo armonico  di questo importante territorio della Sardegna.

Il suo grande contributo alla città di Cagliari fu proprio la teorizzazione dell’importanza  dello sviluppo dell’area urbana di cui fu promotore e instancabile sostenitore nella ferma convinzione che i problemi della capitale della Sardegna e del suo hinterland avrebbero potuto trovare adeguata soluzione solo nell’ambito della nuova dimensione urbana e del “piano integrato” d’area.

Cardia partiva dalla constatazione che tale area – per la sua storia, per i beni ambientali e architettonici che conserva, per la funzione che è chiamata a svolgere nel quadro di una ipotesi di sviluppo economico e sociale dei Paesi del Mediterraneo – rappresentava un patrimonio di grande interesse regionale e meridionalistico ma anche europeo e internazionale. Peraltro in quest’area erano (ed in gran parte tuttora sono) presenti le contraddizioni tipiche sia delle società avanzate dell’Occidente e sia delle sue aree più arretrate in un quadro che – in termini più generali – un noto economista italiano (Giorgio Fuà) aveva definito di “sviluppo tardivo”.

Infatti l’area urbana cagliaritana, in quegli anni, registrava: l’insediamento di una concentrazione industriale alle porte della città e la persistenza di una vasta disoccupazione di massa, specie giovanile; un’attività portuale e commerciale aperta, almeno potenzialmente, verso sbocchi arabo-africani ma non sostenuta da un sistema infrastrutturale e di trasporti capace di contribuire a superare i limiti tradizionali della perifericità e dell’isolamento in relazione anche ai ritardi e alle incertezze che ostacolavano la realizzazione (all’epoca in corso col contributo finanziario della Comunità Europea) del moderno porto-canale industriale; l’esistenza di un contesto geo-pedologico ed ecologico di rara varietà e bellezza, formato da zone pianeggianti e collinari, spiagge riparate, aree lagunari e salmastre (in gran parte tutelate da convenzioni internazionali) suscettibili di valorizzazione economica e produttiva ma in stato di grave abbandono e degrado; la presenza di un centro antico di notevole valore storico, paesaggistico e culturale ma in stato di uguale degrado e abbandono; una notevole espansione edilizia, specie nel campo delle seconde case, insieme alla carenza di alloggi, quasi drammatica, per le famiglie a reddito fisso.

Questo il quadro di riferimento esistente – quasi una fotografia della situazione -  allorchè il Gruppo del PCI al Consiglio Comunale di Cagliari, nel dicembre del 1981, su suggerimento e stimolo di Umberto Cardia, elaborò e presentò il documento contenente le “Idee per un piano di salvaguardia, di riequilibrio e di sviluppo integrato dell’area urbana cagliaritana” (che si trova pubblicato nel numero, purtroppo rimasto “unico”, del periodico Dimensione urbana diretto dallo scrivente).

Cardia sosteneva la necessità che i problemi connessi allo sviluppo ed al “ruolo internazionale” dell’area cagliaritana fossero portati, quanto prima ed in forme organiche, all’attenzione dell’opinione pubblica al fine di ottenere – dalle istituzioni comunitarie, dallo Stato e dagli enti pubblici e dai privati interessati – precisi impegni di ordine politico, normativo, economico e finanziario.  In particolare rivendicava un contributo specifico e qualificato dello Stato e della Comunità Europea per definire e rendere concreto il ruolo dell’area cagliaritana (e, per tale via, dell’intera Sardegna) – nel contesto europeo, mediterraneo e internazionale – quale regione di confine a Sud della CEE e tramite naturale per gli scambi e le relazioni politiche e cooperazionali tra l’Europa, l’Africa e i Paesi Arabi.

A tal fine Cardia riteneva necessario individuare, preliminarmente, la dimensione operativa idonea per una corretta pianificazione e gestione economica del territorio: quella “dimensione urbana” – come amava definirla (altri parlavano invece di “città metropolitana” o di “area vasta”) – in grado di assicurare la corretta gestione dei servizi pubblici, delle infrastrutture civili, delle risorse naturali e ambientali e di garantire, al tempo stesso, la realizzazione di un programma di promozione e utilizzo dei beni economici e culturali presenti nell’area. In tale prospettiva era evidente che le tradizionali dimensioni “amministrative” della città risultavano del tutto inadeguate. Occorreva dunque andare al superamento di quei confini, troppo angusti, attraverso l’individuazione di un ambito e di un processo associativo (tra il vecchio “centro” e le municipalità esistenti nell’area urbana cagliaritana)  con finalità di pianificazione e gestione.

Veniva quindi individuato un ambito territoriale esteso all’incirca   15-20 chilometri dal vecchio “centro”. I comuni di Capoterra, Sarroch, Assemini, Decimomannu, Maracalagonis, Sinnai, Quartu Sant’Elena, Selargius, Sestu e Uta con Cagliari (e con le allora “frazioni” di Monserrato, Quartucciu, Elmas e Pirri) avrebbero dovuto individuare obiettivi comuni di sviluppo, di riequilibrio e di riorganizzazione civile e culturale. Tutto ciò, ovviamente, poteva ottenersi solo superando auguste visioni municipalistiche e particolarismi ristretti, purtroppo duri a morire. Peraltro – come non si stancava mai di ripetere Cardia – non vi era problema economico, di infrastrutture e di servizi essenziali che non richiedesse, per soluzioni adeguate, un contesto operativo più ampio, una nuova dimensione anche territoriale: quel contesto sarebbe stato il naturale banco di prova dell’intervento coordinato (da parte di enti locali territoriali, Regione Sardegna, Stato italiano e Comunità Europea) di cui si prefigurava l’avvio. Intanto il Gruppo del PCI al Consiglio Regionale aveva presentato una articolata mozione sulle “aree urbane”. Di quella mozione Cardia, sebbene non facesse parte del Gruppo consiliare, era – con Eugenio Orrù che ne aveva curato la materiale stesura – il vero ispiratore e ideologo.

Da un punto di vista operativo il piano per lo sviluppo integrato dell’area cagliaritana avrebbe dovuto trovare realizzazione mediante una concentrazione straordinaria di mezzi, misure ed energie e, in primis, attraverso l’utilizzo congiunto delle risorse finanziarie locali, regionali, statali ed europee per l’attuazione di un progetto complessivo che avrebbe potuto costituire un importante punto di riferimento – anche a livello europeo – per la sperimentazione, in area mediterranea, di processi di armonizzazione tra attività produttive, ambiente naturale, patrimonio storico, beni culturali e artistici. Occorre anche considerare – per avere un quadro di riferimento più completo – che in quegli anni erano in corso di attuazione, col qualificante intervento comunitario, il progetto a favore dell’area metropolitana di Napoli, il piano per Belfast, l’“operazione integrata Friuli Venezia Giulia – Europa” e il “progetto speciale Palermo”. Vi erano dunque validi modelli di riferimento, anche sul piano operativo, ai quali Cardia aveva accesso per il ruolo ricoperto a Strasburgo.

Per un approfondimento della problematica – quando era consigliere comunale e parlamentare europeo (salvo errore nel 1983) – organizzò un viaggio a Strasburgo, nella sede del Parlamento Europeo, al quale parteciparono alcuni consiglieri comunali appartenenti a forze politiche diverse (ricordo Paolo Atzeri, Edoardo Usai, Mario De Sotgiu, Michele Di Martino), finalizzato a valutare proprio la possibilità di ottenere il cofinanziamento  della Comunità Europea per l’attuazione del piano di sviluppo integrato dell’area urbana cagliaritana, quale motore per la rinascita dell’intera Sardegna. Purtroppo quegli sforzi non erano destinati ad attecchire.

Discorso sostanzialmente analogo – ancorché in un quadro di riferimento profondamente mutato – verrà ripreso, molti anni dopo, col progetto “Cagliari capitale”  portato avanti dalle forze politiche oggi al governo della città ed in particolare dal sindaco Emilio Floris. Infatti tale progetto non solo è teso a valorizzare Cagliari come “città del mare” e “città integrata” ma soprattutto mette al centro delle potenzialità di sviluppo la “dimensione mediterranea”. Tra le iniziative promosse  nell’ambito di tale progetto figura la creazione del network denominato “rete delle città murate” nel bacino del Mediterraneo che prevede tre azioni specifiche: a) la definizione degli aspetti che caratterizzano l’identità storica ed ambientale della città di Cagliari e che costituiscono altrettanti punti di forza del suo sviluppo; b) l’individuazione di altre città del bacino del Mediterraneo aventi analoghe caratteristiche; c) la creazione di una rete stabile di città, cui possano essere associate Cagliari e le altre città mediterranee individuate. Tra le città che già fanno parte della rete figurano realtà come Dubrovnik, Kotor, Biserta, Alessandria, Sidone, La Valletta, Paphos, Bari, Livorno, Gaeta e tante altre.

Va altresì considerato che, con un protocollo d’intesa sottoscritto nel luglio del 2005,  è nato il “Forum permanente dei sindaci dell’area vasta di Cagliari” che costituisce in qualche misura un primo momento di sintesi degli impegni e dei programmi delle diverse amministrazioni che gravitano intorno alla capitale: è l’area urbana integrata di cui parlava Cardia. E i sindaci di Cagliari, Quartu Sant’Elena, Quartucciu, Selargius, Monserrato, Elmas, Assemini, Decimomannu, Sestu e Capoterra ne fanno parte. Tra gli obiettivi fissati dal protocollo figurano: il coordinamento delle politiche di pianificazione territoriale e urbanistica; la valorizzazione delle risorse ambientali, patrimonio da salvaguardare e rendere fruibile quale elemento trainante delle politiche di sviluppo del territorio; la creazione di un sistema integrato e funzionale di trasporti locali e viabilità; l’attivazione di un sistema integrato di servizi e iniziative volto a sviluppare le energie e le opportunità imprenditoriali locali. Sembra di sentire Cardia.

Come parlamentare europeo Cardia si occupò soprattutto di “sviluppo regionale” e di “trasporti”, della cui Commissione era vicepresidente. Particolare attenzione riservò ai problemi dei collegamenti fra le regioni marittime e periferiche. Ma si occupò anche di lingue e culture minoritarie ritenendo che la questione della lingua sarda dovesse essere affrontata nell’ambito di un quadro più generale: quello delle minoranze a livello europeo e internazionale. Tra l’altro fu uno dei redattori della proposta di risoluzione su una “Carta delle minoranze etniche e linguistiche” approvata dal Parlamento Europeo e promotore del convegno sulle lingue meno diffuse (Nuoro, 1986) organizzato dall’ISPROM col Bureau européen pour les langues moins répandues i cui lavori  erano stati introdotti da una stimolante relazione di base del prof. Giovanni Lilliu, accademico dei lincei.

Ovviamente non era un linguista per cui il problema del recupero della lingua sarda (come mezzo espressivo efficace a tutti i livelli della comunicazione e del sapere, quindi non solo come oralità ma anche e soprattutto come scrittura) era da lui visto solo negli aspetti politici ed istituzionali. Osservava che, dal punto di vista politico, il problema si poneva all’interno di una questione più vasta e complessiva: “quella dell’acquisizione, attraverso il recupero della nostra tradizione politico-civile, del senso e della fierezza della nostra soggettività collettiva come popolo distinto nel passato e nel presente. Il che implica l’unica possibilità di padroneggiare, in qualche modo, il nostro futuro”.

Osservava come la cultura sarda fosse una “cultura plurilingue”. Infatti, se la Carta de Logu (la più alta espressione della lingua sarda scritta, dalla quale poteva e doveva partire ogni serio progetto di ricomposizione unitaria della lingua sarda moderna) era scritta in volgare sardo trecentesco, l’opera storica di Gian Francesco Fara era scritta in latino umanistico, i Comentarios di Vincenzo Bacallar in castigliano, i Progetti, i Programmi e i Proclami di Giovanni Maria Angioy in italiano (al pari delle opere di Giovanni Battista Tuveri, Giorgio Asproni, Emilio Lussu, Grazia Deledda, Sebastiano Satta, Giuseppe Dessì, Antonio Gramsci e di altri sardi illustri).

Peraltro il fatto che la nostra sia una “cultura plurilingue” nulla toglie alla sua continuità e alla sua concentrata sardità, nel senso della identità e della appartenenza etno-storica. Perchè in quegli scritti – al di là della lingua che ne costituisce il codice espressivo – è possibile ritrovare la nostra cultura, la nostra identità di popolo distinto ed il travaglio della formazione unitaria del popolo sardo. Questo patrimonio (risultato dell’opera di centinaia di letterati, politici, storici, giuristi, economisti)  è però in gran parte sommerso, fatto questo che – secondo Cardia – sta alla base del “mancato congiungimento, al livello di coscienza critica e collettiva, di sapere diffuso e di senso comune con la nostra cultura scritta e con il passato storico che essa sintetizza ed esprime”: era questo il “male oscuro” che frenava il pieno dispiegamento della nostra personalità di popolo distinto e limitava dall’interno la nostra capacità linguistica.

Per ovviare a tale “gap” Cardia era stato uno dei massimi fautori della pubblicazione degli Acta Curiarum Regni Sardinae – ancora in via di realizzazione da parte del Consiglio Regionale della Sardegna – dallo stesso ritenuta la più preziosa documentazione storica della vita politica e civile della nostra Isola e delle sue aspirazioni profonde. Aveva inoltre lavorato per la riedizione, in un corpus unitario, filologicamente rigoroso ma accessibile al lettore medio, di tutte le espressioni della “cultura sarda scritta”.  L’iniziativa doveva concretizzarsi in un primo tempo attraverso l’ISBES, l’Istituto Bibliografico Editoriale Sardo (presieduto dal compianto Anselmo Contu), e poi nell’ambito delle attività svolte dall’ISSRA, l’Istituto Sardo per la Storia della Resistenza e dell’Autonomia. Venne redatto, nel 1991, anche un primo Catalogo storico ragionato degli scrittori sardi dal IV secolo al XX secolo. In realtà – se si eccettuano gli scritti dei vescovi Eusebio e Lucifero e di papa Gregorio Magno – l’elenco inizia con Antonio Cano, nato a Sassari alla fine del XIV secolo. In ogni caso si trattava di uno sforzo quasi titanico, purtroppo rimasto incompiuto.

Cardia sosteneva che “non è la lingua che produce soggettività autonoma e moderna, ma, all’incontrario, sono la coscienza e la volontà di affermare la propria soggettività in tutti i campi – soggettività che vuole e conseguentemente opera e lotta – a costituire la sorgente segreta e riposta da cui fluisce la creatività espressiva e linguistica. Se questo è vero – scriveva Cardia nel 1988 – il problema politico della nostra lingua, parlo della lingua della Carta de Logu, non delle derivazioni cantonali e dialettali di questa lingua, si pone non tanto come un’esigenza di immediato riconoscimento di parità giuridica, riconoscimento per il quale occorre tuttavia operare con continuità ed efficacia, quanto come uno sforzo, una grande tensione autonomistica collettiva, politica e culturale di tutta la Sardegna, popolo e istituzioni, perchè, ottenute talune condizioni elementari (ingresso della lingua sarda nella scuola e nella cultura di massa) …. possa essere arrestato il corso di dialettizzazione, frantumazione, oralizzazione che dura da quasi sei secoli, in relazione alle vicende storiche, politiche e civili attraverso cui siamo passati, e sia avviato un processo inverso di unificazione, ricomposizione e sviluppo del mezzo linguistico, specie a livello di scrittura. Tale processo, se deve avvalersi di tutte le strumentazioni tecniche disponibili, non può tuttavia non avere la sua base fondamentale nella creatività del nostro popolo e in primo luogo dei suoi scrittori, dei suoi intellettuali, dei suoi poeti, di tutti coloro, cioè, che non solo parlano in famiglia, al bar o nei campi, la lingua materna ricevuta ma la forgiano e la incrementano come mezzo universale di comunicazione, di espressione e di cultura scritta”.

Altro versante di grande impegno per Cardia era quello teso a dare contenuti all’autonomia della Sardegna ed alla sua specialità. Al riguardo il suo pensiero si ricollegava alla tradizione gramsciana ed all’elaborazione fatta da Renzo Laconi. La questione sarda, come questione etno-storica, nelle sue diverse componenti (non ultima – come si è visto – la lingua), era stata attentamente scandagliata da Cardia il quale era convinto che la stessa presentava tratti comuni con analoghe questioni che riguardavano altre culture minoritarie ed altri popoli per cui poteva trovare adeguata soluzione solo nell’ambito di contesti più evoluti  (comunità nazionali e plurietniche). Attraverso le sue lucide analisi era spesso un anticipatore dei dibattiti più importanti (v. “questione urbana”, Banca mediterranea di sviluppo, nuova concezione dell’autonomia).

Cardia ad esempio riteneva che l’idea autonomista, in Sardegna, avesse radici assai antiche che ci riportano alla lunga lotta condotta dagli arborensi contro lo strapotere catalano-aragonese per la conservazione delle istituzioni autoctone. La quercia dalle radici divelte, emblema di quel giudicato, secondo Cardia, era anche il “simbolo di un’antica e dolorosa frattura, di una ferita ancora aperta, il cui ricordo ci richiama alla nostra condizione, che permane, di subalternità, di sottosviluppo, di insicurezza, mali tutti che attengono alla sfera sia delle cose che della psiche individuale e collettiva”.

Quell’idea, forse già presente in epoca giudicale, trovò linfa vitale all’interno degli stamenti, gli antichi parlamenti sardi: dunque un’idea peculiare che attraversa i secoli e le diverse classi sociali. Cardia – che aveva attentamente studiato le opere di Francesco Loddo Canepa e Antonio Marongiu – riconosceva e valorizzava la funzione autonomistica svolta dalla nobiltà sarda, all’interno e fuori degli stamenti, specialmente in alcuni parlamenti del Seicento, fino a giungere a quella “rivoluzione sarda” del 1793-94 che in qualche modo segnò l’apice di tali aspirazioni. Aveva a lungo studiato il percorso politico e ideale di Giovanni Maria Angioy e quello di Vincenzo Sulis.

Cardia era contrario ad ogni forma di dogmatismo, di meccanicismo, di schematismo dottrinario, di settarismo e di economicismo e navigava con sicurezza all’interno di un universo tematico che spaziava da Polanyi a Rotschild per giungere fino all’ermeneutica di Hans Georg Gadamer  che riqualificava il valore della tradizione quale orizzonte che determina la coscienza dell’individuo in rapporto con la storia e il mondo che lo circonda. Per Gadamer il progetto di un orizzonte storiografico costituisce solo una fase dell’atto del comprendere che non si irrigidisce nella definitiva estraneità di una coscienza passata ma viene raggiunto proprio partendo dal peculiare orizzonte interpretativo del presente (v. Verità e metodo, 1983). Cardia era un autonomista convinto, ma in senso moderno. L’autonomia veniva da lui concepita come sistema aperto, in perenne evoluzione e in rapporto continuo con altre realtà apparentemente lontane.

E’ noto che l’idea dell’autonomia in Sardegna ha conosciuto momenti esaltanti, che l’hanno portata alla ribalta della grande storia, e momenti di regresso che l’hanno come inghiottita in quella sorta di fiume carsico che appare e scompare rifugiandosi spesso nelle pieghe della storia minima di un popolo “oppresso” e nelle sue più secrete vicissitudini. La peculiarità di tale idea autonomista la si ritrova in Gramsci che, nel Congresso di Lione, aveva elaborato per la Sardegna “i lineamenti  e i contorni di un processo rivoluzionario autonomo, capace di emergere e di imporsi proprio in virtù delle particolarità storiche e delle specifiche strutture e condizioni sociali e ambientali” che si erano determinate in questa Isola nel corso dei secoli.

Ultimata la lunga esperienza politica di consigliere regionale, deputato e parlamentare europeo, Cardia si era dedicato a studiare in maniera organica e con maggiore approfondimento la storia plurisecolare della Sardegna, come vicenda di un “popolo distinto” dai suoi dominatori, di un gruppo autoctono, dotato di una peculiarità etno-storica e culturale. Era un percorso di studi che, nel corso degli anni, aveva iniziato – ancorché in modo frammentario – e che aveva trovato una prima sistemazione nel libro La quercia e il vento (1991) ove raccoglie i passaggi salienti di una più vasta riflessione sulla specifica tradizione politica e civile della Sardegna e sul legame tra questa tradizione e i problemi del presente. Ulteriori ricerche ed approfondimenti vennero successivamente raccolti nel libro Autonomia sarda (1999) di cui peraltro,  per ragioni di salute, non poté curare di persona la stesura e le correzioni finali.

Per Umberto Cardia la culla dell’autonomismo non doveva essere ricercata nel mondo rurale e pastorale ma nella città di Cagliari e nelle aspirazioni dei ceti urbani. “Il Castello di Cagliari – scriveva Cardia – non è solo il monumento, la forma, su cui hanno impresso il loro marchio i dominatori pisani, aragonesi, spagnoli, austriaci, piemontesi: in esso, e in modo diverso anche negli altri quartieri antichi, si raccolgono gli spazi, gli edifici, i luoghi entro cui, un popolo oppresso si mosse e lottò contro i propri oppressori, in un’alternanza di successi effimeri o limitati, ma anche di sconfitte e di silenzi non definitivi. In questi antichi quartieri si svolsero, in un’interessante connessione di ceti popolari e gruppi intellettuali indigeni, l’opposizione antispagnola fino all’uccisione d’un vicerè, la lotta antipiemontese fino alla cacciata di tutti i piemontesi, la vita movimentata dei Parlamenti sardi, gli episodi salienti della sommossa popolare del 1906”.

Per tale ragione Cardia vedeva nel riuso e nel recupero edilizio e monumentale del centro storico di Cagliari “una impresa di rilievo civile e culturale mediterraneo ed europeo, tenuto conto che il Castello e le sue appendici, con tutte le loro stratificazioni, sono uno dei monumenti collettivi più espressivi della civiltà europea nell’area mediterranea”. Come si vede si tratta di concetti che tuttora rivelano quel notevole spessore politico, culturale e progettuale che ha caratterizzato l’opera di Umberto Cardia. Ancora oggi penso a lui  come maestro di politica, di rigore, di ragionata modestia, di stile e di disponibilità umana. Penso al suo fastidio per il pressapochismo, per il genericismo, per la ripetizione dei luoghi comuni, per l’esteriorità vuota, per la mancanza di senso critico, per ogni forma di schematismo e di accademismo. Di lui mi colpiva l’implacabile assiduità, la puntigliosa cura dei particolari, la necessità di verificare ogni affermazione teorica con la prassi, la sua dialettica politica che lo portava  a propugnare un ideale autonomistico moderno, su basi scientifiche, liberato dai luoghi comuni e dalle incrostazioni folkloriche.

Ricordo un viaggio in Gallura, in automobile, con l’economista Pino Usai, di cui era fraterno amico, ove si parlava animatamente di “sardismo” e di “autonomismo”. Cardia  criticò senza mezzi termini le posizioni  di quanti, anziché aprirsi verso la modernità, esprimevano posizioni di chiusura, di “difesa autarchica”: per lui si trattava di posizioni assolutamente sbagliate, di retroguardia, antistoriche, perché la specialità della Sardegna non era da ricercare nella mastruka (la  rudimentale veste di pelle dei nostri pastori)  ma nei peculiari caratteri della civiltà sarda: caratteri etnostorici e culturali, emersi nel corso di una vicenda plurisecolare, che dovevano – e tuttora devono – costituire la base della nostra specificità, il punto di partenza per confrontarci col mondo moderno.

Cardia – come detto – aveva studiato, con l’attenzione e la competenza che tutti gli riconoscevano, gli atti dei parlamenti sardi  (dalla loro istituzione sino alla definitiva liquidazione a seguito della “fusione organica” con gli Stati di terraferma) cogliendo le radici più profonde dei moti politici, sociali e civili che avevano attraversato la Sardegna per giungere alla conclusione – di innegabile valore storico e politico – che “la rivendicazione centrale del popolo sardo, nella sua storia postgiudicale, non é l’indipendenza statale, la separazione e la formazione di uno stato separato e sovrano”. Quel che si rivendica é invece una autonomia forte ed efficace, “integrale”, ma che resta nel quadro di più vaste entità politiche nazionali e statali. Aveva studiato anche la crisi del “Parlamento Camarassa” che culminò, nel giugno del 1668, con l’uccisione di don Agostino di Castelvì, marchese di Laconi (definito dal Loddo Canepa come come il “leader degli interessi sardi”), e, un mese dopo, del vicerè don Manuel de Los Cobos marchese di Camarassa. Aveva approfondito quella stagione,  densa di luci e di ombre, sino all’epilogo  verificatosi la notte del 25 luglio 1671 con i tragici fatti dell’Isola Rossa. Riteneva che tali eventi avessero il carattere misto di congiura aristocratica e, al tempo  stesso,  di sollevazione antispagnola e autonomistica.

Ma a cosa aspiravano gli aristocratici che – soprattutto all’interno dello stamento militare – si erano coalizzati intorno al marchese di Laconi? Aspiravano non solo alla riduzione del “donativo”, divenuto assai gravoso in considerazione delle condizioni economiche e sociali della Sardegna, ma anche a riservare i principali incarichi (gli impieghi come si diceva allora) ai sardi: questione non corporativa e cetuale – secondo Cardia – ma elemento centrale della rivendicazione autonomistica sarda contro il dominio spagnolo prima e piemontese poi.

Tale questione infatti era destinata a riemergere, come rivendicazione centrale, nel contesto delle “cinque domande” (o “cinque punti”) che la delegazione del Parlamento sardo – risorto dalle sue ceneri nel 1793 – presenterà al governo di Torino. La Carta dei diritti della Sardegna del 1793-94, sintetizzata nelle famose “cinque domande”, non nasceva dal nulla ma rappresentava il frutto di una lunga e tormentata gestazione durata diversi secoli a partire dalla caduta degli arborensi. “La riserva degli impieghi era in realtà l’unico modo in cui la rivendicazione dell’autogoverno e dell’autonomia, rispetto ad ogni pretesa esterna, poteva essere posta in tempi in cui il principio etnico  e di nazionalità non era ancora sorto in Europa o appena albeggiava e la crisi delle grandi monarchie assolute aveva preso l’abbrivo sotto l’impulso delle idee della Grande Rivoluzione” (v. Autonomia sarda, p. 129) ma anche in antitesi -non va dimenticato – con le pretese egemoniche della borghesia termidoriana.

Cardia aveva approfondito gli studi sul periodo rivoluzionario del 1793-94 ritenendo che quei fermenti avessero avuto origine in un moto di risveglio degli spiriti e dell’economia che urtava contro il permanere degli antichi assetti feudali. Tale moto si esprimeva nella rivendicazione di nuovi diritti, di nuove libertà e di nuove istituzioni politiche ed economiche. Anche in Sardegna  si stava gradualmente formando una piccola e media borghesia “sensibile alle suggestioni ed alle istanze di autonomia che sgorgavano dalla storia e dalla duplice oppressione del presente, quella feudale e quella piemontese”. Aveva approfondito tutto quel periodo di sollevazioni profonde degli animi e degli spiriti – durato oltre tre decenni che vanno dalla sommossa di Sassari (1780) fino alla congiura di Palabanda (Cagliari, 1812) – che aveva visto, in tutta la Sardegna, il propagarsi di un sentimento d’orgoglio e di esaltazione della propria identità etnica e nazionale.

Cardia aveva svolto  specifici studi  – anche sulla scorta dell’elaborazione di Renzo Laconi – riguardanti le false Carte d’Arborea, misteriosamente comparse nel 1845, giungendo alla conclusione che le stesse – quali che fossero stati gli scopi della falsificazione – rappresentassero un estremo tentativo di illuminare, e di spingere il più indietro possibile nel tempo, le origini dei giudicati e, più in generale, la storia della Sardegna. Dunque un falso in qualche misura “storico” che, come aveva evidenziato Renzo Laconi, rispondeva – alla luce del contenuto delle Carte -  a quell’ “esigenza rivendicativa che stava alla base di tutta la ricerca storiografica sarda”. Questa – quale riflusso della coscienza collettiva del popolo – era dunque sorretta da una forte domanda di identità, da una volontà di libertà e autoespressione, di superamento della subalternità. Aveva studiato anche tutta la storiografia dell’Ottocento in Sardegna con specifici approfondimenti critici su Giovanni Siotto Pintor, Giorgio Asproni, Giovanni Battista Tuveri ed altri illustri personaggi fra i quali il Martini, il Manno, lo Spano, l’Angius e il Tola.

La ricerca storica era stata approfondita – senza soluzione di continuità – sino agli anni della lotta partigiana e della liberazione, con  studi e  riflessioni sul pensiero di alcuni dei principali protagonisti della prima metà del Novecento in Sardegna: Antonio Gramsci, Francesco Cocco Ortu, Giovanni Maria Lei Spano, Camillo Bellieni, Emilio Lussu, Attilio Deffenu, Jago Siotto, Angelo Corsi. Aveva dato un notevole – e per certi aspetti originale – contributo per liberare il pensiero gramsciano dalle deformazioni che da più parti, ed in forme anche contraddittorie, erano giunte. In tale lavoro aveva evidenziato le tensioni e i contrasti tra Gramsci e il gruppo dirigente del Partito Comunista d’Italia (quindi Togliatti) a seguito della “svolta” degli anni Trenta e l’utilizzo distorto che poi – a partire dai primi anni della Repubblica – era stato fatto del pensiero e del patrimonio politico e culturale di Gramsci.

Apprezzava molto l’opera e il pensiero di Emilio Lussu, sia come ideologo che come uomo d’azione anche se dallo stesso si differenziava per formazione politica e culturale. Lussu era figlio della montagna sarda, di una montagna dura, dominata dal vento, dal silenzio e dall’isolamento. Cardia esprimeva invece le esigenze e le aspirazioni dei ceti urbani ed in particolare degli intellettuali. In tale lavoro aveva un confronto continuo con gli storici di professione: ricordo i rapporti – talvolta fatti anche di reciproca diffidenza – con alcuni di essi (ad esempio Giangiacomo Ortu di cui ammirava il rigore critico); ricordo l’amicizia con Giancarlo Sorgia, Tito Orrù e Francesco Cesare Casula coi quali si confrontava con assiduità.

Cardia nel suo lavoro di ricerca storiografica, svolto con la lente dello storico-politico, operava secondo il metodo e con gli strumenti della storiografia contemporanea che mette a vantaggio della ricostruzione e della riflessione le scienze della struttura e delle formazioni sociali, l’economia, la linguistica, l’antropologia, l’analisi comparata delle istituzioni, la tradizione orale, i miti, l’etnos (identità culturale) e l’ethos (insieme di comportamenti) complessivi dei popoli e del popolo sardo in particolare. Seguiva quello stesso metodo, che fu di Renzo Laconi, teso a  “strappare dalla notte dei tempi le memorie disperse, a ricomporle con filiale pietà in una storia unitaria della patria, a restituire al popolo che di questa storia era stato protagonista una sua fisionomia, un suo volto, che recasse magari i segni della sconfitta e della soggezione, ma rivelasse, tuttavia, l’impronta di una individualità, d’un proprio carattere nazionale” (R. Laconi).

In conclusione la vicenda politica e intellettuale di Cardia è stata quella di un uomo di grande cultura e sensibilità, una delle voci pensanti più valide della Sardegna del Novecento. Per lui ogni problematica doveva essere analizzata con rigore e ogni indicazione di percorso presupponeva sempre non solo una riflessione attenta ed obiettiva ma anche la successiva verifica.

Il punto d’arrivo doveva essere l’uomo inteso come “coscienza individuale” non come “meccanismo”. In ciò si faceva sentire l’influsso dell’opera di Antonio Pigliaru. A volerci ben pensare la sua critica ferrea e senza cedimenti alle tragedie delle persecuzioni staliniane, al dogmatismo ed allo schematismo dottrinario imperante nell’URSS (ma anche, per lungo tempo, tra i comunisti italiani) aveva alla base una concezione dell’uomo come “individuo”: un individuo che – superati gli steccati della vita, della storia, delle razze, delle religioni e dei continenti – doveva adempiere alla precisa missione di favorire lo sviluppo pacifico e il progresso dell’umanità intera. In ciò risiede, a mio avviso, l’eredità ultima e più profonda di Umberto Cardia.

 

Antonello Angioni

 

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